martedì 22 marzo 2022

LA FINE DEI MONDI AL CASTELLO VISCONTEO DI ABBIATEGRASSO

 


5-10 APRILE 2022 / LA FINE DEI MONDI AL CASTELLO VISCONTEO DI ABBIATEGRASSO

Quando uno spazio espositivo viene riempito di contenuti, di istanze di senso e di visioni prospettiche, esso si trasforma in quello che possiamo definire uno spazio critico di riflessione, vivo ed esigibile. La Fine dei Mondi s’inserisce in un progetto di più ampia proposta artistica, promosso dall’associazione culturale ArteMETA con il patrocinio dell’Accademia di Belle Arti di Brera, Milano, chiamato L’arte non si ferma: titolo dal contenuto emblematico e scaramantico, quasi fosse un monito o un’affermazione programmatica, frutto dei recenti mesi di “silenzi coatti” dovuti alle conseguenze sociali pandemiche.

Il tema trattato e la questione di fondo sono purtroppo noti: il pianeta su cui viviamo ci sta presentando un conto salato che difficilmente potremmo saldare. Un conto costituito da più voci che delineano uno scenario apocalittico sotto gli occhi falsamente innocenti di tutti: cambiamenti climatici, sfruttamento di risorse naturali, deforestazioni, piani di sviluppo economico non sostenibili, guerre e crescenti povertà. Ecco l’Antropocene in tutto il suo diabolico e problematico fulgore! La connessione con il mondo come la conoscevamo è saltata.

La Fine dei Mondi vuole riferirsi a una molteplicità di connessioni perdute, di ambiti riflessivi alternativi, di un fare creativo che riconduce a una domanda finale: che sia solo quello dell’arte contemporanea l’unico mondo ancora rimasto, l’unico mondo dopo la fine del mondo? Prendendo a prestito la potente metafora sviluppata da Herman Melville (1819-1891) nel suo romanzo Moby Dick, dove la possente e magnifica balena bianca non è altro che il simbolo della Madre Natura che si ribella, messa alle strette dall’ossessione del capitano Achab, simulacro del genere umano in cerca di dominio assoluto, potremmo delineare la struttura di questa mostra.

Ecco, allora, che inseguendo questa suggestione partiamo dall’opera di Giuseppe Pagani: un’enorme struttura in ferro raffigurante una balena che emerge possente dal fondo dei mari e che si staglia minacciosa contro gli spazi-mondi adiacenti a essa. Come l’installazione fotografica di Valentina Anna Carrera che ci presenta Oxigene: un progetto dedicato all’albero, al respiro della terra che è poi il nostro respiro.
 Un lavoro meticoloso con stampe su carta da disegno; stampe fotografiche su acetato trasparente a strati sovrapposti; cassette di legno di recupero industriale; foto-sculture.
 Oxigene si compone di livelli dove è possibile addentrarsi come in un bosco magico dai rami spettrali e sovrapposti a bronchi, a indicare che il nostro sistema respiratorio è identico a quello della natura e che solo nel conservarla avremo una possibilità di sopravvivenza.

Valentina Anna Carrera, Oxigene

Un’adiacenza semantica che possiamo trovare nel lavoro della fotografa Maria Serra, che ci propone una serie potente di scatti fotografici in bianco e nero. Il concetto di respiro torna con prepotenza nei corpi femminili raffigurati che subiscono una vestizione indotta con maschere a gas che al pari di una forza mutogena esterna, trasforma alla radice l’essenza corporea stessa. Serra mette in campo il concetto della trasfigurazione, del mutamento dei corpi in un’ottica post-umana. In entrambi i lavori delle artiste sono evidenti i segni e le conseguenze sul genere umano: l’attuale crisi pandemica con la sua peculiarità patologica proprio sull’atto respiratorio e le artiste ne colgono la portata specifica e ne problematizzano la potenza trasformatrice.

Maria Serra

Un’astrazione metamorfica che troviamo anche nei lavori della sala adiacente, caratterizzata da una visione distopica del mondo. Il filmmaker Giorgio Magarò si cimenta in un’installazione artistica intitolata Il sollievo, in cui è dichiarato lo stato di disprezzo egoistico e narcisistico finalizzato alla sola ricerca di benessere fisiologico individuale, metafora delle dinamiche di potere capitalistico imperante, noncurante delle conseguenze nefaste sulla restante parte del mondo. Insieme a quest’opera Magarò ci presenta Limbo, un cortometraggio adattato per questa occasione, da lui stesso interamente girato durante il primo lockdown: una metafora in chiave fantascientifica della pandemìa del 2020. Realizzato in casa e con attori in “remoto“, Limbo sviluppa una potente meta-narrazione sull’arte domestica dove arte e artigianato viaggiano in simbiosi su un’opaca linea di confine tra cronaca e viaggio fantastico.

Giorgio Magarò, Limbo

Tracce di questa visione distopica del mondo la possiamo ritrovare nel lavoro del collettivo artistico Totally Swim con Progetto Adam: ambientazione interattiva che invita a riflettere sull’eticità delle scelte quotidiane. Secondo gli autori, attraverso l’uso del loro stesso arbitrio gli spettatori diventeranno la cifra analitica della società in cui vivono. In un futuro distopico in cui l’ultimo baluardo per la salvaguardia dell’umanità dall’estinzione è un neonato senza tempo, il pubblico ricopre il ruolo di “genitore” imponendo la sua autorità tramite scelte che plasmeranno Adam per tutta la sua esistenza.

Proseguendo in questo ipotetico viaggio giungiamo alla parte finale della mostra dove nell’ultima stanza troviamo il lavoro della fotografa Lu Magarò che concepisce un’installazione interattiva, Madre Linfa, fondata sul concetto della narrazione esperienziale dei ricordi. L’artista ricrea un luogo evocativo che rimanda alla nascita e al rinnovamento, ciclo vitale naturale, attraverso una voce narrante che ci restituisce a un parallelismo visivo tra gravidanza e natura: il concetto di fertilità come madre generatrice. Attraverso la riproduzione di una voce di una donna anziana, saggia e dolce, gli spettatori vengono coinvolti in un ambiente amichevole, inclusivo e nello stesso tempo reale.

