mercoledì 8 dicembre 2021

Il simulacro di John


 Oggetti e forme che interrogano. 

Che rimandano ad assenze ineludibili.

Gli occhiali di John Lennon, riconsegnati a Yoko Ono dopo l' omicidio dell'uomo sotto casa, sono un simulacro dell'orrore che ci perseguita.

Quell' orrore che ci schianta quanto siamo di fronte al reale e non ne realizziamo la potenza.


domenica 5 dicembre 2021

Incontro con Fabio


 

Scrissi di Fabio qualche giorno fa proprio su questo blog.

Si trattava di una intervista che gli feci su questioni legate all’arte, alla creatività e al processo creativo che ispira la sua scrittura.

Breve ma intensa, come spesso accade quando si parla con Fabio anche di argomenti apparentemente più leggeri.

Conobbi Fabio del tutto casualmente vedendo la serie televisiva di Netflix dedicata alle vicende che caratterizzarono i primi decenni della vita della comunità terapeutica per tossicodipendenti Sanpatrignano.

La serie, ben fatta stilisticamente ed accattivante nella narrazione scenica, poneva in luce, attraverso documenti filmati ed interviste ai protagonisti che avevano vissuto nella comunità, i fatti che coinvolsero in primis il suo fondatore Vincenzo Muccioli.

Partivo prevenuto: sapevo dalle cronache dell’epoca, quello che era successo e quale alone avvolgeva un personaggio a tratti difficile, enigmatico, antipatico, sempliciotto ma a volte supponente come Muccioli.

Dalle prime immagini tale opinione non mi abbandonò, anzi la perplessità circa il continuare la visione stava aumentando.

Fino a quando entrò in scena Fabio. E tutto virò.

Nel senso che presto mi convinsi, sentendo le parole di Fabio e come le pronunciava o argomentava, che il mio pregiudizio potesse in qualche modo vacillare.

Ben inteso: la mia opinione su Muccioli e Sanpatrignano non cambiò radicalmente, ma ammisi che un giudizio viziato da preconcetti, fake news e passaparola circostanziati, non potesse essere usato per osservare gli eventi della vita, nel loro dispiegarsi, complessi ed articolati.

Dicevo di Fabio. Nelle interviste della serie televisiva compariva seduto su un letto di una camera d’albergo anonima e spoglia e dalle sue parole emergeva un vissuto fatto di vicende spesso drammatiche, di anni di permanenza in comunità con diverse responsabilità ma anche di angoscianti fughe.

Cantelli narrava con una “grana” che non poteva non graffiare, come carta abrasiva, le mie emozioni e  corde empatiche.

E poi lui: una postura sciamanica, una magrezza Assoluta.

Pelle e ossa.

Quella pelle che è metafora di confine adiposo con il mondo esterno, che a stento trattiene un Io invasivo che trascende da e con ogni discorso.

Quell’osso che è sostanza primitiva, arcaica che ci riporta ad una idea di morte immanente, Assoluta e comune ad ogni esperienza umana.

Ma sono gli occhi, vivi ed attenti che spesso si posano oltre l’interlocutore, capaci di inumidirsi di un velo di lacrime quando i ricordi si fanno più grevi, che tengono insieme il tutto.

Un “memento mori vivente”, bruciante ed intenso che cattura, coinvolge e non concede fughe.

Tutto questo Fabio Cantelli Anibaldi ha tentato di metterlo nel suo Libro “Sanpa. Madre amorosa e crudele”.

Libro che ha ispirato la serie televisiva, scritto ben 25 anni fa in tempi non sospetti: bello, scritto bene e finalmente “non scorrevolissimo” inteso qui come pregio. Perché sulle pagine bisogna spesso rifletterci, tornarci più volte per farle decantare nella nostra frenesia della necessità di capire tutto e subito.

Mentre scrivo queste parole, dalla finestra della mia casa di montagna si intravede uno splendido tramonto che riflettendo sulle vette di roccia coperte di neve, colora di rosso intenso il panorama. Le rocce assumono le sembianze di rosse braci che sotto la neve gelida delle alte quote ardono di bruciante vividezza.

Mi piace accostare questa immagine alle esperienze raccontate da Fabio nel libro.

Un giorno la neve si scioglierà ma le braci vivide, ardenti riscalderanno per molto ancora il nostro bisogno di tepore rassicurante.

Fabio Cantelli Anibaldi sarà ospite, in un incontro con l’autore presso l’auditorium di Locate Triulzi (MI) del quale riporto la locandina per i dettagli.

Io ci sarò e mi piacerebbe incontravi.

martedì 30 novembre 2021

né alla parola né al pensiero







L’alfabeto della pittura non appartiene né alla parola né al pensiero logico. L’arte non ha bisogno di alcuna risposta: è una domanda che vuol restare tale. Iniziare a parlare del proprio lavoro significa cominciare a tacere perché l’opera è un’iniziazione al silenzio.

C. Parmiggiani, Stella sangue spirito,

 

venerdì 26 novembre 2021

Bacon e Burroughs . Una storia immaginaria


 

“Tangeri è uno dei pochi posti al mondo in cui, a patto che non ti dedichi a furti, assassinii o forme più o meno crude di violenza antisociale, puoi ancora fare letteralmente quello che vuoi” diceva William S. Burroughs che proprio nella città marocchina aveva base negli anni 50.

