sabato 14 giugno 2025

Ferite che parlano, materia che passa: Alberto Burri e Berlinde De Bruyckere tra arte e impermanenza





Questo articolo propone una lettura comparativa tra l’opera di Alberto Burri e quella di Berlinde De Bruyckere alla luce del concetto di impermanenza. Attraverso l’analisi dei materiali, delle forme e delle poetiche della ferita, si mostra come entrambi gli artisti abbiano trasformato la vulnerabilità e la transitorietà della materia in dispositivo estetico e ontologico. Ne emerge una riflessione profonda sulla condizione umana, storica e postumana, che rende l’arte uno spazio attivo di memoria, trasformazione e sopravvivenza.

 materia, tempo e ferita

L’arte contemporanea ha profondamente rinnovato la concezione della materia, del corpo e del tempo. A partire dalla seconda metà del Novecento, la superficie artistica non è più solo supporto visivo, ma campo d’azione dove la materia vive, soffre, si trasforma. In questa prospettiva, le opere di Alberto Burri (1915–1995) e Berlinde De Bruyckere (1964–) offrono due traiettorie emblematiche. Pur separati da generazioni e contesti, entrambi gli artisti condividono un approccio alla materia come corpo vulnerabile, in cui la ferita diventa forma e il tempo, traccia.

Il concetto di impermanenza, centrale nelle filosofie orientali ma anche nella riflessione estetica contemporanea, agisce qui non solo come tema, ma come principio strutturante dell’opera: la materia non è statica, ma soggetta a mutazione, consunzione, entropia. Come scrive Georges Didi-Huberman, «la ferita è una figura del tempo»¹ — una definizione che ben si adatta a entrambi gli autori trattati.


Alberto Burri: estetica della combustione

Medico di formazione e reduce della prigionia militare in Texas durante la Seconda Guerra Mondiale, Alberto Burri avvia la propria ricerca artistica nella Roma del dopoguerra, distinguendosi ben presto per l’uso radicale di materiali extra-pittorici: sacchi di juta, catrame, plastica, legno bruciato. La serie dei Sacchi (1949–1953) è forse l’esempio più noto di questo approccio. Le cuciture che uniscono lembi di tela lacerata evocano suture chirurgiche, segni di un corpo offeso e ricomposto².

Nei Cretti degli anni Ottanta, la materia pittorica viene portata all’estremo: la superficie si crepa, si essicca, si frantuma come terra arsa. Qui l’opera non rappresenta l’impermanenza, ma la vive: lo stesso processo di essiccazione e crettatura, favorito da specifiche miscele di caolino, vinavil e pigmenti, è soggetto al tempo e all’ambiente. Come ha osservato Germano Celant, Burri non cerca la rappresentazione del dolore, ma la sua presenza incarnata nella materia stessa³.

 

Berlinde De Bruyckere: la carne in mutazione

Se Burri lavora verso un’astrazione della materia, De Bruyckere insiste su un linguaggio figurativo trasfigurato, in cui la corporeità è al centro. Le sue sculture in cera, legno, tessuti e resina riproducono membra umane o animali in pose contorte, piegate, sospese. Corpi anonimi, spesso privi di volto, richiamano le iconografie cristiane del martirio, ma anche la vulnerabilità universale del vivente.

In Cripplewood (2012–13), esposta al Padiglione del Belgio alla Biennale di Venezia, un grande tronco d’albero è ibridato con tessuti, membra umane e bende: un corpo-arbusto che richiama la caduta, la mutazione, la possibilità della cura. Secondo lo storico dell’arte Philippe Van Cauteren, la scultura di De Bruyckere opera come «sintesi tra la sofferenza organica e quella simbolica»⁴.

A differenza di Burri, De Bruyckere costruisce un tempo sospeso, quasi liturgico. Le sue installazioni spesso assumono la forma di luoghi votivi, dove il dolore si fa memoria rituale. L’impermanenza è qui non solo decadimento ma trasformazione poetica, ciclo vitale che unisce umano, animale, naturale e spirituale


 Ferita e trasformazione: due vie alla stessa verità

La dialettica tra ferita e forma attraversa l’opera di entrambi. Se per Burri la combustione è gesto e processo, per De Bruyckere è la cura a essere centrale: le sue sculture sono spesso fasciate, coperte, protette, come se volessero rallentare la dissoluzione. In entrambi i casi, però, l’opera non si presenta mai come oggetto stabile o eterno. Al contrario, è sempre soggetta a processi naturali di mutamento: lo scorrere del tempo agisce sulla cera, sulla juta, sulla plastica, sulla carne scolpita.

Questo atteggiamento si oppone frontalmente all’idea modernista dell’arte come oggetto perfetto e immutabile. Sia Burri che De Bruyckere propongono un’estetica impermanente, in cui l’arte è una presenza viva, che soffre, decade e si rinnova, proprio come i corpi che rappresenta.


Conclusione: materia, tempo, sopravvivenza

In un’epoca in cui il corpo è sempre più astratto, digitalizzato, disincarnato, le opere di Burri e De Bruyckere ci riportano alla verità primordiale della carne e della materia. Entrambi costruiscono un’arte che non nega la morte ma ne accetta il ruolo nella trasformazione del vivente. L’impermanenza diventa così linguaggio e destino: ciò che si deteriora, ciò che cambia, ciò che ferisce, è anche ciò che ci definisce come esseri umani.


Là dove Burri scava nella memoria storica e nella distruzione per astrarre la carne, De Bruyckere ci riconsegna una corporeità archetipica e rituale, fatta di pietà, metamorfosi e fragilità. In questo dialogo silenzioso, le loro opere testimoniano la possibilità che l’arte, nel suo confronto con la caducità, non solo registri la fine, ma inauguri una nuova forma di presenza.


Note


1. Didi-Huberman, G., La pelle delle immagini. Il tempo e la superficie nell’arte contemporanea, Einaudi, Torino, 2006.



2. Crispolti, E., Burri: critica e storia, De Luca, Roma, 1996.



3. Celant, G., "Materia e forma: Burri e la dissoluzione dell’immagine", in Alberto Burri, catalogo della mostra, Palazzo delle Esposizioni, Roma, 2009.



4. Van Cauteren, P., "Berlinde De Bruyckere. On the Wound and the Healing", in Cripplewood, Hannibal Publishing, 2013.p


Bibliografia essenziale


Celant, Germano. Alberto Burri: The Trauma of Painting. Guggenheim Museum, New York, 2015.


De Bruyckere, Berlinde. Embalmed. Snoeck Publishers, Gent, 2005.


Didi-Huberman, Georges. La pelle delle immagini. Einaudi, 2006.


Van Cauteren, Philippe (a cura di). Cripplewood. Hannibal, 2013.


Crispolti, Enrico. Burri. Catalogo ragionato. Skira, 2016.


Nancy, Jean-Luc. Corpus. Editions Métailié, 1992 (trad. it. Cronopio, 2002).


Agamben, Giorgio. Il corpo senza organi. Biopolitica e potere estetico. Quodlibet, 2015.


domenica 25 maggio 2025

Le Monete Tribali Africane e il Concetto di Forma nel Design

 





 Le Monete Tribali Africane e il Concetto di Forma nel Design – Un’Esplorazione Transculturale tra Oggetto, Valore e Identità

L’ occasione di tornare a parlare di forma nell’arte mi è arrivata dopo aver visitato la bellissima mostra al Musec di Lugano AFRICAN DESIGN. I metalli del potere.

Quando si affronta il concetto di “forma” nel design, spesso si tende a considerarlo in termini puramente estetici o funzionali. Tuttavia, la forma è anche un dispositivo culturale, narrativo e simbolico. Essa costituisce un mezzo attraverso cui si esprimono, si codificano e si tramandano significati. In questo contesto, le monete tribali africane rappresentano un campo di studio straordinario, in grado di mettere in discussione i paradigmi classici della progettazione occidentale e offrire nuovi spunti per comprendere la relazione tra oggetto, funzione e cultura.

Tento un’indagine comparativa tra le monete tribali africane e il concetto moderno di forma nel design. Verranno analizzate le implicazioni simboliche, rituali, estetiche e funzionali della forma in due contesti apparentemente distanti ma sorprendentemente complementari: il sistema monetario tradizionale africano e la pratica del design industriale e contemporaneo. Tale confronto non solo arricchisce la nostra comprensione delle pratiche materiali africane, ma solleva questioni fondamentali sul ruolo del design nella costruzione di significati condivisi.

