la seconda parte dell'intervista a Fabio Cantelli Anibaldi
Una delle tesi più note di Jean Clair è che il nostro tempo sia il tempo
della morte clinica dell’arte. L’arte muore quando viene reciso il suo rapporto
con l’assoluto della vita e della morte, due stati spesso considerati opposti,
antitetici. Secondo la tua esperienza artistica è possibile cogliere,
rappresentare quel punto di equilibrio, quella verticalità che ci connette con
l’assoluto?
È da quando sono ragazzo che sento parlare
ciclicamente di morte dell’arte, della letteratura, del teatro… Con tutto il
rispetto di Clair l’arte in tutte le sue forme non credo possa essere
considerata solo in ottica storicistica, sociologica, men che meno psicologica.
Occorre una sensibilità e uno sguardo che chiamerei “cosmologici”, i soli che
consentono di capire e prima ancora percepire che il rapporto con l’assoluto è
impossibile reciderlo perché di assoluto, cioè di fame inestinguibile
d’infinito, siamo fatti, a dispetto del nostro patetico rappresentarci autonomi,
disincantati, “laici” e spassionati padroni delle emozioni. Il “tempo
verticale”, espressione ricorrente nei miei testi e interventi, non è una
“teoria” ma un’esperienza che chiunque può fare guardando nel proprio abisso,
dove il tempo è assoluto e fatti anche remotissimi la cui emozione ci ha
dischiuso visioni interiori e esteriori inedite, continuano ad accadere liberi
dai vincoli astratti della “cronologia”.
Chi sono, per te,
quelle figure artistiche che in qualche maniera hanno influenzato la tua
scrittura, il tuo osservare ed interpretare il mondo?
Se intendi per “figure artistiche” quelle relative
all’arte “figurativa” o “astratta”, la mia conoscenza è penosamente lacunosa.
Complice il fatto, forse, che il primo interesse per l’arte lo maturai a
diciassette anni imbattendomi nelle più radicali avanguardie artistiche del
’900, dadaismo e surrealismo in particolare. Diciamo allora che, come con la
droga, anche con l’arte ho iniziato dalla fine, da una “morte dell’arte” non
retorica ma concretamente esperita come rifiuto della società borghese in
un’epoca in cui forse la borghesia toccò il culmine del suo potere. Rifiuto che
non risparmiava lo stesso “ribelle”, se è vero che «dada non significa niente»
e che la rivoluzione surrealista non c’entrava nulla, a dispetto dei proclami ideologici
di Andrè Breton e Louis Aragon, con quella comunista. C’entrava invece con la
nostalgia del sacro e dell’infinito. Nonostante i modi provocatori e sbarazzini
quelle avanguardie furono l’appendice novecentesca dell’ideale romantico in un
mondo ormai dominato dalla “razionalità” degli “spensierati ingegneri”, come li
aveva definiti il preveggente Nietzsche, un mondo dal quale gli dei avevano
sloggiato da un pezzo, come disse in svariati modi Heidegger. Il cosiddetto
nichilismo muove sempre da una nostalgia del sacro, è distruzione perseguita
nella speranza che il mondo ridotto a macerie favorisca il ritorno degli dei.
Se devo però pensare ad artisti-artisti o opere che mi hanno emozionato e in
qualche modo arricchito il mio sguardo sul mondo, non posso non citare Egon
Schiele, l’autoritratto seminudo di Richard Gerstl, molte opere di Bacon,
qualcuna di Joseph Beuys, Anselm Kiefer, Lucian Freud.
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