Certo, lui stava fuggendo da una condanna di omicidio formulata negli Stati Uniti che pendeva sulla sua testa. Una storia torbida, mai chiarita a fondo, che lo vedeva protagonista come esecutore della morte di sua moglie. Una passione per le armi, per l’eccesso visionario e per l’alcool e l’eroina.

Quella volta aveva puntato il suo fucile contro la moglie che si era prestata ad un’improbabile emulazione del gioco di Guglielmo Tell.

Una mela posta in testa alla giovane donna doveva essere il bersaglio.

Ma Bill, così lo chiamavano i suoi amici, non era Guglielmo Tell.

Mira scarsa, distorta da una potente bevuta.

Opps…colpita in pieno volto la moglie.

Nel solco di uno strisciante maccartismo fu facile per la Corte Americana formulare una condanna per omicidio… L’occasione era ghiotta: togliere di mezzo un tossico, omosessuale, scrittore scomodo e agita popolo.

Quindi via.

A Tangeri, dove potevi trovare affari loschi, sesso a buon mercato sia maschile che femminile, alcool a volontà e soprattutto droga: di ogni tipo e tanta.

Ma anche compagnia di amici, intellettuali, scrittori ed artisti.

Un popolo di sbandati, reietti in cerca di dimensioni alternative che potessero accogliere le loro menti febbrili, eccitate e creative. I migliori in quel periodo.

Tra loro Francis Bacon, pittore irlandese arrivato a Tangeri per seguire il suo amore, il suo compagno di letto e sbronze.

Un amore complesso, violento e criminale. Francis si vedeva spesso seduto al margine di un bistrot, in fondo alla kasbha principale. Pesto, con il labbro sanguinante e tumefatto dalle botte che il suo amore gli somministrava con eccessiva tenerezza.

Ubriaco, disperato tanto da radunare i suoi schizzi e dipinti dei ritratti di lui, lo stronzo che lo scopava senza amarlo, e dargli fuoco in piazza tra i bei ragazzi marocchini che lo commiseravano.

Posso immaginarli Bacon e Burroughs che radunavano i fogli che un refolo disperdeva nelle strette viuzze e chiedere un accendino a quel ragazzotto che appoggiato ad un muro li osservava divertito.

Lo stesso ragazzo che sarebbe finito nel loro letto, di un appartamento misero colmo di immondizia, bottiglie vuote e siringhe sporche.

Incombeva su quella cricca di artistoidi pazzi, incontenibili una guerra civile di liberazione.

Perché Tangeri era un porto franco dove tutti volevano comandare e nessuno quindi comandava e ciò era intollerabile per le forze governative marocchine.

Il gruppo si disperse negli anni, qualcuno resto in Marocco a vivere la sua miserabile vita, altri a raccogliere i frutti del successo in patria.

Burroughs e Bacon si rincontrarono spesso in Europa, portandosi appresso la notorietà che avevano conquistato a fatica.

Li accumunava, oltre che un passato ribelle e turbolento, una ricerca letteraria e pittorica che non smetteva di interrogare i limiti dell’Io, ovvero quella distorsione spinta in cui l’individuo perde la sua identità.

Fino a che grado di distorsione era disposto a sopportare un volto amato sprofondato nella follia, nell’odio, nella malattia, nella morte.

Dov’era posta la linea di demarcazione, la frontiera dove un “io” cessa di essere tale.

martedì 23 novembre 2021

QUANTO E' DIFFICILE TROVARE L'ALBA DENTRO L'IMBRUNIRE intervista a Fabio Cantelli seconda parte

 



la seconda parte dell'intervista a Fabio Cantelli Anibaldi

Una delle tesi più note di Jean Clair è che il nostro tempo sia il tempo della morte clinica dell’arte. L’arte muore quando viene reciso il suo rapporto con l’assoluto della vita e della morte, due stati spesso considerati opposti, antitetici. Secondo la tua esperienza artistica è possibile cogliere, rappresentare quel punto di equilibrio, quella verticalità che ci connette con l’assoluto?

È da quando sono ragazzo che sento parlare ciclicamente di morte dell’arte, della letteratura, del teatro… Con tutto il rispetto di Clair l’arte in tutte le sue forme non credo possa essere considerata solo in ottica storicistica, sociologica, men che meno psicologica. Occorre una sensibilità e uno sguardo che chiamerei “cosmologici”, i soli che consentono di capire e prima ancora percepire che il rapporto con l’assoluto è impossibile reciderlo perché di assoluto, cioè di fame inestinguibile d’infinito, siamo fatti, a dispetto del nostro patetico rappresentarci autonomi, disincantati, “laici” e spassionati padroni delle emozioni. Il “tempo verticale”, espressione ricorrente nei miei testi e interventi, non è una “teoria” ma un’esperienza che chiunque può fare guardando nel proprio abisso, dove il tempo è assoluto e fatti anche remotissimi la cui emozione ci ha dischiuso visioni interiori e esteriori inedite, continuano ad accadere liberi dai vincoli astratti della “cronologia”.

 

Chi sono, per te, quelle figure artistiche che in qualche maniera hanno influenzato la tua scrittura, il tuo osservare ed interpretare il mondo?