Tratti che ritroviamo infine in Incubatio, l’installazione site specific dell’artista Marco Bellomi. L’incubatio è una pratica antica di origine greca della quale si ritrovano ancora tracce nelle tradizioni popolari salentine, dove soggetti che necessitano di “risposte” provenienti dal regno ultraterreno stazionano dormendo in luoghi sacri, in attesa di contatti interpretativi. Questo abbandonarsi nel sonno è per l’artista la condizione per riconnettersi a una dimensione perduta con le proprie origini ataviche, dove le forze naturali subivano una mitizzazione fortemente simbolica impersonificata con la Dea Madre, forza femminile generatrice dell’universo intero. Madre dispensatrice di vita, ma anche di morte e infine fautrice del ciclo vitale eterno che il genere umano ha sostituito scegliendo la dimensione utilitaristica degli eventi. A compendio dell’installazione, sarà prevista una performance artistica dell’interprete Annibale Covini, ispirata all’opera.

Marco Bellomi, Incubatio

La Fine dei Mondi diventa quindi uno spazio critico di riflessione relazionale, con l’intento di non fornire certo risposte indubbie e risolutive, ma di originare domande a cui il genere umano non può sottrarsi. L’intento dei curatori della mostra, Marco Bellomi e Giorgio Magarò, è quello di fornire strumenti interpretativi anche abbinando serate a tema con:

– Il collettivo di Fridays for Future.
– La presentazione del libro Come sovvertire l’ordine costituito, trovare l’amore e vivere felici di Tina Caramanico.
– L’incontro In-finito: essere nel finito con il monaco buddista Fabrizio Anshu Ferro e lo scrittore filosofo Fabio Cantelli Anibaldi.
– L’incontro con Alessandro Baito e Paolo Bertazzoni in Ieri è oggi. Domani/l’altro.
– La performance artistica Bewood di Obeliscoproduction.

Lo scrittore filosofo Fabio Cantelli Anibaldi

La Fine dei Mondi

giovedì 10 marzo 2022

La fine dei Mondi. Intervista a ....


 LA FINE DEI MONDI

Incominciamo a conoscere meglio alcuni protagonisti della mostra d'arte contemporanea La fine dei Mondi di Abbiategrasso .
Incominciamo con il co-curatore della mostra stessa Giorgio Magarò.
Giorgio è un filmaker indipendente con molte produzioni alle spalle.
In questo occasione lo troviamo nella veste di artista e curatore della mostra.
Si presenterà con una installazione multimediale dal forte contenuto critico sulla responsabilità degli eventi catastrofici che caratterizzano la nostra epoca e con Limbo, un corto metraggio girato durante il recente periodo di lockdown pandemico.
A lui abbiamo rivolto alcune domande
La mostra La fine dei Mondi alla quale partecipi è caratterizzata da un forte contenuto sociale, politico.
Gli artisti sono coinvolti rilasciando un contributo su temi di attualità stringenti come l’urgenza ambientale.
Ritieni che oggi il ruolo dell’artista debba inserirsi in questa ottica di responsabilità sociale, di testimonianza critica verso i comportamenti nocivi dei poteri forti?
No. L’artista racconta ciò che vive e sente in un momento storico ed esistenziale preciso. Nella mia vita le narrazioni che ho affrontato rispecchiavano la mia posizione nel mondo in un preciso momento. Penso che la sfera individuale e sociale, politica o introspettiva abbiamo un peso diverso nelle nostre vite a seconda delle fasi in cui le percepiamo. Posso solo dire che oggi, per me, l’emergenza globale è qualcosa di imprescindibile. Con passione e rabbia. Penso che l’umanità sia arrivata ad una svolta possibile, una svolta tuttavia che sarà attuata solo quando non ci saranno alternative. In altre parole sono pessimista sulla capacità del sistema capitalistico di affrontare onestamente la crisi globale. Ci riusciremo solo in una fase successiva. Che sicuramente ci sarà, forse tra cento anni, ma ci sarà.
Il format della mostra si basa su un’impostazione indipendente dal contesto usuale su cui si basa il sistema dell’arte. Quindi niente fini lucrativi o profittevoli, ma impegno e condivisione dell’organizzazione, della curatela e assunzione collettiva delle problematicità.
Credi che queste forme organizzative, con tutti i limiti che si trascinano, possano essere delle valide alternative alle mostre convenzionalmente concepite?
L’arte deve partire da un’esigenza espressiva. A volte questa coincide con un ritorno economico, a volte no. L’importante è che tali risvolti non siano un limite, un ostacolo. Il vero artista crea per vivere ma allo stesso tempo crea in modo indipendente.
Non so se ci saranno ancora artisti “professionisti” in futuro. Forse l’arte è destinata a diventare qualcos'altro.
I tuoi progetti futuri e in tre parole come definiresti la tua arte o te come artista.
Non faccio previsioni per il futuro. Anche perché il mio lavoro si contestualizza socialmente ed emotivamente nel tempo e nello spazio. In questo momento pandemico il mio percorso si concentra sulle produzioni “home studio” e rispecchiano un concetto di produzione autogestito sia come spazi che come tecnica, domani mi piacerebbe tornare a viaggiare, a condividere maggiormente le esperienze, anche perché la mia arte consiste nel raccontare storie di persone. Storie attraverso la costruzione di qualcosa di tangibile, concreto, a tratti orgogliosamente artigianale.

lunedì 21 febbraio 2022

Concepire la fine come un nuovo inizio


Quando uno spazio espositivo viene riempito di contenuti, di istanze di senso e di visioni prospettiche, esso si trasforma in quello che possiamo definire uno spazio critico di riflessione, vivo ed esigibile.

Il tema trattato e la questione di fondo sono purtroppo noti: il pianeta su cui viviamo ci sta presentando un conto salato che difficilmente potremmo saldare. Un conto costituito da più voci che delineano uno scenario apocalittico sotto gli occhi falsamente innocenti di tutti: cambiamenti climatici, sfruttamento di risorse naturali, deforestazioni, piani di sviluppo economico non sostenibili, guerre e crescenti povertà.

Ecco l’Antropocene in tutto il suo diabolico e problematico fulgore!

