lunedì 22 novembre 2021

QUANTO E' DIFFICILE TROVARE L' ALBA DENTRO L'IMBRUNIRE Intervista a Fabio Cantelli prima parte


 

Ho l'onore e il piacere di porre qualche domanda all'amico Fabio Cantelli Anibaldi su arte, processo creativo ed altro.

Fabio già vice presidente del Gruppo Abele di Torino, giornalista e filosofo ha pubblicato il bellissimo "Sampa. Madre amorosa e crudele" per Giunti, libro dal quale è stata tratta la serie televisiva Sampa per Netflix in cui si narrano le vicende della comunità terapeutica di San Patrignano, nella quale Fabio è stato ospite per molti anni, dagli albori fino alle vicende di cronaca degli anni novanta.

Fabio Cantelli risponde alle mie domande con la densità e la cura che contraddistinguono i suoi approfondimenti, i suoi scritti che sono sempre carichi di rimandi ad un interrogarsi mai definitivo.

Vi lasci alla lettura di questa prima parte.

 

 «Nessuno ha mai scritto, dipinto, scolpito, modellato, costruito o inventato se non per uscire letteralmente dall’inferno». Così Artaud definiva il processo creativo inteso come necessità per l’artista di uscire dai propri inferni, uscire dagli schemi involutivi che imprigionano le nostre autentiche libertà. Cosa rappresenta per te il processo creativo?

 

Antonin Artaud – il cui nome pronuncio col timore e tremore dovuti a una figura senza la quale non sarei ciò che sono – aveva una sensibilità ancora influenzata dal Romanticismo, di cui peraltro siamo tutti figli. Mi riferisco alla parola “inferno”, con cui Artaud designa la vita. Inferno tale, però, solo per chi dopo il trauma della nascita si aspetta piaceri e nutrimenti paradisiaci, aspettativa tragicamente delusa perché quando veniamo al mondo il paradiso l’abbiamo già vissuto, salvo che non possiamo saperlo. Il paradiso è infatti la terra premessa, non “promessa”. Voglio dire che ad Artaud – come, prima, ai Romantici – sfuggì che il paradiso è ciò che ognuno di noi vive anzi più propriamente è prima di nascere, quando siamo vita elementare, incosciente ma senziente, vita sciolta nell’indifferenziato del grembo materno, «aria nell’aria, acqua nell’acqua» per usare le parole di un’altra figura decisiva per la mia formazione: Georges Bataille. Stato di cui non abbiamo coscienza né, quindi, esperienza, ma di cui ogni cellula del nostro essere serberà per sempre memoria, celata in quelle profondità dove la percezione è congiunzione di nulla e tutto, dove il corpo senziente è già corpo sapiente. È questa vita immediata priva ancora di soggetto – essendo il soggetto un mediatore – il motore e l’oggetto dell’arte, secondo me. La cosiddetta realtà – parola che Nabokov invitava a mettere sempre tra virgolette – funge solo come invito all’altrove, altrove che a ben vedere o meglio ben sentire, è già da sempre qui, qui ed ora. Questo Artaud credo non lo percepì perché l’“inconveniente” di essere nati, per usare il magnifico eufemismo di Cioran, fu in tutto e per tutto per lui una tragedia. «È così che fui bambino nello scandalo del mio io» scrisse nel manicomio di Rodez nel 1946, due anni prima di morire. Ecco allora le manie persecutorie, l’immaginarsi vittima di fatture ecclesiastiche e trame psichiatriche volte a legarlo a un mondo che lo rigettava così come lo aveva rifiutato il grembo materno: «È un vero disperato che vi parla e che conosce la felicità d’essere al mondo solo adesso che ha lasciato questo mondo e ne è assolutamente separato. Morti, gli altri non sono separati: girano ancora intorno ai loro cadaveri. Io non sono morto, ma sono separato». Così Artaud conclude l’introduzione a “Le nuove rivelazioni dell’Essere”, testo scritto nel 1937 poco prima dell’internamento a Rodez. Allo stesso modo, sempre scrivendo della disperazione di essere al mondo – disperazione definita “capitale” – aveva usato l’espressione “vuoto genitale” laddove si tratta di quel “tutto pregenitale” che precede la nascita. Un tutto da cui è impossibile separarsi essendo genitore e ombra del nostro vagare sulla Terra. Quale che sia insomma la forma artistica, essa è espressione, o meglio, evento del tutto. In ogni sua espressione l’arte è tutto che accade in parte e come parte, e artista è solo chi da mediatore riesce a farsi “medium”, puro tramite tra vita e morte, cielo e inferno. Arte significa autotrascendenza, testimonianza di ciò che si è visto al di là dell’io. Non c’è arte senza metamorfosi dall’io in Sé, cioè senza “amor fati”, per usare la formula di un altro veggente internato quarant’anni prima di Artaud: Nietzsche. In tal senso – tornando alla tua domanda – il processo creativo rappresenta per me un ricongiungimento parziale alla mia origine di “non-ancora-nato” con esiti a loro volta fatalmente parziali. Il prodotto del processo creativo è sempre imperfetto e perfezionabile: si tratta allora di portare l’imperfezione al massimo livello, laddove non appare come un difetto ma come un segno credibile e dunque emozionante del nostro vagare sulla Terra. Siamo tutti anime perse e alla ricerca, per fortuna: la differenza sta nel saperlo o meno. Quanto alla ricerca che anima il processo creativo avviene, per quel che mi riguarda, in una sorta di trance, ma nell’automatismo permane sempre un margine di autocoscienza, una breccia di vigilanza. L’espressione artistica nasce dall’incontro tra inconscio e conscio, allorché, riconoscendosi reciprocamente, capiscono di essere uniti all’origine. Questo spiega perché la droga non solo non favorisce il processo creativo ma lo inibisce. Con la droga il margine di vigilanza scompare, come quando un ruscello impetuoso sfocia in un lago: il furore si disperde nella vastità. La droga pacifica, risolve le tensioni e le contraddizioni, annulla la distanza da noi stessi e dagli altri. Sotto l’effetto della droga diventavo statico, inerte e felice di esserlo. Diventavo io stesso opera, creazione, senza esserlo… Tutto quello che potevo dire o scrivere, a quel punto, non poteva che essere banale. L’esperienza era totalizzante al punto da annullare la parola, che vive di scarti e differenze. Un mondo uguale a sé stesso è un mondo del quale letteralmente non c’è nulla da dire.