 

Se intendi per “figure artistiche” quelle relative all’arte “figurativa” o “astratta”, la mia conoscenza è penosamente lacunosa. Complice il fatto, forse, che il primo interesse per l’arte lo maturai a diciassette anni imbattendomi nelle più radicali avanguardie artistiche del ’900, dadaismo e surrealismo in particolare. Diciamo allora che, come con la droga, anche con l’arte ho iniziato dalla fine, da una “morte dell’arte” non retorica ma concretamente esperita come rifiuto della società borghese in un’epoca in cui forse la borghesia toccò il culmine del suo potere. Rifiuto che non risparmiava lo stesso “ribelle”, se è vero che «dada non significa niente» e che la rivoluzione surrealista non c’entrava nulla, a dispetto dei proclami ideologici di Andrè Breton e Louis Aragon, con quella comunista. C’entrava invece con la nostalgia del sacro e dell’infinito. Nonostante i modi provocatori e sbarazzini quelle avanguardie furono l’appendice novecentesca dell’ideale romantico in un mondo ormai dominato dalla “razionalità” degli “spensierati ingegneri”, come li aveva definiti il preveggente Nietzsche, un mondo dal quale gli dei avevano sloggiato da un pezzo, come disse in svariati modi Heidegger. Il cosiddetto nichilismo muove sempre da una nostalgia del sacro, è distruzione perseguita nella speranza che il mondo ridotto a macerie favorisca il ritorno degli dei. Se devo però pensare ad artisti-artisti o opere che mi hanno emozionato e in qualche modo arricchito il mio sguardo sul mondo, non posso non citare Egon Schiele, l’autoritratto seminudo di Richard Gerstl, molte opere di Bacon, qualcuna di Joseph Beuys, Anselm Kiefer, Lucian Freud. 


lunedì 22 novembre 2021

QUANTO E' DIFFICILE TROVARE L' ALBA DENTRO L'IMBRUNIRE Intervista a Fabio Cantelli prima parte


 

Ho l'onore e il piacere di porre qualche domanda all'amico Fabio Cantelli Anibaldi su arte, processo creativo ed altro.

Fabio già vice presidente del Gruppo Abele di Torino, giornalista e filosofo ha pubblicato il bellissimo "Sampa. Madre amorosa e crudele" per Giunti, libro dal quale è stata tratta la serie televisiva Sampa per Netflix in cui si narrano le vicende della comunità terapeutica di San Patrignano, nella quale Fabio è stato ospite per molti anni, dagli albori fino alle vicende di cronaca degli anni novanta.

Fabio Cantelli risponde alle mie domande con la densità e la cura che contraddistinguono i suoi approfondimenti, i suoi scritti che sono sempre carichi di rimandi ad un interrogarsi mai definitivo.

Vi lasci alla lettura di questa prima parte.

 

 «Nessuno ha mai scritto, dipinto, scolpito, modellato, costruito o inventato se non per uscire letteralmente dall’inferno». Così Artaud definiva il processo creativo inteso come necessità per l’artista di uscire dai propri inferni, uscire dagli schemi involutivi che imprigionano le nostre autentiche libertà. Cosa rappresenta per te il processo creativo?

 