La connessione con il mondo come la conoscevamo è saltata.

La fine dei mondi vuole riferirsi ad una molteplicità di connessioni perdute, di ambiti riflessivi alternativi, di un fare creativo che riconduce ad una domanda finale: che sia solo quello dell’arte contemporanea l’unico mondo ancora rimasto, l’unico mondo dopo la fine del mondo?


venerdì 28 gennaio 2022

La coperta più calda


  

Questa è la storia di una ragazza tedesca che faceva l'infermiera, si chiamava Petra Schneider e lavorava nell'ospedale Roitzper nella cittadina di Holwerstein a dieci chilometri da Monaco.

La signorina, spinta dal fidanzato, aveva escogitato un modo abbastanza semplice per guadagnare soldi: a volte, quando una donna doveva partorire due gemelli, il primo lo dava alla madre e l'altro, facendolo passare per morto, lo consegnava al fidanzato Ralf Fischer impiegato nell'orfanotrofio Holtzpratt, due strade più in là.

"Ci servono i soldi, ti voglio sposare, saremo felici."

Lei, diciotto anni appena, ci volle credere.

Benchè immersa in questo piano folle, ogni bambino che sottraeva lo avvolgeva nella coperta più calda, lo alzava verso il cielo, lo guardava negli occhi, lo baciava sulla fronte e gli sussurrava "che tu sia felice".

La mattina del 7 marzo 1921 separò due gemelli monozigoti: Hans e Yaacov.

Hans finì fra le braccia di sua madre, una ragazzina tedesca biondissima e di buona famiglia sposata con un soldato ligio al proprio dovere.

Yaacov fu venduto ad una coppia di giovani sposi, tedeschi di religione ebraica, che non poteva avere figli, convinti di fare un'opera di bene.

Perché forse non tutti lo sanno ma in Germania i tedeschi ebrei erano più di 200.000.

I primi ad essere sterminati.

L' infermiera Petra (la sua agendina ritrovata lo confermerà) annotò che Hans e Yaacov erano come due gocce d'acqua.

Non solo indistinguibili per le fattezze ma ancor di più per le reazioni.

Verosimilmente gli stessi gesti, lo stesso modo di pensare, la stessa intelligenza, la stessa bontà d'animo, lo stesso carattere.

In pratica la stessa persona divisa in due.

Proprio così: la stessa persona divisa in due.

Hans visse immerso nell'amore cullato dai genitori, dai nonni e dagli amici.

I giocattoli di legno, gli orsacchiotti di pezza, le paste la domenica.

Per Yaacov era uguale.

Ma poi l'Olocausto.

Il padre di Hans, militare nazista, una volta spiegato al figlio chi era il nemico non dovette neanche indirizzarlo più di tanto verso il lavoro che avrebbe dovuto scegliere.

Nella sua realtà -l'unica che la vita gli aveva offerto- e spinto dall'amore per i suoi genitori, i suoi amici e i suoi simili, per difenderli, si iscrisse al partito e fu mandato a sedici anni appena a fare il soldato nel campo di concentramento di Dachau.

A questo punto è facile immaginare cosa successe.

Il fratello Yaacov, stessa età, strappato alla famiglia e deportato nello stesso campo di concentramento, seppure consunto nel fisico e svuotato nell'animo capì subito che sarebbe stata proprio la stanza delle docce a dargli la morte.

E capitò.

Un giovedi di gennaio, il 27, alle otto e cinquanta di mattina.

Yaacov fu l'ultimo degli ottocento esseri umani ad entrare in quell'enorme camera, la camera del male, posta di fianco ai forni crematori, per essere prima ammazzato e poi bruciato.

E a chiudere la porta spingendolo in malo modo, destino beffardo, fu proprio il gemello Hans.

Uno in divisa e in perfetta forma fisica, l'altro nudo, deperito e rasato a zero.

Non si riconobbero.

Però, in quella frazione di secondo in cui si specchiarono l'un l'altro negli stessi occhi la consapevolezza dell'anima fu uguale per entrambi.

Uno sarebbe morto dopo dieci minuti, completamente e l'altro ogni istante e inesorabilmente da quel momento in poi.

Entrambi ignorando che solo il caso non ha voluto che Hans fosse al posto di Yacoov e viceversa.

L' infermiera Petra non è mai esistita.

Così come non sono mai esistiti il fidanzato Ralf, l'ospedale Roitzper, l'orfanotrofio Holtzpratt, la cittadina Holwerstein e neanche questa storia.

Milioni di Hans e Yaacov credo di si.

Ancora oggi, forse, dentro ognuno di noi.

Monica Rossi

giovedì 20 gennaio 2022

Bowie tra finzione e realtà

 Questa è una storia in bilico su un confine.

Un inciampo che destabilizza e fa perdere l’equilibrio se non si presta cautela nel varcare la soglia.

E’ il confine tra realtà e finzione.

La cosa si complica quando siamo costretti a discernere in un mondo dove realtà e finzione si mescolano al punto che è quasi impossibile individuarne i lembi precisi dell’una e dell’altra.

Ci sono ambiti in cui questa difficoltà è più marcata.

Narrativa, linguaggio cinematografico e soprattutto arte ad esempio.

David Bowie ci andava a nozze con il mischiare le carte.

La sua conoscenza dell’arte di certo l’aiutava. Ma andiamo con ordine.

Nel 1995 usciva l’eclettico lavoro 1.Outside: una riuscitissima incursione nell’industial art rock e nel trip hop,in una cornice di citazioni artistiche pazzesca.

La storia si incardinava sulle vicende dell’art detective (alterego di Bowie) Nathan Adler alle prese con una indagine alquanto complessa .

Un passaggio del Diario di Nathan Adler ci introduce nell’argomento che mi interessa.

Eccolo:

Lo stesso Nicolas Serota ci ha giudicati, noi pesci piccoli del dipartimento, degni di un’esposizione alla Biennale di Venezia dell’anno scorso: tre stanze di testimonianze certe e studi comparati che hanno definitivamente provato come la vacca nel “Test dell’occhio innocente” di Mark Tansey non può discriminare tra il torello di Paul Potter, del 1647 (incidentalmente 300 anni giusti prima che io nascessi) e uno dei covoni dipinti da Monet nel 1890.