I Sistemi Monetari Tribali Africani: Un’Alchimia tra Forma, Valore e Società

Nel continente africano, prima della diffusione delle valute coloniali europee, esistevano centinaia di sistemi monetari tradizionali, ciascuno dei quali rifletteva l’organizzazione sociale, i valori culturali e le strutture simboliche delle comunità locali. Le cosiddette "monete tribali" erano spesso realizzate in metallo – rame, ferro, ottone – e si presentavano in forme estremamente varie: bracciali, asce, zappe, serpentine, anelli, oggetti fallici, lance, spade, e figure antropomorfe o zoomorfe.

 

Queste forme non erano arbitrarie. Esse codificavano informazioni, raccontavano storie, stabilivano gerarchie sociali, e regolavano le relazioni interpersonali. Ad esempio, nella regione del Congo, le “monete a forma di zappa” erano simbolo di fertilità e abbondanza, e venivano spesso utilizzate nei matrimoni come dote. In altri contesti, le “monete a bracciale” (come i manilla dell’Africa Occidentale) erano riservate a cerimonie rituali o alla compravendita di terre, bestiame e persino persone. L’uso e la forma della moneta erano quindi inseparabili: l’oggetto monetario non solo rappresentava un valore, ma lo “metteva in scena”.

La Forma come Linguaggio: Antropologia delle Monete e Teoria del Design

Se osserviamo queste monete attraverso la lente dell’antropologia visiva, possiamo cogliere la profondità del rapporto tra forma e cultura. Ogni elemento formale – curva, punta, simmetria, texture – ha una funzione comunicativa. È un linguaggio visivo, leggibile all’interno della comunità, capace di trasmettere appartenenza, potere, identità e legittimità. Questo sistema semiotico è particolarmente interessante per il designer, in quanto mostra come la forma possa superare il livello meramente funzionale per diventare un vettore di significato.

Nel design moderno e contemporaneo, soprattutto a partire dal XX secolo, si è sviluppato un pensiero sulla forma come “risposta ottimizzata” a una funzione. Il principio modernista “form follows function” ha dominato per decenni, portando alla creazione di oggetti essenziali, razionali, riproducibili in serie. Tuttavia, questo paradigma ha mostrato nel tempo i suoi limiti, soprattutto nel rapporto con le dimensioni simboliche e identitarie degli oggetti.

Le monete africane tradizionali ribaltano questa logica: la forma non è derivata solo dalla funzione tecnica (come mezzo di scambio), ma è plasmata dalla funzione simbolica e rituale. Questo rovesciamento offre una prospettiva rivoluzionaria per i designer che oggi vogliono andare oltre la mera utilità e creare oggetti che parlino, che connettano, che raccontino.

Confronto con il Design Contemporaneo: Tra Globalizzazione e Recupero del Locale

Nel mondo globalizzato, il design si trova in una posizione ambigua: da una parte tende all’omologazione estetica, dall’altra ricerca autenticità attraverso il recupero di tradizioni locali e materiali culturalmente significativi. È in questo secondo movimento che la forma delle monete tribali africane trova una nuova rilevanza.

Molti designer contemporanei, soprattutto nel campo del design sociale, del design etico e del design artigianale, stanno riscoprendo il valore della forma come portatrice di narrazioni. In questa cornice, le monete africane diventano modelli di “design vernacolare”: oggetti nati dalla comunità, in risposta ai bisogni locali, ma carichi di significati condivisi. La loro forma non è imposta dall’esterno, ma generata dal contesto: è un prodotto del paesaggio culturale.

Nel mondo occidentale, il recupero dell’imperfezione (wabi-sabi), dell’artigianalità, della materia “calda” è una risposta alla freddezza e all’anonimato del design industriale. Le monete africane, fatte a mano, uniche, incarnano questi valori in modo autentico e originario. Esse non solo rompono con la standardizzazione, ma propongono una forma di bellezza legata alla memoria, all’uso, al vissuto.

Materiali, Simboli e Codici: La Forma come Mappa Culturale

Analizzando le monete africane dal punto di vista dei materiali, emerge un’altra dimensione fondamentale della forma: la sua relazione con la materia. In molte culture africane, il ferro è considerato sacro, in quanto associato al fuoco, alla creazione, alla trasformazione. Il fabbro – colui che plasma la forma – è spesso visto come una figura liminale, tra l’umano e il divino. Ne deriva che la forma non è solo estetica o funzionale, ma spirituale.

Il designer contemporaneo, invece, è spesso distaccato dalla produzione materiale. La progettazione avviene in studio, mentre la realizzazione viene affidata alla fabbrica. Ciò comporta una separazione tra l’idea della forma e la sua esecuzione, tra la visione e la materia. Le monete tribali africane rappresentano un’opportunità per ripensare questa distanza: esse ci insegnano che la forma nasce nel gesto, nell’uso, nel rito, e che la materia è co-autrice del significato.

 






Le monete tribali africane non sono semplicemente artefatti del passato. Esse sono testimoni viventi di una concezione del design radicata nella cultura, nella ritualità, nella narrazione. Mettere in dialogo queste forme con il pensiero contemporaneo sul design non è un esercizio nostalgico, ma un atto critico e rigenerativo.

In un'epoca in cui il design rischia di perdere contatto con la vita reale, con i bisogni profondi, con le relazioni umane e spirituali, le 

 


domenica 18 maggio 2025

Lo Specchio Deformante

 



Pioveva acido. Le gocce rimbalzavano sulle lamiere dei tetti come dita nervose che battevano su un vetro sporco. I neon pubblicitari sputavano immagini stanche, incastrate in loop di promesse di perfezione, sorrisi posticci, corpi impossibili.

Nordavax era diventata questo: un riflesso persistente. Un gigantesco specchio metropolitano. Ovunque ti girassi, c’erano superfici riflettenti. Vetrine, schermi, facciate, persino l’asfalto bagnato. Tutto restituiva un’immagine — mai tua, non davvero — ma di ciò che pensavi di essere, o che volevi che gli altri vedessero.

La gente non si guardava più in faccia. Si osservava nei riflessi, negli avatar, nelle versioni digitali di sé stesse. Il contatto umano era una reliquia. L’empatia, un fastidio. I legami si erano fatti evanescenti. Corde tese nel vuoto che non vibravano mai.

Era una città costruita sull’apparenza. Un luogo dove nessuno era reale se non appariva come voleva essere visto.

Ed è lì che ho commesso il mio crimine.

Mi chiamo Emil Larcen. Ero uno scienziato. Un costruttore di specchi. Ma non quelli che riflettono la luce. I miei riflettevano l’anima. O almeno… così dicevo.

Ora so che riflettevano solo il nostro abisso.

La Torre Panóptica era un edificio che stava in piedi solo grazie all’arroganza. Trecento metri di vetro nero, circondato da pareti specchianti che ospitavano centri di ricerca, studi di neuroetica e, per un certo periodo, anche la mia coscienza.

La stanza 47 era al piano più alto. Nessuna finestra. Nessun accesso alla rete. Solo muri insonorizzati e un impianto di ventilazione difettoso che tossiva come un vecchio malato terminale.

E al centro della stanza: lo Specchio Deformante.

Tre metri d’altezza. Una cornice fatta di ossidazioni metalliche e cavi ottici. Una superficie non piatta, non curva, ma viva. Lo Specchio non rifletteva l’immagine esterna. Non era un oggetto. Era un processo. Si collegava al cervello dell’osservatore attraverso onde neurali, decifrava i modelli cognitivi, i desideri latenti, le frustrazioni sepolte, e le mostrava.

Mostrava come ti vedevi.

O, peggio, come volevi vederti.

Il primo giorno che ci ho guardato dentro, ho visto me stesso. Non come ero. Come avrei voluto essere. Alto, elegante, vestito con un completo nero. Dietro di me, una folla immensa in silenzio. Tutti mi guardavano come si guarda un messia. Ogni mio gesto era legge. Ogni parola, vangelo. Avevo la città ai miei piedi.