Antonin Artaud – il cui nome pronuncio col timore e tremore dovuti a una figura senza la quale non sarei ciò che sono – aveva una sensibilità ancora influenzata dal Romanticismo, di cui peraltro siamo tutti figli. Mi riferisco alla parola “inferno”, con cui Artaud designa la vita. Inferno tale, però, solo per chi dopo il trauma della nascita si aspetta piaceri e nutrimenti paradisiaci, aspettativa tragicamente delusa perché quando veniamo al mondo il paradiso l’abbiamo già vissuto, salvo che non possiamo saperlo. Il paradiso è infatti la terra premessa, non “promessa”. Voglio dire che ad Artaud – come, prima, ai Romantici – sfuggì che il paradiso è ciò che ognuno di noi vive anzi più propriamente è prima di nascere, quando siamo vita elementare, incosciente ma senziente, vita sciolta nell’indifferenziato del grembo materno, «aria nell’aria, acqua nell’acqua» per usare le parole di un’altra figura decisiva per la mia formazione: Georges Bataille. Stato di cui non abbiamo coscienza né, quindi, esperienza, ma di cui ogni cellula del nostro essere serberà per sempre memoria, celata in quelle profondità dove la percezione è congiunzione di nulla e tutto, dove il corpo senziente è già corpo sapiente. È questa vita immediata priva ancora di soggetto – essendo il soggetto un mediatore – il motore e l’oggetto dell’arte, secondo me. La cosiddetta realtà – parola che Nabokov invitava a mettere sempre tra virgolette – funge solo come invito all’altrove, altrove che a ben vedere o meglio ben sentire, è già da sempre qui, qui ed ora. Questo Artaud credo non lo percepì perché l’“inconveniente” di essere nati, per usare il magnifico eufemismo di Cioran, fu in tutto e per tutto per lui una tragedia. «È così che fui bambino nello scandalo del mio io» scrisse nel manicomio di Rodez nel 1946, due anni prima di morire. Ecco allora le manie persecutorie, l’immaginarsi vittima di fatture ecclesiastiche e trame psichiatriche volte a legarlo a un mondo che lo rigettava così come lo aveva rifiutato il grembo materno: «È un vero disperato che vi parla e che conosce la felicità d’essere al mondo solo adesso che ha lasciato questo mondo e ne è assolutamente separato. Morti, gli altri non sono separati: girano ancora intorno ai loro cadaveri. Io non sono morto, ma sono separato». Così Artaud conclude l’introduzione a “Le nuove rivelazioni dell’Essere”, testo scritto nel 1937 poco prima dell’internamento a Rodez. Allo stesso modo, sempre scrivendo della disperazione di essere al mondo – disperazione definita “capitale” – aveva usato l’espressione “vuoto genitale” laddove si tratta di quel “tutto pregenitale” che precede la nascita. Un tutto da cui è impossibile separarsi essendo genitore e ombra del nostro vagare sulla Terra. Quale che sia insomma la forma artistica, essa è espressione, o meglio, evento del tutto. In ogni sua espressione l’arte è tutto che accade in parte e come parte, e artista è solo chi da mediatore riesce a farsi “medium”, puro tramite tra vita e morte, cielo e inferno. Arte significa autotrascendenza, testimonianza di ciò che si è visto al di là dell’io. Non c’è arte senza metamorfosi dall’io in Sé, cioè senza “amor fati”, per usare la formula di un altro veggente internato quarant’anni prima di Artaud: Nietzsche. In tal senso – tornando alla tua domanda – il processo creativo rappresenta per me un ricongiungimento parziale alla mia origine di “non-ancora-nato” con esiti a loro volta fatalmente parziali. Il prodotto del processo creativo è sempre imperfetto e perfezionabile: si tratta allora di portare l’imperfezione al massimo livello, laddove non appare come un difetto ma come un segno credibile e dunque emozionante del nostro vagare sulla Terra. Siamo tutti anime perse e alla ricerca, per fortuna: la differenza sta nel saperlo o meno. Quanto alla ricerca che anima il processo creativo avviene, per quel che mi riguarda, in una sorta di trance, ma nell’automatismo permane sempre un margine di autocoscienza, una breccia di vigilanza. L’espressione artistica nasce dall’incontro tra inconscio e conscio, allorché, riconoscendosi reciprocamente, capiscono di essere uniti all’origine. Questo spiega perché la droga non solo non favorisce il processo creativo ma lo inibisce. Con la droga il margine di vigilanza scompare, come quando un ruscello impetuoso sfocia in un lago: il furore si disperde nella vastità. La droga pacifica, risolve le tensioni e le contraddizioni, annulla la distanza da noi stessi e dagli altri. Sotto l’effetto della droga diventavo statico, inerte e felice di esserlo. Diventavo io stesso opera, creazione, senza esserlo… Tutto quello che potevo dire o scrivere, a quel punto, non poteva che essere banale. L’esperienza era totalizzante al punto da annullare la parola, che vive di scarti e differenze. Un mondo uguale a sé stesso è un mondo del quale letteralmente non c’è nulla da dire.

 Al netto del “puramente decorativo”, dei sentimentalismi e della teatralità del concetto di bellezza, credo che l’opera d’arte autentica contenga sempre un segno traumatico di fondo. Quel trauma generato dall’impossibilità di rappresentare il nostro rapporto con la realtà. La scrittura, la pittura e le arti in genere, cioè il dire con la consapevolezza del trauma, può avvicinarci al “reale” che è in definitiva lo scompaginamento della realtà?

 

Innanzitutto credo sia necessario riflettere sul senso della parola “trauma” riscattandola dall’accezione puramente negativa che, dalla psicologia, si è trasferita al senso comune. In senso diametralmente opposto ritengo che la vita sia nel suo insieme un trauma meraviglioso, pensando alle emozioni stesse come a traumi, posto che la parola trauma rimanda a un verbo che significa ferire, trafiggere, perforare... Direi allora che i traumi sono i varchi che la vita apre nel nostro essere per continuare a fluirci dentro, varchi che sono dolorosi quando incontrano una resistenza, un “io” fortificato nella presunzione di poter dominare la vita, appropriarsene, rappresentarla nella sua totalità, come se una pozzanghera potesse contenere l’oceano… Quindi il «segno traumatico di fondo» di cui parli non è necessariamente un dolore a cui l’espressione dà forma e senso: può essere il ricordo di un’epifania, di un orgasmo, di un’estasi. Ciò premesso, associ al trauma «l’impossibilità di rappresentare il nostro rapporto con la realtà». Io non parlerei d’impossibilità. Impossibilità rispetto a cosa, poi? A una riproduzione letterale della realtà, a un suo doppio? La rappresentazione è sempre un’interpretazione e proprio perché interpreta de-cifra il “reale”. Altrimenti si resta appunto nella “cifra”, nella logica quantitativa della matematica e dell’economia, col rischio di ridurre il perturbante, cioè la vita, a numero, a segno “esatto”. Rischio meravigliosamente rappresentato dall’apologo di Borges sull’imperatore della Cina: l’imperatore vuole una mappa dettagliata dell’impero ma ogni volta che i cartografi gliela mostrano la rimanda indietro, convinto che si possa fare di meglio, che non sia abbastanza dettagliata. Finché i cartografi ne producono una estesa quanto l’impero dunque inservibile, del tutto inutile… Voglio dire che ogni rappresentazione è fatalmente parziale ma ci sono rappresentazioni perfette proprio perché accolgono il loro limite come tramite all’infinito, condizione per poterlo significare. L’arte senza autotrascendenza non è rappresentazione ma autopromozione, manifesto della bravura dell’artista. È la consapevolezza della nostra origine e l’accettazione serena di non potervi ritornare se non – ma nulla garantisce – in punto di morte, a generare “l’arte per l’arte”, che non è estetismo ma un rappresentare fine a sé stesso dunque indecifrabile per la corrente mentalità utilitaristica. Etica di vita riassumibile nell’esortazione della Baghavad Gita a “staccarsi dai frutti dell’atto”, cioè agire senza badare all’esito dal momento che non siamo autori ma attori delle nostre azioni, condannati all’atto come ai lavori forzati. Carlo Sini scrive magnificamente che «non siamo soggetti delle azioni ma soggetti alle azioni». Non possiamo esimerci di fare dal momento che anche non fare è pur sempre un fare. Non possiamo fare a meno di fare perché siamo “vita attiva” dall’origine, da quando eravamo nel grembo. Si tratta allora di fare consapevolmente, e certamente il processo creativo è un fare consapevolmente in trance, un fare che, osservandosi, svetta sopra il fine contingente per entrare nella regione del gratuito e del necessario, cioè del sacro. Agli adolescenti che dopo “Sanpa” ho la fortuna d’incontrare nei licei, dico che la questione della vita è in fondo tutta riassumibile in quel verso di “Prospettiva Nevskij” di Battiato che dice: «e il mio maestro m’insegnò quanto è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire». Il che significa – aggiungo meno poeticamente – trovare l’assoluto nel relativo, l’eterno nel transitorio.