 

A cosa si riferisce Bowie quando parla di “Test dell’occhio innocente” di Mark Tansey ?

Narrazione della realtà o finzione artistica?

Entrambe.

E qui la faccenda si complica.

Aiutiamoci con la foto del quadro. Si perché quel quadro citato esiste, eccome.

 


 

Nel dipinto è rappresentata questa scena: nella sala di un museo è stata portata la tela del monumentale De Stier (Il giovane toro) di Paulus Potter (1647, al Mauritshuis di L’Aia). Di fianco al grande dipinto secentesco resta alla parete, nella sua dignitosa cornice, uno dei covoni di Monet (con tutta probabilità quello innevato del Museum of Fine Arts di Boston).

La scena prevede che la sala del museo si trasformi in un laboratorio e si popoli di camici bianchi e distinti uomini occhialuti,scienziati esperti delle reazioni che un bovide debba o possa esprimere di fronte ad una  mucca dipinta,forse la madre del giovane toro di Potter.

Una mucca in una sala di museo, di fronte a un dipinto appena svelato, può destare qualche preoccupazione: ma per ovviare a qualsiasi inconveniente c’è anche lo scopettone per, eventualmente, pulire.

The innocent eye test, è il titolo dell’opera di Mark Tansey (1981, al Metropolitan di New York) racconta questa storia con l’intento di deridere il fenomeno  della tradizione accademica da una parte, e simmetricamente di ragionare sul mito, della percezione pura (e naturale) dell’immagine, di contro alla percezione intesa come atto culturalmente connotato. Per i teorici questo è il punto: cosa vede un occhio innocente nell’incontro con uno sguardo dipinto? 

Perché il punto sta lì.

 E’ l’arte che ci guarda o siamo noi che guardiamo l’arte?

Non solo. 

La mucca che osserva innocente, da cosa sarà attratta?

 Dal covone di Monet (metafora del cibo) o il toro di Potter ( metafora del sesso) entrambi elementi legati alla sopravvivenza.

Se l’occhio innocente del Toro non vede nulla neanche l’occhio del bovino che guarda la tela dipinta è innocente.

Oppure l’innocenza dell’occhio consiste proprio nel fidarsi della rappresentazione pittorica.

E tuttavia nessuno saprà mai cosa vede la mucca, se vede se stessa, se vede un’altra mucca, se vede un dipinto che raffigura una mucca (la più improbabile delle ipotesi).

Il bovino quindi non discerne come dice Adler-Bowie come testimoniato dalle tre stanze colme di studi della Biennale di Venezia.

 

Tutto un gioco di realtà e finzione.

Ci si mette anche  la tecnica utilizzata dal contemporaneo Tansey che gioca con questo equivoco. Lui, pittore iperealista rappresenta una scena come se fosse presa da un documento scientifico vintage dell’ottocento.

 

Finzione e/o realtà, appunto.

Gioco di confini, di difficoltà di leggere un mondo impermanente.

Il nostro.

A noi forse scegliere.

lunedì 17 gennaio 2022

Corpus domini


 

CORPUS DOMINI

Dal corpo glorioso alle rovine dell’anima

dal 27.10.2021 al 30.01.2022

Consiglio la visione di questa bellissima mostra sul concetto di corpo nel mondo dell'arte.

Curata da Francesca Alfano Miglietti, illustre e seminale critica che si è sempre occupata dei " nostri corpi", con una attenzione particolare alla grande mamma della critica d' arte, la compianta Lea Vergine.

Il confine tra reale e immaginario è sempre meno riconoscibile, tanto da assorbire la realtà dentro uno schermo, come dimostra l’ossessiva presenza degli schermi nella nostra vita: schermi piatti delle televisioni e dei computer, dei videogiochi, degli smartphone.” afferma la curatrice, che prosegue: “Lo schermo annulla la distanza tra lo spettatore e la scena, lo invita a immergersi dentro, gli offre una realtà a portata di mano, ma su cui la mano non ha alcuna presa.”




La molteplicità della rappresentazione dell’essere umano attraverso l’esibizione del corpo e la sua sparizione conducono il visitatore in un viaggio attraverso il rapporto tra arte e corporeità.


111 opere – installazioni, sculture, disegni, dipinti, videoinstallazioni e fotografie – di 34 artisti riconosciuti a livello internazionale - alcune delle quali vere icone del contemporaneo, esposte per la prima volta in Italia, per raccontare la molteplicità della rappresentazione dell’essere umano.

Il titolo si riferisce alla scomparsa del ‘corpo vero’ a favore del ‘corpo dello spettacolo’: da un Corpo Glorioso - il corpo della consapevolezza, della ribellione, dell’alterità - al Corpo del Contemporaneo - da un lato nella sua declinazione di corpo della società dello spettacolo e dall’altro nelle sue forme più poetiche: il corpo dell’esodo, del lavoro, della moltitudine silenziosa. 


In circa mille metri quadrati di superficie si snoda un percorso espositivo che analizza l’insorgere nella contemporaneità di nuove forme di rappresentazione, ponendo l’attenzione sullo storico passaggio dal corpo vivo protagonista della Body Art al corpo rifatto dell’Iperrealismo, sul mutamento dei canoni estetici della rappresentazione, e sulla potente evocazione dell’individuo mediante i suoi resti, le sue tracce, i suoi rivestimenti. Un racconto che vuole riflettere sulla crisi dell’esperienza sensoriale provocata dall’avvento di una cultura che propone corpi perfetti, modificati, ripensati, prodotti e ri-prodotti ed essenzialmente finti. 



domenica 9 gennaio 2022

Cambiamenti radicali

Quando prendiamo in considerazione il concetto di cambiamento cosa intendiamo veramente? La cosa a che fare, ad esempio con i "buoni propositi"? Siamo sempre pronti a  dire - da mani mi metto a dieta, da domani mi iscrivo alla palestra sotto casa, da domani  starò di più con mia moglie, ecc-

Ma è questo il cambiamento che ci evolve, ci fa più consapevoli?