Ma quando mi sono voltato — nel riflesso, intendo — la mia nuca era cava. Vuota. Una maschera che sorrideva solo davanti. Dietro, solo buio.

Sono svenuto. Mi hanno trovato tre ore dopo, tremante sul pavimento.

Ma non ho smesso di guardare.

Avevo creato lo Specchio come parte del progetto Speculum Veritatis. L’idea era tanto brillante quanto folle: costringere gli esseri umani a confrontarsi con la propria auto-percezione per guarire dalle dissonanze, dai traumi, dai falsi sé. Pensavo di poter salvare la mente collettiva.

Ma avevo sottovalutato il potere dell’illusione.

La gente non vuole la verità. Vuole la propria versione della verità. Vuole sentirsi speciale. Irripetibile. Amata. Temuta. Vuole il controllo. Il dominio. L’ammirazione.

Lo Specchio mostrava tutto questo. E quando lo toglieva, lasciava il vuoto.

I test iniziali furono devastanti. Alcuni soggetti vedevano sé stessi come divinità immortali. Altri come vittime eterne. Molti finivano in crisi psicotiche. Alcuni si suicidavano entro 48 ore.

Lo Specchio non mentiva. Non diceva nemmeno la verità. Era peggio: diceva ciò che credevi fosse vero. E lo mostrava con la violenza delle immagini.

La commissione etica chiuse il progetto. Lo Specchio fu bandito. Ma io lo tenni con me. Mi chiusi nella stanza 47. E cominciai a parlarci ogni notte.

Era l’unico che mi mostrava ancora qualcosa.

Nordavax, nel frattempo, aveva adottato la mia malattia.

Non c’era più differenza tra persona e personaggio. Ognuno curava la propria immagine come fosse un’opera d’arte tossica. Profili digitali aggiornati al secondo. Manipolazione dell’immagine corporea. Voice filters per mascherare insicurezze. Traduzioni emotive automatizzate.

L’amore era diventato una strategia di marketing. L’amicizia, un interscambio performativo. La sessualità, un linguaggio cifrato.

Ogni individuo si muoveva con la consapevolezza di essere osservato. Ma non per essere capito. Solo per essere invidiato.

Lo specchio era ovunque. Ma nessuno si guardava davvero. Solo proiezioni.

Era il mio fallimento perfetto.

Io continuavo. Ogni notte, accendevo lo Specchio. Mi sedevo davanti. Parlavo. Lo interrogavo. A volte lo minacciavo. Altre, lo supplicavo. Lo Specchio restituiva sempre ciò che volevo. O ciò che temevo.

Un giorno mi mostrò la città in ginocchio, mentre io volavo sopra, con un mantello bianco che brillava come un angelo. Tutti mi ringraziavano. Mi imploravano. Mi adoravano.

Ma quando abbassavo lo sguardo, i volti erano tutti “il mio”.

Era come se avessi clonato me stesso in ogni cittadino. Una folla di Emil. Tutti con lo stesso sorriso finto. Tutti con gli occhi spenti.

Ogni tanto, nel riflesso, un mio doppio mi fissava. E sorrideva. Quel sorriso… Dio. Ancora oggi mi sveglio sudato per colpa di quel sorriso.

Avevo provato a comunicare. Avevo creato un canale chiamato “Riflessi di Verità”, dove trasmettevo i miei pensieri, le visioni, i risultati delle mie sessioni con lo Specchio. Nessuno ascoltava. O forse sì, ma nessuno rispondeva.

I cittadini di Nordavax non parlavano più. Non interagivano. Non litigavano. Non facevano l’amore. Guardavano. Scrollavano. Postavano. Ogni frase era una posa. Ogni opinione, un esercizio narcisistico. Nessuno ascoltava nessuno.

Era l’inferno della “non reciprocità”.

Un tempo pensavo che l’opposto dell’amore fosse l’odio.

Ora sapevo la verità: è l’indifferenza.

Poi, una notte, tutto si spense.

Nessun allarme. Nessun segnale. La città sprofondò nel buio. Niente più neon. Niente più riflessi. Solo silenzio. E pioggia.

Mi svegliai nella stanza 47, con il cuore che batteva troppo in fretta. Mi avvicinai allo Specchio. Era spento. Nero. Per la prima volta, non restituiva nulla.

Allora lo guardai come si guarda un cadavere. Mi sedetti. E aspettai.

Dopo ore — forse giorni — la superficie si accese.

Ma non mostrò me. Non subito.

 

Mostrò “loro”. Tutti. La città intera. Volti umani. Veri. Difettosi. Gente che rideva, piangeva, urlava. Gente che non vedevo da anni. Gente che avevo dimenticato.

Poi, tra loro, mi vidi anch’io.

Ma non il me delle visioni.

Il vero me. Occhi stanchi. Spalle curve. Barba lunga. Pelle grigia. E uno sguardo… rotto.

E in quel momento capii.

Lo Specchio non era il problema. E nemmeno la città.

Ero io.

Avevo costruito una macchina per vedermi migliore. Più amato. Più potente. Avevo riempito la rete di me stesso. Avevo contagiato ogni pixel della città con il mio desiderio di controllo, di gloria, di adorazione.

Avevo ucciso ogni forma di relazione. Avevo promosso l’immagine a verità. L’apparenza a essenza. L’ammirazione a sostituto dell’amore.

Lo Specchio era solo un mezzo.

Io ero il carnefice.

E la mia creatura, Nordavax, era la mia vittima.

O forse era il contrario.

La mattina seguente — o forse era notte, chissà — mi vestii. Scrissi una frase sul muro con un pennarello rosso:

“Non mi vedo più. Finalmente.”

Poi salii sul tetto. Il vento sapeva di ammoniaca e malinconia. Guardai la città. Spenta. Silenziosa. Bellissima, per la prima volta.

Mi buttai.

Il mio corpo lo trovarono tre giorni dopo. Un senzatetto mi coprì con un telo. Nessun funerale. Nessun articolo. Nessun epitaffio.

Ma qualcosa cambiò.

La stanza 47 fu sigillata. Lo Specchio non fu più accesso. Ma qualcuno racconta che, anche spento, rifletta cose nuove.

Volti veri. Abbracci sinceri. Mani sporche. Errori. Gesti. Non più icone. Non più idoli. Non più maschere.

Solo esseri umani.

Forse lo Specchio ha imparato.

O forse, per un attimo, ha semplicemente smesso di deformare

 

 

mercoledì 16 aprile 2025

UN ALBERO RADICATO NEL FUTURO : “L’ ALBERO DI TESLA” l’ultimo film di Giorgio Magarò

 






Il cinema ha il potere di rendere vivida e coinvolgente qualsiasi epoca storica, sfruttando un insieme di strumenti espressivi che spaziano dalla fotografia, al montaggio, alla colonna sonora. Grazie a queste tecniche, gli eventi del passato non appaiono più come semplici dati cronologici, ma si trasformano in esperienze emotive dirette per lo spettatore. 

Fin dalla sua nascita alla fine del XIX secolo, ha sempre avuto un rapporto stretto con la scienza e la tecnologia. Senza le scoperte scientifiche in ambito ottico, meccanico e chimico, la settima arte non sarebbe mai nata. Tuttavia, l'influenza della scienza sul cinema non si limita alla sua creazione tecnica: la scienza è anche una fonte inesauribile di ispirazione per registi e sceneggiatori, che spesso hanno utilizzato teorie e scoperte scientifiche per costruire narrazioni affascinanti e visionarie.

Quando si decide di riportare in vita un personaggio storico come Nikola Tesla, il linguaggio cinematografico deve affrontare una sfida duplice: da un lato, restituire fedelmente il contesto storico e scientifico in cui l’inventore operava; dall’altro, rendere il personaggio attuale e affascinante per il pubblico contemporaneo. Per riuscirci, registi e sceneggiatori adottano spesso soluzioni creative che mescolano realtà e finzione, costruendo una narrazione che non è mai una mera riproduzione documentaristica, ma un’opera artistica dotata di un’identità propria. Rendere attuale un personaggio storico attraverso il cinema non significa solo raccontare la sua vita, ma ridefinire il modo in cui esso viene percepito dal pubblico. Questo processo di rielaborazione è un atto profondamente creativo, che implica la scelta di una chiave di lettura originale capace di comunicare con la sensibilità contemporanea. 