segue...


domenica 21 novembre 2021

C'è un tempo per vedere ed un tempo per non vedere.

 .


C'è un tempo per vedere ed un tempo per non vedere

Anche se ci sforziamo, per rassicurarci, di rendere con precisione quel che vediamo, quel qualcosa è già altro.

Come un piede che ricalca le proprietà della terra, gli occhi includono la forma, questo è il nostro precetto, quel che chiamiamo il precetto della Buddha-natura. Solo così noi possiamo essere davvero etici, morali.

La paura ci fa vigili e cauti, quindi scattanti, ma c'è una paura che ha paura e che rallenta l'azione e ci fa esitare.

La paura nasce dal vedere, dal pensare...

Quindi: vedere senza vedere, pensare senza pensare. Come un bicchiere sollevato, sospeso nel vuoto, come la postura immobile dello zazen nella sua obiettiva immobilità.

Il soggetto guarda solo se riguardato.

C'è un'obbiettività in quel soggetto proprio nel momento in cui quella coscienza non ha più oggetti. Allora il soggetto vede ancora prima di vedere qualcosa, prima di qualificarlo.

Il nome e la persona coincidono, ma per brevissimo tempo per fortuna, anzi quando non c'è tempo per vedere, per dire...

Dove si intersecano le rette del tempo e dello spazio s'individua un punto senza dimensione, senza peso, totalmente obiettivo, come, tra il bianco e il nero, la persona grigia, di un tangibile grigio assoluto e universale: l'esplosivo sfavillìo del bianco contrapposto al nero.

I nostri occhi includono la forma, non hanno tempo per guardare; è così che noi siamo eretici e morali. Il tempo della forma e degli occhi coincidono. Non si ha un tempo per vedere, né c'è un tempo per vedere.

Così se un pesce nuota, tutta l'acqua degli oceani è il suo nuotare.


Maestro F. Taiten Guareschi 

Tratto da 'Fatti di Terra' 

Ed. CasadeiLibri

giovedì 18 novembre 2021

Ogni luogo è

 


Ogni luogo non può che essere temporaneo

Perché un luogo non è solo aggregazione di coordinate fisiche e geometriche.

Quel che resta è la memoria degli oggetti e delle cose che sfiorano, senza una precisa definizione lineare, i nostri sguardi. 

Ed è così che gli oggetti si caricano di aspettativa sacrale e di immanente drammaticità. 

Ed è tutto un'orlare il precipizio che conduce all'abisso delle nostre esistenze, altro che luoghi !!

Perché ogni luogo in definitiva è temporaneo 



mercoledì 17 novembre 2021

francesca woodman

 


Pochi sfuggono al desiderio di dichiarare quanto hanno in programma. Specialmente gli artisti. Basta ascoltarli, e tra le parole – ancor prima delle opere – si coglie l’essenza dei loro intenti, una dichiarazione programmatica dell’esistenza. A questa regola non è sfuggita Francesca Woodman, fotografa americana, che nel 1981, a soli 23 anni, si tolse la vita. Nessuno però sia indotto a supporre che la Woodman fosse attraversata da uno “spleen” distruttivo: Francesca amava la vita. La amava così tanto da esserne padrona assoluta, capace di governarla fino in fondo, finché ha voluto. Disse: «Ho dei parametri e la mia vita a questo punto è paragonabile ai sedimenti di una vecchia tazza da caffè e vorrei piuttosto morire giovane, preservando ciò che è stato fatto, anziché cancellare confusamente tutte queste cose delicate». Obbedì al più intransigente tra i suoi “parametri” e si gettò da un grattacielo di New York. Figlia d’artisti, di lei si ricordano gli anni romani, forse i più felici, in compagnia di poeti, letterati e altri artisti. E sono principalmente di questo periodo italiano le foto che vedete.

