martedì 23 novembre 2021

QUANTO E' DIFFICILE TROVARE L'ALBA DENTRO L'IMBRUNIRE intervista a Fabio Cantelli seconda parte

 



la seconda parte dell'intervista a Fabio Cantelli Anibaldi

Una delle tesi più note di Jean Clair è che il nostro tempo sia il tempo della morte clinica dell’arte. L’arte muore quando viene reciso il suo rapporto con l’assoluto della vita e della morte, due stati spesso considerati opposti, antitetici. Secondo la tua esperienza artistica è possibile cogliere, rappresentare quel punto di equilibrio, quella verticalità che ci connette con l’assoluto?

È da quando sono ragazzo che sento parlare ciclicamente di morte dell’arte, della letteratura, del teatro… Con tutto il rispetto di Clair l’arte in tutte le sue forme non credo possa essere considerata solo in ottica storicistica, sociologica, men che meno psicologica. Occorre una sensibilità e uno sguardo che chiamerei “cosmologici”, i soli che consentono di capire e prima ancora percepire che il rapporto con l’assoluto è impossibile reciderlo perché di assoluto, cioè di fame inestinguibile d’infinito, siamo fatti, a dispetto del nostro patetico rappresentarci autonomi, disincantati, “laici” e spassionati padroni delle emozioni. Il “tempo verticale”, espressione ricorrente nei miei testi e interventi, non è una “teoria” ma un’esperienza che chiunque può fare guardando nel proprio abisso, dove il tempo è assoluto e fatti anche remotissimi la cui emozione ci ha dischiuso visioni interiori e esteriori inedite, continuano ad accadere liberi dai vincoli astratti della “cronologia”.

 

Chi sono, per te, quelle figure artistiche che in qualche maniera hanno influenzato la tua scrittura, il tuo osservare ed interpretare il mondo?

 

Se intendi per “figure artistiche” quelle relative all’arte “figurativa” o “astratta”, la mia conoscenza è penosamente lacunosa. Complice il fatto, forse, che il primo interesse per l’arte lo maturai a diciassette anni imbattendomi nelle più radicali avanguardie artistiche del ’900, dadaismo e surrealismo in particolare. Diciamo allora che, come con la droga, anche con l’arte ho iniziato dalla fine, da una “morte dell’arte” non retorica ma concretamente esperita come rifiuto della società borghese in un’epoca in cui forse la borghesia toccò il culmine del suo potere. Rifiuto che non risparmiava lo stesso “ribelle”, se è vero che «dada non significa niente» e che la rivoluzione surrealista non c’entrava nulla, a dispetto dei proclami ideologici di Andrè Breton e Louis Aragon, con quella comunista. C’entrava invece con la nostalgia del sacro e dell’infinito. Nonostante i modi provocatori e sbarazzini quelle avanguardie furono l’appendice novecentesca dell’ideale romantico in un mondo ormai dominato dalla “razionalità” degli “spensierati ingegneri”, come li aveva definiti il preveggente Nietzsche, un mondo dal quale gli dei avevano sloggiato da un pezzo, come disse in svariati modi Heidegger. Il cosiddetto nichilismo muove sempre da una nostalgia del sacro, è distruzione perseguita nella speranza che il mondo ridotto a macerie favorisca il ritorno degli dei. Se devo però pensare ad artisti-artisti o opere che mi hanno emozionato e in qualche modo arricchito il mio sguardo sul mondo, non posso non citare Egon Schiele, l’autoritratto seminudo di Richard Gerstl, molte opere di Bacon, qualcuna di Joseph Beuys, Anselm Kiefer, Lucian Freud. 


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