giovedì 20 gennaio 2022

Bowie tra finzione e realtà

 Questa è una storia in bilico su un confine.

Un inciampo che destabilizza e fa perdere l’equilibrio se non si presta cautela nel varcare la soglia.

E’ il confine tra realtà e finzione.

La cosa si complica quando siamo costretti a discernere in un mondo dove realtà e finzione si mescolano al punto che è quasi impossibile individuarne i lembi precisi dell’una e dell’altra.

Ci sono ambiti in cui questa difficoltà è più marcata.

Narrativa, linguaggio cinematografico e soprattutto arte ad esempio.

David Bowie ci andava a nozze con il mischiare le carte.

La sua conoscenza dell’arte di certo l’aiutava. Ma andiamo con ordine.

Nel 1995 usciva l’eclettico lavoro 1.Outside: una riuscitissima incursione nell’industial art rock e nel trip hop,in una cornice di citazioni artistiche pazzesca.

La storia si incardinava sulle vicende dell’art detective (alterego di Bowie) Nathan Adler alle prese con una indagine alquanto complessa .

Un passaggio del Diario di Nathan Adler ci introduce nell’argomento che mi interessa.

Eccolo:

Lo stesso Nicolas Serota ci ha giudicati, noi pesci piccoli del dipartimento, degni di un’esposizione alla Biennale di Venezia dell’anno scorso: tre stanze di testimonianze certe e studi comparati che hanno definitivamente provato come la vacca nel “Test dell’occhio innocente” di Mark Tansey non può discriminare tra il torello di Paul Potter, del 1647 (incidentalmente 300 anni giusti prima che io nascessi) e uno dei covoni dipinti da Monet nel 1890.

 

A cosa si riferisce Bowie quando parla di “Test dell’occhio innocente” di Mark Tansey ?

Narrazione della realtà o finzione artistica?

Entrambe.

E qui la faccenda si complica.

Aiutiamoci con la foto del quadro. Si perché quel quadro citato esiste, eccome.

 


 

Nel dipinto è rappresentata questa scena: nella sala di un museo è stata portata la tela del monumentale De Stier (Il giovane toro) di Paulus Potter (1647, al Mauritshuis di L’Aia). Di fianco al grande dipinto secentesco resta alla parete, nella sua dignitosa cornice, uno dei covoni di Monet (con tutta probabilità quello innevato del Museum of Fine Arts di Boston).

La scena prevede che la sala del museo si trasformi in un laboratorio e si popoli di camici bianchi e distinti uomini occhialuti,scienziati esperti delle reazioni che un bovide debba o possa esprimere di fronte ad una  mucca dipinta,forse la madre del giovane toro di Potter.

Una mucca in una sala di museo, di fronte a un dipinto appena svelato, può destare qualche preoccupazione: ma per ovviare a qualsiasi inconveniente c’è anche lo scopettone per, eventualmente, pulire.

The innocent eye test, è il titolo dell’opera di Mark Tansey (1981, al Metropolitan di New York) racconta questa storia con l’intento di deridere il fenomeno  della tradizione accademica da una parte, e simmetricamente di ragionare sul mito, della percezione pura (e naturale) dell’immagine, di contro alla percezione intesa come atto culturalmente connotato. Per i teorici questo è il punto: cosa vede un occhio innocente nell’incontro con uno sguardo dipinto? 

Perché il punto sta lì.

 E’ l’arte che ci guarda o siamo noi che guardiamo l’arte?

Non solo. 

La mucca che osserva innocente, da cosa sarà attratta?

 Dal covone di Monet (metafora del cibo) o il toro di Potter ( metafora del sesso) entrambi elementi legati alla sopravvivenza.

Se l’occhio innocente del Toro non vede nulla neanche l’occhio del bovino che guarda la tela dipinta è innocente.

Oppure l’innocenza dell’occhio consiste proprio nel fidarsi della rappresentazione pittorica.

E tuttavia nessuno saprà mai cosa vede la mucca, se vede se stessa, se vede un’altra mucca, se vede un dipinto che raffigura una mucca (la più improbabile delle ipotesi).

Il bovino quindi non discerne come dice Adler-Bowie come testimoniato dalle tre stanze colme di studi della Biennale di Venezia.

 

Tutto un gioco di realtà e finzione.

Ci si mette anche  la tecnica utilizzata dal contemporaneo Tansey che gioca con questo equivoco. Lui, pittore iperealista rappresenta una scena come se fosse presa da un documento scientifico vintage dell’ottocento.

 

Finzione e/o realtà, appunto.

Gioco di confini, di difficoltà di leggere un mondo impermanente.

Il nostro.

A noi forse scegliere.

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