Il suo lavoro è nuovo e antico; ha la freschezza di un linguaggio appena elaborato, balzato fuori con la dirompente vitalità di un fanciullo che ha conosciuto la corsa e a un tempo colmo d’echi. Non c’è fotografia infatti che non rimandi alle lezioni dei grandi fotografi sperimentatori.

Ecco dunque Brassaï (Francesca amava il lavoro del maestro francese) e, soprattutto Man Ray, echeggiare dai fotogrammi mentre lei, Francesca di ogni foto è l’assoluta protagonista perché, come ebbe a dire in un amaro furore: «Se stai fuori dal mondo dell’Arte anche solo cinque minuti, nessuno si ricorderà di te». Ma qui non è l’involucro corporeo a essere rappresentato quanto una materia sfuggevole e custode di “disordinate geometrie dell’esistenza”. Tutto è racchiuso in forma simbolica, tutto è circoscritto al chiuso di una stanza; e nemmeno gli oggetti derogano alle regole. Siano porte – rigorosamente chiuse –, specchi (la Woodman li userà a favore di una grandiosa metafora), ambienti il cui disordine è prima di tutto “concettuale” che ambientale, non c’è foto che non voglia indicare il disagio di un corpo chiuso nello stretto delle proprie ambizioni o, come preferite, di un esteso malessere. Ecco dunque un corpo nudo, penzolante da una porta cui fa da contraltare una donna scalza elegantemente vestita e ignara, forse, di quanto si svolge alle sue spalle – ma probabilmente è necessario dire che la signora elegante conosce meglio e prima di noi quella “raffigurazione dell’inconscio di cui ci invita a condividerne la presenza”. Specchi dunque.

Ma cosa riflettono se non un’immagine che ne ribalta il contenuto. Siamo più cose insieme, ci dice Francesca Woodman, forse nessuna: ci smarriamo per ritrovarci. Ci troviamo dalle parti di un Surrealismo esistenziale e di un dadaismo celebrato nelle composizioni formali, in un “mosso” frutto di un’ottima conoscenza delle esposizioni. In una foto vediamo il corpo di una donna agitarsi come un derviscio ma che tuttavia ci appare “ferma”, quasi a dire che il movimento è consustanziale alla sua natura, accentuata, questa sì, dai muri scrostati e spogli; spogli come le nudità femminili dei corpi indifesi, nei quali non è difficile scorgere una vita intrapsichica.

La vita di Francesca Woodman è stata breve. Intensa ma breve, e noi non possiamo fare altro che rispettarne la scelta, al riparo del riserbo. Resta però come un sentore d’amaro, il dispiacere di una vita chiusasi troppo in fretta e che ha impedito a tutti noi di seguire gli sviluppi artistici di una fotografa che ha lasciato sì una grande eredità ma di cui avremmo voluto beneficiarne molti, molti anni più tardi.

DELL' IMPOSSIBILITÀ DI DIRE UNA FORMA


Chi segue i miei post è abituato alle mie riflessioni sull' arte, sul processo creativo dell' artista e sulle conseguenze di questa prossimità.
Poi arriva l'evento dell'opera che devasta questo dire, perché l'astrazione della figura dell'oggetto che osservi è di una potenza che ti annulla.
Potrei dire dell'oggetto perché è l' emergere del dato: moneta africana tribale Bakwele, Gabon.
Soddisfazione che appaga la necessità di sicurezza del nostro pensiero analitico, certo non lo scarto che si è prodotto.
Un funerale dell'io che siamo costretti a celebrare perché oramai coinvolti dall'epifania della forma.
Accettata questa morte annunciata si entra in relazione con l' oggetto.
E smetti di dire..
Nessuna descrizione della foto disponibile.

hini e altri 2
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lunedì 15 novembre 2021

Segni



 Ci sono segni di una potenza inarrivabile, dove altrimenti gli schemi di una mente ordinaria non potrebbero concedere  alcuna possibilità interpretativa semantica.

Segni che delimitano, che confinano un area e creano uno spazio sacro.

Oltre il gesto - segno creativo che costituisce l'opera, c'è la determinazione di uno spazio, di un luogo dove l'entrata implica l'attraversamento di una soglia, un inciampo.

Oltrepassare quella  "zona tarkovskijana " implica l'accettazione di un non ritorno.

Bisogna, in altri termini essere disposti ad assistere al funerale del proprio ego per poter sopravvivere e cogliere questa epifania.

Lì avviene l'incontro con l'altro, quell'altro che riconosci perché ti abita.

Solo allora puoi raccogliere quell'evento dell'opera che ti annienta e schiaccia come corpo residuale, di risulta.

Accade di fronte a lavori di Artisti che bisogna affrontare con l'occhio umile del piccolo ossevatore che mette in gioco le proprie certezze e paure.

È la forma del non detto che ci fa critici, costruttori di universi creativi e improbabili. Insaziabili d'arte e di gesti inebrianti.


opere di 

Berlinde de Bruyckere

Chen Zeng

dettagli

 


Qual è l’emozione che ci colpisce e cattura mentre osserviamo i dettagli di un’opera d’arte? Quale intimità, prossimità emozionale ci permette di connetterci con il proprio Sé?

Credo che sia una questione di atteggiamento, non di postura intellettualistica, quella che ci fa percepire il senso del nostro guardare.

Io quando osservo un quadro, una scultura, una istallazione artistica sono consapevole di affrontare una lettura. Proprio come un libro.