E' forse, invece, un atteggiamento, una visione prospettica che illumina il quotidiano rendendolo reale, privo di incrostazioni egotiche a cui siamo aggrappati perchè ricerchiamo incessantemente una identità alla quale aderire.

Siamo esseri condannati alla costante ricerca della felicità e non ci curiamo dell'abbandono del proprio edificante Io.

Si, il cambiamento è in definitiva un abbandono senza sentirci orfani.

Ripoto un brano di Jiddu Krishnamurti tratto dal libro "La rivoluzione anteriore"

Qualsiasi tendenza o talento che produca isolamento, qualsiasi forma di auto-identificazione, per quanto stimolante possa essere, distorce l’espressione della sensibilità e crea insensibilità.

La sensibilità viene offuscata quando si dà importanza al “me” e al “mio” – io dipingo, io scrivo, io invento.

Solo quando siamo consapevoli di ogni movimento del nostro pensiero e dei nostri sentimenti nelle relazioni con le persone, con le cose e con la natura, la mente è aperta, flessibile, non intralciata da esigenze auto-protettive e desideri; e soltanto allora c’è sensibilità al brutto e al bello, non ostacolata dal sé.

La sensibilità alla bellezza e alla bruttezza non deriva dall’attaccamento, nasce con l’amore, quando non ci sono conflitti creati da noi stessi.

Quando siamo poveri interiormente, indulgiamo in varie forme di esibizione esterna, con la ricchezza, il potere, i possessi.

Quando i nostri cuori sono vuoti collezioniamo cose.

Se ce lo possiamo permettere, ci circondiamo di oggetti che riteniamo belli, e siccome gli attribuiamo enorme importanza, siamo responsabili di molta infelicità e distruzione.

Lo spirito acquisitivo non è amore per la bellezza, sorge dal desiderio di sicurezza ed essere sicuri significa essere insensibili. "





sabato 8 gennaio 2022

Shiny

 Shiny, shiny, shiny boots of leather

Whiplash girl child in the dark

Comes in bells, your servant, don't forsake him

Strike, dear mistress, and cure his heart




mercoledì 8 dicembre 2021

Il simulacro di John


 Oggetti e forme che interrogano. 

Che rimandano ad assenze ineludibili.

Gli occhiali di John Lennon, riconsegnati a Yoko Ono dopo l' omicidio dell'uomo sotto casa, sono un simulacro dell'orrore che ci perseguita.

Quell' orrore che ci schianta quanto siamo di fronte al reale e non ne realizziamo la potenza.


domenica 5 dicembre 2021

Incontro con Fabio


 

Scrissi di Fabio qualche giorno fa proprio su questo blog.

Si trattava di una intervista che gli feci su questioni legate all’arte, alla creatività e al processo creativo che ispira la sua scrittura.

Breve ma intensa, come spesso accade quando si parla con Fabio anche di argomenti apparentemente più leggeri.

Conobbi Fabio del tutto casualmente vedendo la serie televisiva di Netflix dedicata alle vicende che caratterizzarono i primi decenni della vita della comunità terapeutica per tossicodipendenti Sanpatrignano.

La serie, ben fatta stilisticamente ed accattivante nella narrazione scenica, poneva in luce, attraverso documenti filmati ed interviste ai protagonisti che avevano vissuto nella comunità, i fatti che coinvolsero in primis il suo fondatore Vincenzo Muccioli.

Partivo prevenuto: sapevo dalle cronache dell’epoca, quello che era successo e quale alone avvolgeva un personaggio a tratti difficile, enigmatico, antipatico, sempliciotto ma a volte supponente come Muccioli.

Dalle prime immagini tale opinione non mi abbandonò, anzi la perplessità circa il continuare la visione stava aumentando.

Fino a quando entrò in scena Fabio. E tutto virò.

Nel senso che presto mi convinsi, sentendo le parole di Fabio e come le pronunciava o argomentava, che il mio pregiudizio potesse in qualche modo vacillare.

Ben inteso: la mia opinione su Muccioli e Sanpatrignano non cambiò radicalmente, ma ammisi che un giudizio viziato da preconcetti, fake news e passaparola circostanziati, non potesse essere usato per osservare gli eventi della vita, nel loro dispiegarsi, complessi ed articolati.

Dicevo di Fabio. Nelle interviste della serie televisiva compariva seduto su un letto di una camera d’albergo anonima e spoglia e dalle sue parole emergeva un vissuto fatto di vicende spesso drammatiche, di anni di permanenza in comunità con diverse responsabilità ma anche di angoscianti fughe.

Cantelli narrava con una “grana” che non poteva non graffiare, come carta abrasiva, le mie emozioni e  corde empatiche.

E poi lui: una postura sciamanica, una magrezza Assoluta.

Pelle e ossa.

Quella pelle che è metafora di confine adiposo con il mondo esterno, che a stento trattiene un Io invasivo che trascende da e con ogni discorso.

Quell’osso che è sostanza primitiva, arcaica che ci riporta ad una idea di morte immanente, Assoluta e comune ad ogni esperienza umana.

Ma sono gli occhi, vivi ed attenti che spesso si posano oltre l’interlocutore, capaci di inumidirsi di un velo di lacrime quando i ricordi si fanno più grevi, che tengono insieme il tutto.

Un “memento mori vivente”, bruciante ed intenso che cattura, coinvolge e non concede fughe.

Tutto questo Fabio Cantelli Anibaldi ha tentato di metterlo nel suo Libro “Sanpa. Madre amorosa e crudele”.

Libro che ha ispirato la serie televisiva, scritto ben 25 anni fa in tempi non sospetti: bello, scritto bene e finalmente “non scorrevolissimo” inteso qui come pregio. Perché sulle pagine bisogna spesso rifletterci, tornarci più volte per farle decantare nella nostra frenesia della necessità di capire tutto e subito.

Mentre scrivo queste parole, dalla finestra della mia casa di montagna si intravede uno splendido tramonto che riflettendo sulle vette di roccia coperte di neve, colora di rosso intenso il panorama. Le rocce assumono le sembianze di rosse braci che sotto la neve gelida delle alte quote ardono di bruciante vividezza.

Mi piace accostare questa immagine alle esperienze raccontate da Fabio nel libro.