Il cinema, infatti, non è mai una semplice riproduzione del reale, ma una sua interpretazione artistica. Registi e sceneggiatori scelgono quali aspetti di un personaggio mettere in evidenza, quale tono adottare e quale atmosfera costruire. Nel caso di Tesla, il suo lato più futuristico e misterioso è spesso accentuato per rafforzare il suo status di precursore e outsider del progresso scientifico. 

L’ occasione di rimarcare questi concetti è data dalla imminente uscita del nuovo film dell’amico regista Giorgio Magarò, “ L’ALBERO DI TESLA”.

Nato in Umbria, vissuto a Milano e attualmente attivo nel pavese, ha all’attivo molti documentari a carattere sociale e alcuni film di fantascienza e non solo, tra gli altri L’ISOLA SBAGLIATA (2017), LIMBO (2020) e CHAOS (2023).

Giorgio dice di sé: “Scrivere in poche righe la propria storia professionale non è cosa semplice. Il mio lavoro, iniziato alla fine degli anni ’80 è fatto di molte esperienze intense che mi hanno permesso di incontrare persone e realtà che non conoscevo”.

L’ALBERO DI TESLA” ha proprio il focus sullo scienziato Nikola Tesla, per chi non l’avesse ancora capito.

Incontro Giorgio un tardo pomeriggio in quel di Lodi, dove sta allestendo la mostra collaterale alla proiezione in 3d del suo film  CHAOS. Tra un modellino di una astronave e una strana tuta da palombaro, troviamo il momento per un caffè e scambiare quattro chiacchiere.

Giorgio, dopo esserti cimentato con la cinematografia di fantascienza,  dimensione stilistica d'elezione vista la tua passione verso l'argomento, hai approcciato il genere storico. Come mai questa scelta e quali difficoltà hai dovuto affrontare?

La mia passione per il personaggio è nota da tempo. La sua figura mi ha sempre affascinato: una delle menti più geniali e misteriose della storia. Con questo lavoro mi proponevo di esplorare le sue battaglie personali, il rapporto con altri pionieri dell'epoca e soprattutto il suo lato più enigmatico e visionario. La sua storia si prestava perfettamente a questa operazione, poiché la sua esistenza è caratterizzata da elementi di grande fascino narrativo: la rivalità con Edison, le sue invenzioni rivoluzionarie, il carattere solitario e utopista, ma anche il fallimento economico nonostante le sue scoperte fondamentali. Volevo che queste caratteristiche specifiche caratterizzassero i personaggi del film, cosa del resto che faccio sempre nei miei film dove i personaggi si portano appresso un vissuto che è tutto da immaginare e magari non è palesato nella narrazione stessa. Così accade in un lavoro fantascientifico o storico: due facce della stessa medaglia. Nel primo faccio indossare delle tute spaziali nel secondo giacche e pantaloni d’epoca, molto semplice. Certo la contestualizzazione, le location mi costringono a fare esercizi di studio per far aderire maggiormente il contenuto con l’epoca, ma questo viene da sé.

 

Salvo errori per questo film hai curato anche la scrittura a differenza di altri tuoi lavori precedenti. Questo è dovuto al fatto che l'argomento del film è centrato sulla figura dello scienziato serbo Nikola Tesla a cui sei molto legato e quindi forse volevi la sicurezza che si raccontasse il "tuo" Tesla senza correre il pericolo di andare fuori tema?

Avrei potuto confrontarmi stilisticamente con il Tesla di The Prestige  di Christopher Nolan, dove Tesla, interpretato da David Bowie, viene rappresentato come un enigmatico scienziato ai limiti della fantascienza, capace di creare invenzioni rivoluzionarie che sfidano i confini della realtà ma che lo trasforma in un simbolo della lotta tra creatività e potere, tra progresso scientifico e interessi economici, rendendolo estremamente attuale.

Oppure ancora con il Tesla  di Michael Almereyda, con Ethan Hawke nel ruolo del protagonista. In questa pellicola, il regista adotta una narrazione sperimentale, mescolando elementi biografici con scelte stilistiche anacronistiche, come l’uso di proiezioni digitali e scene in cui Tesla canta brani pop moderni (Everybody Wants To Rule the Word - Tears for Fears ndr).

L’operazione che io faccio è molto diversa, centrandolo su una storia inventata e ambientandolo a Pavia. Tesla, interpretato da Luigi Cori  incontrerà la fisica Rita Brunetti, interpretata da Chiara Vitti. Brunetti si occupò di spettrografia e diresse l’Istituto di Fisica a Pavia dal 1936 al 1945 e i sui studi coinvolgono nella storia Nikola Tesla in merito al sui Teslascopio uno strano ed eclettico strumento in grado di comunicare con lo spazio…strumento realmente inventato da Tesla ma del quale, come per altre invenzioni non c’è più traccia.

È per questo motivo che ho lavorato direttamente sulla sceneggiatura, proprio per non perdere il filo di questa narrazione fantastica.

 

Beh…a questo punto continua con il racconto senza spoilerare troppo….

Dicevo che Nikola giunto a Pavia, verrà accompagnato dalla sua amica Katharine McMahon Jonhson, poetessa interpretata da Inga Babenko, la quale non riuscirà a convincere il suo amico a dedicarsi a una dimensione sociale, tentando di riportarlo su dimensioni meno visionare. Infatti Tesla inseguendo la sua indole chimerica si porterà in quel di Montesegale per portare a compimento il suo progetto di comunicare con i marziani. In quei giorni Tesla vivrà una fase di confusione tra realtà sperimentale e sogni di aliene, interpretata da Martina Calzavacca,  che comunicano con lui. La storia poi si sposta in un altro contesto lodigiano, tra visite di un investigatore fascista, interpretato da Alessandro Baito, ma ora non vorrei togliere la sorpresa…

Parlaci allora del lavoro che hai fatto con gli attori protagonisti per portarli sulla tua concezione del lavoro e hai lavorato anche sulla colonna sonora?

Fortunatamente in questi anni mi capita spesso di lavorare con gli stessi attori che collaborano con me da parecchio. Questo mi aiuta molto perché mi permette di entrare più in sintonia  con i personaggi che interpreteranno. Poi il lavoro si basa come sempre sul renderli partecipi della sceneggiatura, parlando a lungo con loro anche sui personaggi principali, con informazioni storiche e caratteriali. Trattandosi di un film con forti caratteristiche storiche ci siamo soffermati particolarmente sui costumi d’epoca. Una novità è poi stata quella di reclutare un buon numero di comparse per attenermi a particolari riprese effettuate in un cinema d’epoca. Una sfida che mi ha impegnato molto ma che mi ha permesso di conoscere molte persone. Anche sulla colonna sonora ho voluto dare un’impronta caratteristica rievocando il particolare suono del  theremin  un sintetizzatore elettronico, inventato nel 1920 dal fisico sovietico Lev Sergeevič Termen. In questo caso mi sono avvalso della colonna sonora originale del maestro Massimo Bendinelli e del figlio Vittorio. Non mancano altri contributi musicali eseguiti  dal Quartetto d'archi del Conservatorio "Vittadini" di Pavia con la direzione della musicista Adriana Tataru.

Parliamo di ambientazioni. Dove è stato girato il film e perché proprio queste location?

Ho scelto ambientazioni che potessero rievocare essenzialmente il modus storico del film. Pavia e i suoi scorci storici si prestavano particolarmente per girare alcune scene importanti. Ma non voglio dimenticare alcune situazioni girate al Museo della Tecnica Elettrica, Museo di Storia Naturale KOSMOS di  Pavia, oppure al  Almo Collegio BORROMEO – HORTI di Pavia e ovviamente gli esterni di Montesegale in provincia di Pavia. Tutte queste location mi hanno dato qualcosa di importante, permettendomi di conoscere delle realtà umane che non avrei mai immaginato potessero coesistere. Credo che sia anche questo il fascino di questo lavoro. Approcciarsi con umiltà e curiosità agli ambienti ti permette di cogliere quelle sfumature che speri sempre vengano colte dai tuo spettatori.