E di questo “libro” sono i dettagli che mi intrigano, che dicono di me e della mia intimità elettiva.

Se di un libro mi limitassi all’attrazione retinica della copertina, delle dimensioni del volume, mi sottrarrei al ri -significato che solo le frasi, le singole parole, in altre parole i dettagli, mi permetterebbero di entrare in un altro e nuovo luogo che è luogo di relazione.

La stessa cosa avviene di fronte all’immagine. Se mi limitassi ad una visione d’ insieme, superficiale e veloce, quel luogo di cui dicevo mi si chiuderebbe e probabilmente la domanda del senso resterebbe inevasa.

Ebbene sono proprio i dettagli che significano l’opera, quei piccoli luoghi in cui si apre uno spazio che fagocita, che destabilizza: spesso non è terra sicura in cui si spera di approdare per dare sfogo alle proprie insicurezze.


Personalmente, soprattutto da artista, sono i particolari di un’opera che, come un magnete potente, mi attraggono e riconosco che la visione totale, d’insieme non è il mio approccio primario.

Mi illudo di osservare la totalità del dispiegamento dell’opera, ma è il dettaglio che in realtà mi trovo a scrutare cogliendone la forza creativa che mi apre a nuovi spazi espressivi.

Mi trovo spesso a ripercorrere posture ridicole di fronte ai quadri e là dove la situazione me lo consente, mi avvicino alla superficie con il naso quasi appiccicato al quadro o scultura.

Ho visto altre persone in simili situazioni e, al netto di chi ha problemi visivi fastidiosi e imbarazzanti atteggiamenti, scopro una tribù di curiosi emotivi, di ricercatori della percezione altra.

Lo sguardo in sé non è il facilitatore della connessione, ma agisce una scomposizione del mondo che conosciamo e percepiamo, liberando i dettagli e trasformandoli in una altra storia ricca di immaginazione che ci parla dell’evento dell’opera, della sua immanenza e grandezza.

venerdì 12 novembre 2021

quattro domande quattro



 Piccola intervista fatta da Betti Bellani al sottoscritto in occasione di una mostra personale

QUANTO È “GRANDE” LO SPAZIO DI UN QUADRO?

Ci viene in aiuto un artista enorme, che con il suo lavoro ha indagato il concetto di spazio come nessuno: Lucio Fontana.
Nei suoi celebri “tagli” l’artista vuole, appunto farci partecipi della dimensione relativa della tela, del quadro e ci catapulta in ciò che è la dimensione tridimensionale, spaziale della nostra esperienza. Come se volesse dirci di andare oltre alla dimensione retinica dell’atto di vedere, perché la realtà è oltre il nostro sguardo. I ruoli si sono invertiti. E’ l’opera d’arte che ci osserva e noi non siamo osservatori passivi. Mai. Di fronte ad un quadro, ad una statua e qualunque sia ciò che rappresenti (un paesaggio, una natura morta o un ritratto) noi non stiamo solo osservando, ma partecipiamo ad una esperienza che ci include. Uno spazio misurabile è solo un artificio che ci permette di sopravvivere e …posizionare più o meno esattamente un quadro su una parete di casa tra due mobili.

NEL 2020 MOLTI SI CHIEDONO SE HA ANCORA “SENSO” DIPINGERE.CHE COSA GLI RISPONDERESTI?

 Angela Vattese, rinomata critica d’arte italiana, nel suo libro “si fa con tutto” sosteneva, a ragione, che oggi l’arte va apprezzata soprattutto per la grande varieta’ dei media che gli artisti utilizzano per dare senso al proprio lavoro. Oggi siamo bombardati da un eccesso di stimoli visivi e la percezione del mondo è senz’altro cambiata. Tra l’altro il Mercato oggi è parte rilevante delle nostre azioni ed il mondo dell’arte ne è un esempio rilevante. Ritengo che non dobbiamo preoccuparci molto della purezza del “senso di produrre” arte oggi. E’ l’artista stesso che con la propria onestà, ricerca e lavoro possa imprimere il senso giusto al proprio fare, a prescindere dal mezzo utilizzato. In questa ottica il “senso” del dipingere non può venire meno, credo. Il mio linguaggio oggi, ad esempio, va nella direzione opposta alla pittura: prediligo l’arte concettuale attraverso installazioni site –specific. Ma vengo dalla pittura, dalla grafica e ad essa devo molto.

 

CHE COS'È PER TE L’ ISPIRAZIONE? 

Credo che l'arte non debba fornire risposte ma anzi innescare il dubbio, la domanda e far vacillare le proprie piccole certezze. Qualunque cosa " non conclusa" e non definita mi ispira, nel senso della potenzialità che essa potrebbe esprimere per la mia ricerca. Personalmente i luoghi, gli spazi, il tempo sono fonte primaria di ricerca ed ispirazione. La relatività delle cose e la loro natura impermanente può essere oggetto di interesse e di bellezza (i giapponesi usano il concetto di Wabi Sabi) e quindi fonte di ispirazione



CHI E’ PER TE IL FRUITORE IDEALE DI UNA TUA OPERA?

Penso ad una persona mediamente colta, con una capacità di relazionarsi ed approfondire i temi che solitamente tratto.