Un giorno la neve si scioglierà ma le braci vivide, ardenti riscalderanno per molto ancora il nostro bisogno di tepore rassicurante.

Fabio Cantelli Anibaldi sarà ospite, in un incontro con l’autore presso l’auditorium di Locate Triulzi (MI) del quale riporto la locandina per i dettagli.

Io ci sarò e mi piacerebbe incontravi.

martedì 30 novembre 2021

né alla parola né al pensiero







L’alfabeto della pittura non appartiene né alla parola né al pensiero logico. L’arte non ha bisogno di alcuna risposta: è una domanda che vuol restare tale. Iniziare a parlare del proprio lavoro significa cominciare a tacere perché l’opera è un’iniziazione al silenzio.

C. Parmiggiani, Stella sangue spirito,

 

venerdì 26 novembre 2021

Bacon e Burroughs . Una storia immaginaria


 

“Tangeri è uno dei pochi posti al mondo in cui, a patto che non ti dedichi a furti, assassinii o forme più o meno crude di violenza antisociale, puoi ancora fare letteralmente quello che vuoi” diceva William S. Burroughs che proprio nella città marocchina aveva base negli anni 50.

Certo, lui stava fuggendo da una condanna di omicidio formulata negli Stati Uniti che pendeva sulla sua testa. Una storia torbida, mai chiarita a fondo, che lo vedeva protagonista come esecutore della morte di sua moglie. Una passione per le armi, per l’eccesso visionario e per l’alcool e l’eroina.

Quella volta aveva puntato il suo fucile contro la moglie che si era prestata ad un’improbabile emulazione del gioco di Guglielmo Tell.

Una mela posta in testa alla giovane donna doveva essere il bersaglio.

Ma Bill, così lo chiamavano i suoi amici, non era Guglielmo Tell.

Mira scarsa, distorta da una potente bevuta.

Opps…colpita in pieno volto la moglie.

Nel solco di uno strisciante maccartismo fu facile per la Corte Americana formulare una condanna per omicidio… L’occasione era ghiotta: togliere di mezzo un tossico, omosessuale, scrittore scomodo e agita popolo.

Quindi via.

A Tangeri, dove potevi trovare affari loschi, sesso a buon mercato sia maschile che femminile, alcool a volontà e soprattutto droga: di ogni tipo e tanta.

Ma anche compagnia di amici, intellettuali, scrittori ed artisti.

Un popolo di sbandati, reietti in cerca di dimensioni alternative che potessero accogliere le loro menti febbrili, eccitate e creative. I migliori in quel periodo.

Tra loro Francis Bacon, pittore irlandese arrivato a Tangeri per seguire il suo amore, il suo compagno di letto e sbronze.

Un amore complesso, violento e criminale. Francis si vedeva spesso seduto al margine di un bistrot, in fondo alla kasbha principale. Pesto, con il labbro sanguinante e tumefatto dalle botte che il suo amore gli somministrava con eccessiva tenerezza.

Ubriaco, disperato tanto da radunare i suoi schizzi e dipinti dei ritratti di lui, lo stronzo che lo scopava senza amarlo, e dargli fuoco in piazza tra i bei ragazzi marocchini che lo commiseravano.

Posso immaginarli Bacon e Burroughs che radunavano i fogli che un refolo disperdeva nelle strette viuzze e chiedere un accendino a quel ragazzotto che appoggiato ad un muro li osservava divertito.

Lo stesso ragazzo che sarebbe finito nel loro letto, di un appartamento misero colmo di immondizia, bottiglie vuote e siringhe sporche.

Incombeva su quella cricca di artistoidi pazzi, incontenibili una guerra civile di liberazione.

Perché Tangeri era un porto franco dove tutti volevano comandare e nessuno quindi comandava e ciò era intollerabile per le forze governative marocchine.

Il gruppo si disperse negli anni, qualcuno resto in Marocco a vivere la sua miserabile vita, altri a raccogliere i frutti del successo in patria.

Burroughs e Bacon si rincontrarono spesso in Europa, portandosi appresso la notorietà che avevano conquistato a fatica.

Li accumunava, oltre che un passato ribelle e turbolento, una ricerca letteraria e pittorica che non smetteva di interrogare i limiti dell’Io, ovvero quella distorsione spinta in cui l’individuo perde la sua identità.

Fino a che grado di distorsione era disposto a sopportare un volto amato sprofondato nella follia, nell’odio, nella malattia, nella morte.

Dov’era posta la linea di demarcazione, la frontiera dove un “io” cessa di essere tale.

martedì 23 novembre 2021

QUANTO E' DIFFICILE TROVARE L'ALBA DENTRO L'IMBRUNIRE intervista a Fabio Cantelli seconda parte

 



la seconda parte dell'intervista a Fabio Cantelli Anibaldi

Una delle tesi più note di Jean Clair è che il nostro tempo sia il tempo della morte clinica dell’arte. L’arte muore quando viene reciso il suo rapporto con l’assoluto della vita e della morte, due stati spesso considerati opposti, antitetici. Secondo la tua esperienza artistica è possibile cogliere, rappresentare quel punto di equilibrio, quella verticalità che ci connette con l’assoluto?

È da quando sono ragazzo che sento parlare ciclicamente di morte dell’arte, della letteratura, del teatro… Con tutto il rispetto di Clair l’arte in tutte le sue forme non credo possa essere considerata solo in ottica storicistica, sociologica, men che meno psicologica. Occorre una sensibilità e uno sguardo che chiamerei “cosmologici”, i soli che consentono di capire e prima ancora percepire che il rapporto con l’assoluto è impossibile reciderlo perché di assoluto, cioè di fame inestinguibile d’infinito, siamo fatti, a dispetto del nostro patetico rappresentarci autonomi, disincantati, “laici” e spassionati padroni delle emozioni. Il “tempo verticale”, espressione ricorrente nei miei testi e interventi, non è una “teoria” ma un’esperienza che chiunque può fare guardando nel proprio abisso, dove il tempo è assoluto e fatti anche remotissimi la cui emozione ci ha dischiuso visioni interiori e esteriori inedite, continuano ad accadere liberi dai vincoli astratti della “cronologia”.