Ti occupi sempre della post produzione dei tuoi film. Che problemi particolari ha dovuto affrontare in fase di montaggio, doppiaggio ecc?

Un altro elemento fondamentale nel processo di attualizzazione di un personaggio storico attraverso il cinema è la costruzione di un’estetica visiva e narrativa capace di coinvolgere il pubblico. Tesla è stato spesso rappresentato con un’estetica quasi gotica o steampunk, che sottolinea il contrasto tra il suo genio e il mondo industriale in cui si trovava a operare.

L’uso di luci e ombre, scenografie che evocano il mistero e il potenziale inesplorato della scienza, e una fotografia che alterna toni freddi e caldi contribuiscono a creare un’immagine suggestiva e indelebile del personaggio. Anche la musica gioca un ruolo essenziale: colonne sonore evocative, che mescolano elementi classici e sperimentali, aiutano a trasmettere la complessità del protagonista e il suo rapporto tormentato con il mondo che lo circonda.

Personalmente tendo a non utilizzare effetti particolari quando ho una storia che regge da sé, proprio come in questo caso. Anche per quanto riguarda il suono mi sono avvalso il più possibile alla presa diretta dei dialoghi. Malgrado ciò ho dovuto intervenire sulla post produzione quando nel girato apparivano elementi estranei non coevi  come cartelloni pubblicitari o graffiti sui muri. Ma nel complesso si è trattato di un lavoro ben diverso rispetto a quelli a cui sono abituato , come le ambientazioni fantascientifiche o surreali.

 

Credo che  creatività applicata al linguaggio cinematografico ha il potere di trasformare la storia in un’esperienza viva e significativa per le nuove generazioni. Nel caso di Nikola Tesla, il cinema ha permesso di sottrarlo all’oblio e di restituirlo all’immaginario collettivo come un’icona moderna, capace di incarnare il conflitto tra genio e società, tra innovazione e resistenze culturali. Attraverso la sperimentazione visiva e narrativa, registi e sceneggiatori hanno dimostrato che la storia non è qualcosa di statico, ma può essere reinterpretata e attualizzata per offrire nuove prospettive sul presente. In questo senso, il cinema si conferma non solo come intrattenimento, ma come un potente strumento di riflessione culturale e di riscoperta identitaria e il tuo film si inserisce perfettamente in questo solco.

È proprio quello che spero. La mia intenzione è proprio quella di far riflettere su realtà storiche che possano darci ancora molto.

Veniamo alla promozione del film. Che cosa c’è in campo finora e cosa ti aspetti?

La realizzazione del film sta creando una certa attesa. Già parecchi articoli sono usciti in queste settimane su alcuni quotidiani ma ovviamente è la prima proiezione che ci darà il polso della situazione. Un regista si aspetta sempre che una produzione seria si accorga del film e contribuisca alla sua distribuzione. Detto questo vi aspetto tutti alla prima al cinema POLITEAMA di PAVIA il giorno 24 aprile alle 21. Ricordo che il film ha ricevuto il Patrocinio dei comuni di Pavia e Montesegale.

Bene lascio Giorgio al suo lavoro di allestimento della mostra.

Io credo molto nel suo lavoro di regista e mi attendo sicuramente un ritorno positivo dalla visione di questo ultimo film, che segna un nuovo episodio della sua variegata carriera cinematografica.

 Sono altrettanto sicuro che gli appassionati di storia, scienza e cinema non vedranno l’ora di scoprire come Magarò porterà sullo schermo la vita straordinaria di uno degli scienziati più influenti di tutti i tempi.

Appuntamento per tutti davanti al cinema Politeama di Pavia il 24 aprile alle ore 21.

 

 





giovedì 20 marzo 2025

Sangue: una questione artistica






Il sangue, simbolo ancestrale e universale, ha sempre avuto un ruolo centrale nell’immaginario collettivo e nell’arte. Il suo valore semantico oscilla tra vita e morte, violenza e sacrificio, purezza e contaminazione. Nel corso della storia, il sangue è stato rappresentato come elemento sacrificale nelle religioni, segno di martirio nell’iconografia cristiana, manifestazione di sofferenza nella pittura espressionista, fino a diventare un materiale artistico vero e proprio nell’arte contemporanea. 

Un esempio emblematico di questa evoluzione è la mostra Rosso Vivo. Mutazione, trasformazione e sangue nell’arte contemporanea, curata da Francesca Alfano Miglietti e presentata al PAC di Milano nel 2007. L’esposizione ha esplorato il sangue come metafora della condizione umana, mettendo in dialogo opere di artisti internazionali che hanno utilizzato questo elemento in modi differenti, dalla denuncia sociale alla riflessione sul corpo e la sua fragilità. 

Fin dai tempi antichi, il sangue è stato raffigurato in scene di guerra, sacrificio e redenzione. Nell’arte cristiana medievale, ad esempio, il sangue di Cristo rappresentava la salvezza e la purificazione, un concetto che si estende alle immagini dei martiri e dei santi. Con il Rinascimento, artisti come Caravaggio o Rubens hanno enfatizzato il suo valore drammatico attraverso il realismo delle ferite e dei flussi ematici. 

Con l’arrivo dell’Espressionismo e delle Avanguardie, il sangue ha assunto un significato più psicologico ed esistenziale. Artisti come Egon Schiele e Francis Bacon hanno utilizzato la violenza del colore rosso e la distorsione del corpo per evocare sofferenza e disfacimento. Questo uso drammatico del sangue ha aperto la strada alle sperimentazioni dell’arte contemporanea, in cui il sangue non è solo rappresentato, ma spesso utilizzato fisicamente come materiale espressivo. 

L’arte contemporanea ha reso il sangue un protagonista fisico e concettuale delle opere. A partire dagli anni ‘60 e ‘70, artisti come Hermann Nitsch e il movimento dell’Azionismo Viennese hanno utilizzato il sangue in performance estreme per rappresentare la violenza, il sacrificio e la ritualità. Marina Abramović ha più volte affrontato il tema del sangue come elemento di resistenza fisica e mentale, mentre artisti come Andres Serrano hanno utilizzato il sangue mescolato ad altri fluidi corporei per interrogare la relazione tra sacro e profano. 

In questo contesto si inserisce la mostra Rosso Vivo, che ha esplorato il sangue come simbolo di mutazione e trasformazione, mettendo in evidenza il suo potenziale narrativo ed emotivo. 

Francesca Alfano Miglietti, ha riunito opere di diversi artisti contemporanei, esplorando il sangue nelle sue molteplici sfaccettature: biologico, politico, metaforico ed estetico. L’intento curatoriale era quello di indagare il corpo in trasformazione, la mutazione dell’identità e il sangue come veicolo di memoria e di cambiamento. 

Attraverso una selezione di opere che spaziano dalla pittura alla fotografia, dalla scultura alla video-arte, Rosso Vivo ha affrontato temi come il dolore, la violenza, la bellezza e la transitorietà della vita. La mostra si è distinta per l’uso di immagini forti e spesso disturbanti, che hanno spinto lo spettatore a confrontarsi con la vulnerabilità del proprio corpo.  La mostra  ha sottolineato come il sangue sia profondamente legato ai concetti di mutazione e trasformazione. In molte culture, il sangue è associato al passaggio tra stati diversi dell’esistenza: la nascita, la morte, la crescita, la malattia e la guarigione. Nell’arte contemporanea, il sangue diventa un mezzo per esplorare il cambiamento, sia a livello biologico che simbolico.

 Le opere presenti nella mostra hanno affrontato il sangue da diverse prospettive: alcune hanno evidenziato il suo aspetto viscerale e corporeo, altre lo hanno usato per denunciare questioni politiche e sociali, mentre altre ancora hanno enfatizzato la sua componente estetica e simbolica.

Tra gli artisti presenti nella mostra vi erano nomi di rilievo dell’arte contemporanea, ognuno dei quali ha interpretato il tema del sangue in modo personale: 

- Franko B: Conosciuto per le sue performance estreme, Franko B ha spesso utilizzato il proprio sangue come strumento espressivo, trasformando il dolore fisico in una forma di comunicazione. 

- Adel Abdessemed: Il suo lavoro esplora la violenza e il sangue come simbolo di guerra e conflitto, ponendo l’accento sulle tensioni geopolitiche e sulle ingiustizie sociali.