Come dicevo precedentemente il mio percorso artistico recente è orientato all’arte concettuale con incursioni frequenti nel campo delle installazioni artistiche site specific, ovvero un intervento che è appositamente pensato per il luogo che lo ospita. Sono consapevole che il significato di tali lavori può sembrare ostico ai più. Per cui la persona che si trova davanti ad una mia opera è costretta, diciamo, a mettersi in gioco e trovare il senso anche al di fuori dell’immediatezza e della piacevolezza retinica.

Ma solitamente si tratta di un pubblico che abitualmente frequenta il mondo dell’arte.

Discorso diverso è per chi affronta i miei lavori precedenti, come quelli esposti qui. Lo spettatore dovrà ricorrere a parametri diversi circa il suo giudizio, più vicini al gusto, alla sensazione visiva. Devo dire che la scelta di esporre in un posto insolito come un negozio di ottica, mi ha stuzzicato positivamente da subito, perché non trovo negativa la dimensione “popolare” dell’arte, anzi ne apprezzo la capacità divulgativa intrinseca e l'opportunità che può offrire al semplice consumatore.

 

mercoledì 10 novembre 2021

IL NOSTRO DESTINO, FORSE



Il nostro destino, forse è quello di restare senza risposte.

Quelle risposte definitive che ci rassicurano, ci tranquillizzano e ci assecondano edificando il proprio confort.

Si tratta di essere disposti ad una riduzione di una distanza, di una misura della cui natura non siamo propriamente artefici.

È questo il nocciolo della questione, del vulnus che ci attanaglia alla gola togliendoci il respiro.

Da questa sensazione di soffocamento ci si può liberare, previo essere disposti a perdere qualcosa.

Allora cerchiamo di ridurre il danno, la distanza che ci separa dall’evento dell’opera d’arte. Dico di quell’evento che si manifesta, nostro malgrado, quando guardiamo un quadro, una scultura, in definitiva un’immagine.

Tranquilli. Non è colpa nostra. Non ce la siamo cercata.

Una via di fuga veloce, breve e senza apparenti conseguenze esiste: l’immersione nel sentimentalismo, dell’appagamento retinico e del “questa è arte che arriva al cuore”.

Dicevo dell’atto di guardare un’opera d’arte e dallo spaesamento che proviamo perché non siamo in grado di sostenere lo sguardo indagatore che l’opera ci rimanda.

L’opera, il suo evento che ci sovrasta lo fa partendo dal suo statuto che è sempre frutto di un trauma.

Quel trauma che deriva dall’impossibilità di riprodurre la realtà, cosa sempre distinta dal mezzo che ne evidenzia la sua inconsistenza, la sua fugacità: l’opera è una cosa, il reale un’altra. In mezzo una spaccatura insanabile, devastante.

 

È questo trauma che non sopportiamo, che non siamo disposti ad accettarlo perché reale nella sua irrealtà di linguaggio, di rappresentazione.

Se non pratichiamo questo atteggiamento, saremo costretti alla postura, al rappresentativo, all’artigianale e decorativo.

L’arte ci impone questo sforzo, questo passaggio obbligato.

Si tratta di un superamento di una soglia, oltre la quale rischiamo di trovare l’abisso.

Il nostro compito è avanzare sull’orlo di questo abisso, in un gioco di equilibrismo pericolosissimo.

Arte bastarda, verrebbe da dire.

Ho visto e detto di peggio nella mia vita, tutto sommato.

Un orizzonte di nulla non mi spaventa.

Non cerco risposte. Mi bastano le mie domande

lunedì 8 novembre 2021

Attraversamenti



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IDENTITÀ NOMADISMI MIGRAZIONI

ARTI LUOGHI SPAZI ABISSI




              


Imprimere al Divenire

il carattere dell’Essere 

è una suprema prova di potenza

Nietzsche


Soggetti in cerca di nuove Identità e forme di intenso nomadismo, praticanti Azioni di mobilità : delle menti, dei saperi, delle arti, delle coscienze, disposti alla valorizzazione delle culture di prossimità, di confine.

Corpi che praticano un erranza senza meta, pericolosamente attratti dall’orlo dell’abisso della “stanzialità”.

Individui in movimento, che agiscono una propria “cartografia esistenziale” finalizzata ad un pragmatico orientamento dell’imminente “divenire”  e che tracciano rotte e attraversamenti praticabili tra Zone Autonome e Temporanee.

 

Uomini che restituiscono  legittimità alla “pulsione d’erranza” o “irrequietezza migratoria” primitiva e seminale, creatrice di Segni in grado di informare una nuova geografia degli spazi e dei tempi. Una nuova mappatura dei Luoghi.

Realizzando a volte percorsi imprecisi, indecifrabili, a tratti illeggibili o latenti, ma finalizzati  al  superamento dei generi, dei dogmi e degli assolutismi identitari definiti, semplicemente agendo l’arte dell’assenza e della scomparsa, senza lasciare tracce o residui, liberandosi da cascami artificiosi.


Senza rincorrere le urgenze sociali dei flussi migratori contemporanei, ma con la consapevolezza di agire su uno sfondo dorato, cangiante e bizantino nel quale riverberare in un nuovo spazio Sacro.





LA FINE DEI MONDI AL CASTELLO VISCONTEO DI ABBIATEGRASSO

  5-10 APRILE 2022 / LA FINE DEI MONDI AL CASTELLO VISCONTEO DI ABBIATEGRASSO   MARCO BELLOMI      21 Marzo 2022      0 Quando uno spazio es...