 

Chi sono, per te, quelle figure artistiche che in qualche maniera hanno influenzato la tua scrittura, il tuo osservare ed interpretare il mondo?

 

Se intendi per “figure artistiche” quelle relative all’arte “figurativa” o “astratta”, la mia conoscenza è penosamente lacunosa. Complice il fatto, forse, che il primo interesse per l’arte lo maturai a diciassette anni imbattendomi nelle più radicali avanguardie artistiche del ’900, dadaismo e surrealismo in particolare. Diciamo allora che, come con la droga, anche con l’arte ho iniziato dalla fine, da una “morte dell’arte” non retorica ma concretamente esperita come rifiuto della società borghese in un’epoca in cui forse la borghesia toccò il culmine del suo potere. Rifiuto che non risparmiava lo stesso “ribelle”, se è vero che «dada non significa niente» e che la rivoluzione surrealista non c’entrava nulla, a dispetto dei proclami ideologici di Andrè Breton e Louis Aragon, con quella comunista. C’entrava invece con la nostalgia del sacro e dell’infinito. Nonostante i modi provocatori e sbarazzini quelle avanguardie furono l’appendice novecentesca dell’ideale romantico in un mondo ormai dominato dalla “razionalità” degli “spensierati ingegneri”, come li aveva definiti il preveggente Nietzsche, un mondo dal quale gli dei avevano sloggiato da un pezzo, come disse in svariati modi Heidegger. Il cosiddetto nichilismo muove sempre da una nostalgia del sacro, è distruzione perseguita nella speranza che il mondo ridotto a macerie favorisca il ritorno degli dei. Se devo però pensare ad artisti-artisti o opere che mi hanno emozionato e in qualche modo arricchito il mio sguardo sul mondo, non posso non citare Egon Schiele, l’autoritratto seminudo di Richard Gerstl, molte opere di Bacon, qualcuna di Joseph Beuys, Anselm Kiefer, Lucian Freud. 


lunedì 22 novembre 2021

QUANTO E' DIFFICILE TROVARE L' ALBA DENTRO L'IMBRUNIRE Intervista a Fabio Cantelli prima parte


 

Ho l'onore e il piacere di porre qualche domanda all'amico Fabio Cantelli Anibaldi su arte, processo creativo ed altro.

Fabio già vice presidente del Gruppo Abele di Torino, giornalista e filosofo ha pubblicato il bellissimo "Sampa. Madre amorosa e crudele" per Giunti, libro dal quale è stata tratta la serie televisiva Sampa per Netflix in cui si narrano le vicende della comunità terapeutica di San Patrignano, nella quale Fabio è stato ospite per molti anni, dagli albori fino alle vicende di cronaca degli anni novanta.

Fabio Cantelli risponde alle mie domande con la densità e la cura che contraddistinguono i suoi approfondimenti, i suoi scritti che sono sempre carichi di rimandi ad un interrogarsi mai definitivo.

Vi lasci alla lettura di questa prima parte.

 

 «Nessuno ha mai scritto, dipinto, scolpito, modellato, costruito o inventato se non per uscire letteralmente dall’inferno». Così Artaud definiva il processo creativo inteso come necessità per l’artista di uscire dai propri inferni, uscire dagli schemi involutivi che imprigionano le nostre autentiche libertà. Cosa rappresenta per te il processo creativo?

 

Antonin Artaud – il cui nome pronuncio col timore e tremore dovuti a una figura senza la quale non sarei ciò che sono – aveva una sensibilità ancora influenzata dal Romanticismo, di cui peraltro siamo tutti figli. Mi riferisco alla parola “inferno”, con cui Artaud designa la vita. Inferno tale, però, solo per chi dopo il trauma della nascita si aspetta piaceri e nutrimenti paradisiaci, aspettativa tragicamente delusa perché quando veniamo al mondo il paradiso l’abbiamo già vissuto, salvo che non possiamo saperlo. Il paradiso è infatti la terra premessa, non “promessa”. Voglio dire che ad Artaud – come, prima, ai Romantici – sfuggì che il paradiso è ciò che ognuno di noi vive anzi più propriamente è prima di nascere, quando siamo vita elementare, incosciente ma senziente, vita sciolta nell’indifferenziato del grembo materno, «aria nell’aria, acqua nell’acqua» per usare le parole di un’altra figura decisiva per la mia formazione: Georges Bataille. Stato di cui non abbiamo coscienza né, quindi, esperienza, ma di cui ogni cellula del nostro essere serberà per sempre memoria, celata in quelle profondità dove la percezione è congiunzione di nulla e tutto, dove il corpo senziente è già corpo sapiente. È questa vita immediata priva ancora di soggetto – essendo il soggetto un mediatore – il motore e l’oggetto dell’arte, secondo me. La cosiddetta realtà – parola che Nabokov invitava a mettere sempre tra virgolette – funge solo come invito all’altrove, altrove che a ben vedere o meglio ben sentire, è già da sempre qui, qui ed ora. Questo Artaud credo non lo percepì perché l’“inconveniente” di essere nati, per usare il magnifico eufemismo di Cioran, fu in tutto e per tutto per lui una tragedia. «È così che fui bambino nello scandalo del mio io» scrisse nel manicomio di Rodez nel 1946, due anni prima di morire. Ecco allora le manie persecutorie, l’immaginarsi vittima di fatture ecclesiastiche e trame psichiatriche volte a legarlo a un mondo che lo rigettava così come lo aveva rifiutato il grembo materno: «È un vero disperato che vi parla e che conosce la felicità d’essere al mondo solo adesso che ha lasciato questo mondo e ne è assolutamente separato. Morti, gli altri non sono separati: girano ancora intorno ai loro cadaveri. Io non sono morto, ma sono separato». Così Artaud conclude l’introduzione a “Le nuove rivelazioni dell’Essere”, testo scritto nel 1937 poco prima dell’internamento a Rodez. Allo stesso modo, sempre scrivendo della disperazione di essere al mondo – disperazione definita “capitale” – aveva usato l’espressione “vuoto genitale” laddove si tratta di quel “tutto pregenitale” che precede la nascita. Un tutto da cui è impossibile separarsi essendo genitore e ombra del nostro vagare sulla Terra. Quale che sia insomma la forma artistica, essa è espressione, o meglio, evento del tutto. In ogni sua espressione l’arte è tutto che accade in parte e come parte, e artista è solo chi da mediatore riesce a farsi “medium”, puro tramite tra vita e morte, cielo e inferno. Arte significa autotrascendenza, testimonianza di ciò che si è visto al di là dell’io. Non c’è arte senza metamorfosi dall’io in Sé, cioè senza “amor fati”, per usare la formula di un altro veggente internato quarant’anni prima di Artaud: Nietzsche. In tal senso – tornando alla tua domanda – il processo creativo rappresenta per me un ricongiungimento parziale alla mia origine di “non-ancora-nato” con esiti a loro volta fatalmente parziali. Il prodotto del processo creativo è sempre imperfetto e perfezionabile: si tratta allora di portare l’imperfezione al massimo livello, laddove non appare come un difetto ma come un segno credibile e dunque emozionante del nostro vagare sulla Terra. Siamo tutti anime perse e alla ricerca, per fortuna: la differenza sta nel saperlo o meno. Quanto alla ricerca che anima il processo creativo avviene, per quel che mi riguarda, in una sorta di trance, ma nell’automatismo permane sempre un margine di autocoscienza, una breccia di vigilanza. L’espressione artistica nasce dall’incontro tra inconscio e conscio, allorché, riconoscendosi reciprocamente, capiscono di essere uniti all’origine. Questo spiega perché la droga non solo non favorisce il processo creativo ma lo inibisce. Con la droga il margine di vigilanza scompare, come quando un ruscello impetuoso sfocia in un lago: il furore si disperde nella vastità. La droga pacifica, risolve le tensioni e le contraddizioni, annulla la distanza da noi stessi e dagli altri. Sotto l’effetto della droga diventavo statico, inerte e felice di esserlo. Diventavo io stesso opera, creazione, senza esserlo… Tutto quello che potevo dire o scrivere, a quel punto, non poteva che essere banale. L’esperienza era totalizzante al punto da annullare la parola, che vive di scarti e differenze. Un mondo uguale a sé stesso è un mondo del quale letteralmente non c’è nulla da dire.