 Al netto del “puramente decorativo”, dei sentimentalismi e della teatralità del concetto di bellezza, credo che l’opera d’arte autentica contenga sempre un segno traumatico di fondo. Quel trauma generato dall’impossibilità di rappresentare il nostro rapporto con la realtà. La scrittura, la pittura e le arti in genere, cioè il dire con la consapevolezza del trauma, può avvicinarci al “reale” che è in definitiva lo scompaginamento della realtà?

 

Innanzitutto credo sia necessario riflettere sul senso della parola “trauma” riscattandola dall’accezione puramente negativa che, dalla psicologia, si è trasferita al senso comune. In senso diametralmente opposto ritengo che la vita sia nel suo insieme un trauma meraviglioso, pensando alle emozioni stesse come a traumi, posto che la parola trauma rimanda a un verbo che significa ferire, trafiggere, perforare... Direi allora che i traumi sono i varchi che la vita apre nel nostro essere per continuare a fluirci dentro, varchi che sono dolorosi quando incontrano una resistenza, un “io” fortificato nella presunzione di poter dominare la vita, appropriarsene, rappresentarla nella sua totalità, come se una pozzanghera potesse contenere l’oceano… Quindi il «segno traumatico di fondo» di cui parli non è necessariamente un dolore a cui l’espressione dà forma e senso: può essere il ricordo di un’epifania, di un orgasmo, di un’estasi. Ciò premesso, associ al trauma «l’impossibilità di rappresentare il nostro rapporto con la realtà». Io non parlerei d’impossibilità. Impossibilità rispetto a cosa, poi? A una riproduzione letterale della realtà, a un suo doppio? La rappresentazione è sempre un’interpretazione e proprio perché interpreta de-cifra il “reale”. Altrimenti si resta appunto nella “cifra”, nella logica quantitativa della matematica e dell’economia, col rischio di ridurre il perturbante, cioè la vita, a numero, a segno “esatto”. Rischio meravigliosamente rappresentato dall’apologo di Borges sull’imperatore della Cina: l’imperatore vuole una mappa dettagliata dell’impero ma ogni volta che i cartografi gliela mostrano la rimanda indietro, convinto che si possa fare di meglio, che non sia abbastanza dettagliata. Finché i cartografi ne producono una estesa quanto l’impero dunque inservibile, del tutto inutile… Voglio dire che ogni rappresentazione è fatalmente parziale ma ci sono rappresentazioni perfette proprio perché accolgono il loro limite come tramite all’infinito, condizione per poterlo significare. L’arte senza autotrascendenza non è rappresentazione ma autopromozione, manifesto della bravura dell’artista. È la consapevolezza della nostra origine e l’accettazione serena di non potervi ritornare se non – ma nulla garantisce – in punto di morte, a generare “l’arte per l’arte”, che non è estetismo ma un rappresentare fine a sé stesso dunque indecifrabile per la corrente mentalità utilitaristica. Etica di vita riassumibile nell’esortazione della Baghavad Gita a “staccarsi dai frutti dell’atto”, cioè agire senza badare all’esito dal momento che non siamo autori ma attori delle nostre azioni, condannati all’atto come ai lavori forzati. Carlo Sini scrive magnificamente che «non siamo soggetti delle azioni ma soggetti alle azioni». Non possiamo esimerci di fare dal momento che anche non fare è pur sempre un fare. Non possiamo fare a meno di fare perché siamo “vita attiva” dall’origine, da quando eravamo nel grembo. Si tratta allora di fare consapevolmente, e certamente il processo creativo è un fare consapevolmente in trance, un fare che, osservandosi, svetta sopra il fine contingente per entrare nella regione del gratuito e del necessario, cioè del sacro. Agli adolescenti che dopo “Sanpa” ho la fortuna d’incontrare nei licei, dico che la questione della vita è in fondo tutta riassumibile in quel verso di “Prospettiva Nevskij” di Battiato che dice: «e il mio maestro m’insegnò quanto è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire». Il che significa – aggiungo meno poeticamente – trovare l’assoluto nel relativo, l’eterno nel transitorio.

segue...


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