- Orlan : Artista nota per il suo uso del corpo come medium artistico, ha riflettuto sulla mutazione e sulla trasformazione dell’identità attraverso interventi chirurgici.

- Marc Quinn:  Celebre per le sue sculture realizzate con il proprio sangue congelato, Quinn ha esplorato il rapporto tra corpo, identità e mortalità. 

Credo sia interessante aprire un focus proprio su questo artista e su uno dei sui lavori più iconici. 

L’opera Self di Marc Quinn, realizzata per la prima volta nel 1991, è una scultura realizzata interamente con il sangue congelato dell’artista, modellato per formare un autoritratto a grandezza naturale. Ciò che rende quest’opera straordinaria è il suo significato profondo: non è solo un semplice ritratto, ma un’indagine sull’identità, sul corpo e sulla sua trasformazione nel tempo. Quinn ricrea Self ogni cinque anni, raccogliendo il proprio sangue in modo progressivo fino a raggiungere circa cinque litri, la quantità totale di sangue presente nel corpo umano. 

Questa scelta non è casuale: Self diventa un'opera vivente, capace di rappresentare la condizione mutevole dell’individuo e la sua fragilità. Il Sé, in Quinn, è qualcosa di precario, costantemente in bilico tra permanenza e dissoluzione. L’opera può esistere solo se mantenuta a una temperatura specifica (-18°C), altrimenti si scioglierebbe e perderebbe la sua forma, trasformandosi in una massa informe di sangue liquido. In questa condizione precaria, Quinn trasforma la sua stessa corporeità in un’opera d’arte effimera, suggerendo che l’identità è un fenomeno instabile e condizionato da fattori esterni. 

Qui esploreremo come Self rifletta il concetto di frammentazione del Sé attraverso diverse prospettive: dalla psicoanalisi alla filosofia contemporanea, dalla storia dell’arte alla dimensione biologica e tecnologica dell’identità. 

L’idea che l’identità non sia un’entità fissa, ma un costrutto mutevole e frammentato, è centrale nella psicoanalisi moderna. Sigmund Freud, nel suo modello della psiche, ha introdotto il concetto di un Io costantemente in conflitto con il Super-Io e l’Es, un’identità frammentata tra impulsi inconsci, norme sociali e percezione conscia di sé. 

Successivamente, Jacques Lacan ha ampliato questa visione, suggerendo che l’identità è un processo dinamico, mai completamente stabile, ma costantemente ridefinito attraverso il linguaggio e le interazioni sociali. La famosa teoria dello “stadio dello specchio” di Lacan afferma che il Sé si forma attraverso un’immagine riflessa che il soggetto riconosce come propria, ma che allo stesso tempo rimane estranea e frammentata. 

L’opera Self incarna visivamente questa teoria: il ritratto dell’artista è una rappresentazione di sé, ma non è un’immagine permanente e solida, bensì una materia biologica che rischia di dissolversi. La scultura è un doppio del soggetto, ma allo stesso tempo un'entità fragile e in costante minaccia di autodistruzione. 

 Il sangue è uno degli elementi più significativi dell’opera. Nell’immaginario collettivo, come dicevo, il sangue è associato alla vita, alla mortalità e alla genealogia. La scelta di Quinn di usare il proprio sangue come materiale scultoreo suggerisce che l’identità non è solo una costruzione psicologica o sociale, ma è anche inscritta nella materia biologica. 

L’arte contemporanea ha spesso esplorato il corpo come un archivio dell’identità. Artisti come Orlan, con le sue performance di chirurgia plastica, o Stelarc, con le sue sperimentazioni di fusione tra corpo e tecnologia, hanno interrogato il concetto di un’identità fisica in costante trasformazione. Quinn, a suo modo, porta avanti questa ricerca, suggerendo che il Sé non è un’idea astratta, ma una sostanza concreta che può essere manipolata e plasmata. 

 

In Self, l’identità è ridotta alla sua essenza biologica: la scultura non rappresenta Quinn attraverso un’immagine dipinta o scolpita, ma attraverso la sua stessa materia corporea. Questo solleva domande fondamentali: cosa definisce davvero il Sé? È la nostra immagine esteriore, la nostra storia personale o la nostra composizione biologica? Quinn sembra suggerire che il Sé è tutto questo, ma anche qualcosa di instabile e soggetto alla dissoluzione. 

Uno degli aspetti più radicali di Self è il suo rapporto con il tempo. Tradizionalmente, la ritrattistica ha sempre avuto la funzione di immortalare il soggetto, di renderlo eterno attraverso la pittura o la scultura. Quinn, invece, ribalta questa idea: il suo autoritratto è intrinsecamente effimero, minacciato dalla possibilità di sciogliersi e scomparire. 

Questo introduce una riflessione sul rapporto tra identità e temporalità. Il filosofo Gilles Deleuze ha suggerito che l’identità non è un’entità fissa, ma un processo in continua trasformazione. Per Deleuze, il Sé non è qualcosa che possediamo, ma qualcosa che diviene costantemente attraverso il tempo e l’esperienza. 

In questo senso, Self rappresenta l’identità come qualcosa di dinamico e mutevole. Il fatto che Quinn crei una nuova versione dell’opera ogni cinque anni suggerisce che l’identità non è mai definitiva, ma evolve con il passare del tempo. Ogni nuova versione di Self è un nuovo stato dell’essere dell’artista, un nuovo momento della sua esistenza trasformato in scultura. 

Nella società contemporanea, l’identità è sempre più fluida e frammentata. I social media, la realtà virtuale e le biotecnologie stanno ridefinendo il concetto di Sé, rendendolo sempre più malleabile e soggetto a manipolazione. 

Self può essere visto come una metafora di questa condizione: così come l’identità oggi è influenzata da fattori esterni come la tecnologia e i media, l’opera di Quinn è dipendente dalle condizioni ambientali per esistere. Il suo stato di congelamento può essere interpretato come una condizione di sospensione, simile a quella che viviamo nel mondo digitale, dove le nostre identità sono frammentate tra profili social, avatar virtuali e dati biometrici. 

Inoltre, il fatto che l’opera sia biologicamente legata all’artista introduce un’interessante riflessione sulla biopolitica: chi possiede realmente la nostra identità? Se il sangue stesso diventa opera d’arte, allora il corpo umano può essere considerato un oggetto di mercato? 

L’opera di Marc Quinn è molto più di un semplice autoritratto: è una potente riflessione sulla frammentazione del Sé e sulla sua precarietà. Attraverso l’uso del sangue congelato, Quinn ci mostra un’identità che non è stabile, ma sempre a rischio di dissolversi. 

In un mondo in cui la tecnologia e la biologia stanno ridefinendo il concetto di identità, Self appare più attuale che mai. Ci costringe a confrontarci con la nostra stessa condizione di esseri umani: temporanei, mutevoli e sempre in bilico tra permanenza e trasformazione. 

 




martedì 11 marzo 2025

La Zona come reliquia dello spirito: un’analisi liminale di Stalker

 




Nel cinema di Andrej Tarkovskij, i luoghi non sono mai semplici scenografie, ma diventano spazi simbolici, carichi di spiritualità e memoria.

In Stalker ( 1979), la Zona è uno spazio proibito e inaccessibile ai più, circondato da filo spinato e sorvegliato da un governo che ne vieta l'ingresso. Si dice che in questo luogo esistano leggi fisiche sconosciute e che al suo interno vi sia una stanza capace di esaudire i desideri più profondi di chi vi entra. Lo Stalker , il protagonista, è una guida che porta due uomini, lo Scrittore e il Professore, all'interno della Zona, affrontando il pericolo per condurli verso questa misteriosa stanza.

Luogo liminale, poiché si colloca in uno spazio intermedio tra il reale e l'irreale, tra il mondo ordinario e un altro di natura sconosciuta. Il suo stesso funzionamento è instabile: le regole dello spazio e del tempo si alterano, i percorsi cambiano e il viaggio diventa un'esperienza interiore più che un semplice spostamento fisico. Territorio di metamorfosi, un passaggio tra la realtà materiale e quella spirituale.