 Al netto del “puramente decorativo”, dei sentimentalismi e della teatralità del concetto di bellezza, credo che l’opera d’arte autentica contenga sempre un segno traumatico di fondo. Quel trauma generato dall’impossibilità di rappresentare il nostro rapporto con la realtà. La scrittura, la pittura e le arti in genere, cioè il dire con la consapevolezza del trauma, può avvicinarci al “reale” che è in definitiva lo scompaginamento della realtà?

 

Innanzitutto credo sia necessario riflettere sul senso della parola “trauma” riscattandola dall’accezione puramente negativa che, dalla psicologia, si è trasferita al senso comune. In senso diametralmente opposto ritengo che la vita sia nel suo insieme un trauma meraviglioso, pensando alle emozioni stesse come a traumi, posto che la parola trauma rimanda a un verbo che significa ferire, trafiggere, perforare... Direi allora che i traumi sono i varchi che la vita apre nel nostro essere per continuare a fluirci dentro, varchi che sono dolorosi quando incontrano una resistenza, un “io” fortificato nella presunzione di poter dominare la vita, appropriarsene, rappresentarla nella sua totalità, come se una pozzanghera potesse contenere l’oceano… Quindi il «segno traumatico di fondo» di cui parli non è necessariamente un dolore a cui l’espressione dà forma e senso: può essere il ricordo di un’epifania, di un orgasmo, di un’estasi. Ciò premesso, associ al trauma «l’impossibilità di rappresentare il nostro rapporto con la realtà». Io non parlerei d’impossibilità. Impossibilità rispetto a cosa, poi? A una riproduzione letterale della realtà, a un suo doppio? La rappresentazione è sempre un’interpretazione e proprio perché interpreta de-cifra il “reale”. Altrimenti si resta appunto nella “cifra”, nella logica quantitativa della matematica e dell’economia, col rischio di ridurre il perturbante, cioè la vita, a numero, a segno “esatto”. Rischio meravigliosamente rappresentato dall’apologo di Borges sull’imperatore della Cina: l’imperatore vuole una mappa dettagliata dell’impero ma ogni volta che i cartografi gliela mostrano la rimanda indietro, convinto che si possa fare di meglio, che non sia abbastanza dettagliata. Finché i cartografi ne producono una estesa quanto l’impero dunque inservibile, del tutto inutile… Voglio dire che ogni rappresentazione è fatalmente parziale ma ci sono rappresentazioni perfette proprio perché accolgono il loro limite come tramite all’infinito, condizione per poterlo significare. L’arte senza autotrascendenza non è rappresentazione ma autopromozione, manifesto della bravura dell’artista. È la consapevolezza della nostra origine e l’accettazione serena di non potervi ritornare se non – ma nulla garantisce – in punto di morte, a generare “l’arte per l’arte”, che non è estetismo ma un rappresentare fine a sé stesso dunque indecifrabile per la corrente mentalità utilitaristica. Etica di vita riassumibile nell’esortazione della Baghavad Gita a “staccarsi dai frutti dell’atto”, cioè agire senza badare all’esito dal momento che non siamo autori ma attori delle nostre azioni, condannati all’atto come ai lavori forzati. Carlo Sini scrive magnificamente che «non siamo soggetti delle azioni ma soggetti alle azioni». Non possiamo esimerci di fare dal momento che anche non fare è pur sempre un fare. Non possiamo fare a meno di fare perché siamo “vita attiva” dall’origine, da quando eravamo nel grembo. Si tratta allora di fare consapevolmente, e certamente il processo creativo è un fare consapevolmente in trance, un fare che, osservandosi, svetta sopra il fine contingente per entrare nella regione del gratuito e del necessario, cioè del sacro. Agli adolescenti che dopo “Sanpa” ho la fortuna d’incontrare nei licei, dico che la questione della vita è in fondo tutta riassumibile in quel verso di “Prospettiva Nevskij” di Battiato che dice: «e il mio maestro m’insegnò quanto è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire». Il che significa – aggiungo meno poeticamente – trovare l’assoluto nel relativo, l’eterno nel transitorio.

segue...


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