La Zona si presenta come un luogo sospeso tra realtà e mistero: non è solo un luogo fisico, ma un simbolo della ricerca interiore e della trasformazione spirituale. In questo senso, il concetto di liminalità si intreccia con quello di misticismo. Il personaggio dello Stalker è una figura quasi sacerdotale, un intermediario tra il mondo ordinario e una dimensione superiore. Egli guida i viaggiatori attraverso un percorso che ricorda il pellegrinaggio religioso, in cui il superamento di prova porta a una possibile rivelazione.

 Ma può essere anche letta come una reliquia dello spirito, un territorio sacro che conserva tracce di una presenza trascendente. 

Il concetto di reliquia è tradizionalmente associato a oggetti sacri che mantengono un legame con una divinità o con eventi passati. Tuttavia, possiamo estenderlo ai luoghi: certi spazi conservano un’aura di sacralità e diventano punti di contatto tra il visibile e l’invisibile. In questo saggio, esploreremo come la Zona di Stalker possa essere interpretata come una reliquia dello spirito, un luogo che trattiene un’energia oltre il tempo e la materia, e come questa lettura si intrecci con la sua natura liminale. 

 La Zona come reliquia: traccia di un passato sconosciuto 

La Zona è descritta nel film come un luogo inaccessibile e pericoloso, creato da un evento ignoto (forse un impatto extraterrestre o un esperimento fallito). Essa rappresenta un territorio altro, dove la realtà ordinaria si dissolve e dove rimangono solo rovine e segni enigmatici. 

Questa caratteristica la avvicina al concetto di reliquia: 

- Una reliquia è ciò che resta di un passato sacro o straordinario. La Zona, con le sue strutture abbandonate e i suoi oggetti lasciati a marcire, conserva la memoria di un evento fuori dall’ordinario. Anche se non sappiamo cosa sia accaduto, il luogo stesso ne è la testimonianza. 

- Le reliquie emanano un potere invisibile. La Zona non è solo uno spazio fisico, ma sembra possedere un’essenza propria: le sue leggi sfidano la logica, le strade cambiano, e l’ambiente reagisce in modi misteriosi. Come le reliquie sacre che si crede possano guarire o conferire benedizioni, la Zona ha un effetto trasformativo su chi vi entra. 

- Le reliquie sono spesso proibite o difficili da raggiungere. Nel Medioevo, i pellegrini affrontavano lunghi viaggi per vedere una reliquia sacra. Allo stesso modo, in Stalker, l’accesso alla Zona è vietato dal governo e solo gli Stalker possono condurre i viaggiatori al suo interno. 

In questo senso, la Zona non è solo uno spazio liminale, ma anche un luogo impregnato di un’energia spirituale latente, un frammento di un mondo altro che continua a influenzare il presente. 

La Stanza dei Desideri: reliquia dell’anima 

Il cuore della Zona è la leggendaria Stanza dei Desideri, un luogo che si dice possa esaudire il desiderio più profondo di chi vi entra. Questa stanza si configura come l’essenza della reliquia: 

- È un punto di contatto tra il terreno e il trascendente. Come un’icona sacra o una reliquia cristiana, la Stanza è avvolta da un’aura di mistero e potere. Essa non è un oggetto tangibile, ma una promessa, un’interfaccia con qualcosa di superiore. 

- Non è controllabile dalla razionalità. La Stanza non obbedisce ai desideri consci, ma a quelli più profondi e inconfessati. Questo la rende simile agli oggetti sacri che si crede agiscano secondo una volontà divina, al di fuori della comprensione umana. 

- I pellegrini che vi giungono sono posti di fronte a una rivelazione. Come nei viaggi spirituali, chi arriva alla Stanza deve confrontarsi con la verità su se stesso. Il Professore e lo Scrittore, giunti alla soglia, esitano: il timore di ciò che la Stanza potrebbe rivelare è più forte della speranza di ottenere ciò che vogliono. 

La Stanza è dunque il nucleo sacro della Zona, un luogo che custodisce il mistero dell’anima e che, come una reliquia, può trasformare chi la incontra, ma solo se questi è disposto ad accettarne il potere. 

 Il viaggio nella Zona come pellegrinaggio spirituale 

Se la Zona è una reliquia e la Stanza il suo altare, il viaggio intrapreso dai protagonisti diventa una sorta di pellegrinaggio mistico. Lo stesso Stalker assume il ruolo di una guida spirituale, una figura simile ai monaci che accompagnavano i fedeli nei luoghi sacri. 

Il percorso dei viaggiatori nella Zona rispecchia le fasi del pellegrinaggio medievale: 

Partenza dal mondo profano: I protagonisti abbandonano la città grigia e oppressiva, simbolo della vita quotidiana priva di significato. 

Attraversamento del territorio sacro: Nella Zona devono abbandonare la loro razionalità e affidarsi a nuove regole. Ogni passo diventa un atto di fede. 

Arrivo alla reliquia:  Giunti alla Stanza, si trovano di fronte alla possibilità della trascendenza, ma anche alla paura del cambiamento interiore. 

Questa struttura narrativa ricalca i grandi racconti di trasformazione spirituale, come La Divina Commedia o Il viaggio dell’eroe di Joseph Campbell. 

La reliquia come memoria e fede

La Zona non è solo un luogo di mistero e
potere, ma anche un archivio della memoria, un luogo che trattiene le tracce di ciò che è stato. Tarkovskij, nel suo cinema, esplora spesso il tema della memoria come elemento spirituale: ciò che rimane di un evento passato continua a influenzare il presente.  La Zona è un tipico esempio di luogo liminale, poiché si colloca in uno spazio intermedio tra il reale e l'irreale, tra il mondo ordinario e un altro di natura sconosciuta. Il suo stesso funzionamento è instabile: le regole dello spazio e del tempo si alterano, i percorsi cambiano e il viaggio diventa un'esperienza interiore più che un semplice spostamento fisico. La Zona è un territorio di metamorfosi, un passaggio tra la realtà materiale e quella spirituale.

Le reliquie hanno questa stessa funzione: esse sono pezzi di un tempo trascorso, ma il loro significato non è nel passato, bensì nella loro capacità di evocare un’esperienza spirituale nel presente. 

Alla fine del film, lo Stalker esprime la sua disperazione: i viaggiatori non credono più nella Zona, e senza fede, il suo potere sembra svanire. Questo riflette un problema profondo: le reliquie non hanno significato se non sono accompagnate dalla fede di chi le osserva. La Zona non è un luogo magico di per sé, ma diventa sacra solo per coloro che sono disposti a credere. 

Stalker è un film che trasforma il concetto di luogo in un’esperienza metafisica. La Zona non è solo uno spazio liminale, ma anche una reliquia dello spirito, un frammento di un’altra dimensione che sopravvive nel presente. 

Tarkovskij ci invita a riflettere sulla necessità di fede, sulla natura della trasformazione interiore e sul valore dei luoghi che conservano un’energia spirituale. Come le reliquie nel mondo religioso, la Zona non dà risposte, ma pone domande: che cosa desideriamo davvero? Abbiamo il coraggio di affrontare la nostra verità interiore? 

In questo senso, Stalker non è solo un viaggio attraverso un luogo misterioso, ma un pellegrinaggio nell’anima dell’uomo. E come ogni reliquia autentica, la Zona non può essere compresa pienamente con la logica: il suo significato esiste solo per chi è pronto ad accoglierlo. 

mercoledì 5 marzo 2025

L'urlo di Munch e il grido della Terra: un'analisi dei cambiamenti climatici attraverso l'arte






 Tra le opere più iconiche e inquietanti della storia, L’urlo di Edvard Munch (1893) rappresenta un’espressione viscerale di ansia e terrore esistenziale. Il volto stravolto della figura centrale, il cielo infuocato e le linee ondulate dell’ambiente circostante evocano un senso di disagio profondo, che oggi può essere riletto anche alla luce delle sfide ambientali contemporanee. 

Se nel XIX secolo L’urlo era il riflesso della crisi esistenziale e dell’alienazione dell’uomo moderno, oggi esso potrebbe simboleggiare il grido soffocato della Terra di fronte ai cambiamenti climatici. L’atmosfera apocalittica del dipinto, con i suoi colori accesi e il senso di distorsione, risuona con l’attuale emergenza climatica, caratterizzata da eventi estremi, scioglimento dei ghiacciai e perdita di biodiversità. In questo saggio, analizzeremo come L’urlo possa essere interpretato come una premonizione artistica del disastro ecologico e come la crisi climatica stia generando un nuovo tipo di ansia global

 L’urlo di Munch: un’angoscia senza tempo

Munch descrisse la genesi del suo capolavoro in un diario:

"Camminavo lungo un sentiero con due amici – il sole stava tramontando – il cielo si tinse all'improvviso di rosso sangue – mi fermai, mi appoggiai stanco a un recinto – sul fiordo neroazzurro e sulla città c’erano sangue e lingue di fuoco – i miei amici continuarono a camminare e io tremavo ancora di paura – e sentii che un grande urlo infinito pervadeva la natura."

Questo passaggio rivela come il dipinto sia nato da un’esperienza reale di ansia e fragilità, quasi una premonizione di un mondo in pericolo. Il cielo rosso fuoco potrebbe essere associato ai moderni incendi boschivi che devastano foreste e città in tutto il mondo, dal Canada all’Australia. L’aria pesante e soffocante, descritta da Munch, oggi potrebbe evocare lo smog soffocante delle metropoli moderne o la sensazione di impotenza di fronte all’emergenza climatica. 

L’urlo, quindi, non è solo un grido individuale, ma un richiamo universale che trova un nuovo significato nel contesto della crisi ambientale. 

 Il cambiamento climatico: un urlo soffocato dalla società

Il XXI secolo è segnato da una crisi climatica senza precedenti. L’aumento delle temperature globali, lo scioglimento dei ghiacciai e l’innalzamento del livello del mare stanno alterando il delicato equilibrio del nostro pianeta. Tuttavia, proprio come i due amici di Munch che proseguono il loro cammino ignorando la sofferenza del protagonista, anche la società moderna spesso ignora il grido della Terra. 

Nonostante gli appelli degli scienziati, dei movimenti ambientalisti e delle giovani generazioni, l’azione globale per fermare il riscaldamento globale è ancora insufficiente. L’indifferenza e l’inerzia politica ricordano la sensazione di alienazione espressa nel dipinto di Munch: una paura che immobilizza, un’angoscia che non trova risposta. 

Inoltre, l’ansia climatica sta diventando una condizione diffusa tra i giovani. Il timore di un futuro segnato da disastri ambientali e risorse esaurite sta creando un nuovo tipo di disagio psicologico. Come nell’opera di Munch, il grido interiore di chi percepisce la gravità della situazione rischia di restare inascoltato. 

 L’arte come specchio della crisi climatica

Molti artisti contemporanei stanno affrontando la questione ambientale con opere che denunciano l’emergenza climatica. Dalla Land Art, che utilizza la natura come mezzo espressivo, alle installazioni digitali che mostrano la devastazione ambientale, l’arte continua a essere uno strumento potente per sensibilizzare il pubblico. 

Un esempio significativo è Ice Watch di Olafur Eliasson, un’installazione in cui blocchi di ghiaccio prelevati dall’Artico vengono posizionati nelle città per far percepire concretamente il fenomeno dello scioglimento dei ghiacci. Quest’opera, come L’urlo, trasmette un senso di urgenza e vulnerabilità, mostrando come la natura stessa stia lanciando un grido d’allarme. 

Anche L’urlo può essere reinterpretato in chiave ecologica: l’angoscia espressa nel dipinto può rappresentare il dolore della natura, l’agonia delle specie in via di estinzione e la paura collettiva per un futuro incerto. 

 Possiamo ancora fermare l’urlo della Terra? 

Se L’urlo esprime un senso di impotenza e inevitabilità, la crisi climatica attuale non deve necessariamente condurci alla rassegnazione. La scienza offre ancora soluzioni per mitigare i danni: dalla transizione verso energie rinnovabili alla riforestazione, dall’economia circolare alla riduzione delle emissioni di CO₂. 

L’arte e la cultura possono svolgere un ruolo fondamentale nella sensibilizzazione del pubblico, trasformando l’ansia climatica in azione concreta. Come Munch ha espresso il suo tormento interiore attraverso la pittura, oggi possiamo canalizzare la nostra preoccupazione per il pianeta in azioni individuali e collettive che facciano la differenza. 

Il cielo rosso di L’urlo può ancora schiarirsi: il destino della Terra dipende dalle scelte che faremo nei prossimi anni. 


 


 



domenica 2 marzo 2025

Solitudine e silenzio: un confronto tra Edward Hopper, Vilhelm Hammershøi e Francesca Woodman

 

 



 



Il tema della solitudine è una costante nell’arte di ogni epoca, ma pochi artisti hanno saputo tradurlo con la stessa intensità visiva ed emotiva di Edward Hopper, Vilhelm Hammershøi e Francesca Woodman. Pur appartenendo a contesti storici, geografici e mediatici differenti-Hammershøi operava nella Danimarca di fine Ottocento, Hopper nell’America del Novecento, e Woodman nel panorama della fotografia contemporanea- tutti e tre hanno saputo rendere la solitudine umana un’esperienza visiva potente e universale.

Se nei dipinti di Hammershøi la solitudine è un’esperienza contemplativa e silenziosa, in Hopper diventa una condizione imposta dalla società moderna. Nelle fotografie di Woodman, invece, la solitudine assume un carattere psicologico ed esistenziale, trasformandosi in un’esperienza di smarrimento e dissoluzione dell’identità. Qui si analizzerà le affinità e le differenze tra questi artisti, mettendo in luce le loro strategie formali e concettuali per rappresentare l’isolamento umano.

 Il contesto storico e culturale della solitudine

Per comprendere come questi tre artisti abbiano esplorato la solitudine, è fondamentale analizzare il contesto in cui hanno operato.

  • Vilhelm Hammershøi (1864-1916): il silenzio della borghesia scandinava
    La Danimarca di fine Ottocento e inizio Novecento era caratterizzata da una cultura introspettiva, influenzata dal simbolismo e dalla tradizione nordica della malinconia. Hammershøi fu profondamente influenzato dalla pittura olandese del XVII secolo, in particolare da Vermeer e Rembrandt, ma reinterpretò la loro luce e i loro interni in chiave più rarefatta e spettrale. Le sue opere trasmettono un senso di solitudine esistenziale, dove il tempo sembra sospeso e il silenzio diventa quasi tangibile.
  • Edward Hopper (1882-1967): la solitudine della modernità americana
    La società americana del XX secolo, con la sua urbanizzazione rapida e la crescente alienazione dell’individuo, influenzò profondamente Hopper. Le sue opere sono lo specchio di un mondo in cui le connessioni umane si fanno sempre più labili, e le figure nei suoi dipinti, pur essendo circondate da altri, sembrano profondamente sole. La sua visione della solitudine è legata all’anonimato delle città, agli spazi pubblici trasformati in non-luoghi e all’impossibilità di una vera comunicazione.
  • Francesca Woodman (1958-1981): la solitudine dell’identità e della memoria
    Lavorando nel contesto della fotografia sperimentale e concettuale, Woodman esplora la solitudine in modo più intimo e psicologico. Cresciuta in un ambiente artistico, la sua fotografia è intrisa di riferimenti alla storia dell’arte, dal surrealismo ai pittori fiamminghi. La sua solitudine non è solo esistenziale, ma anche identitaria: nei suoi autoritratti, il corpo si dissolve, si frammenta, diventa evanescente. La sua fotografia è un’indagine sulla vulnerabilità e sulla transitorietà dell’essere.

  Lo spazio come metafora della solitudine

Uno degli elementi centrali nell’opera di questi artisti è l’uso dello spazio per evocare solitudine, silenzio e isolamento.

  • Gli interni chiusi e rarefatti di Hammershøi
    Le stanze dipinte da Hammershøi sono ambienti spogli, silenziosi e dominati da una luce tenue che entra dalle finestre. Gli spazi sembrano privi di tempo, come sospesi in un’atmosfera di attesa indefinita. Le pareti vuote e i pochi arredi (sedie vuote, porte socchiuse, pianoforti chiusi) diventano simboli dell’assenza e dell’incomunicabilità.
  • Gli spazi urbani e anonimi di Hopper
    Al contrario di Hammershøi, Hopper rappresenta la solitudine negli spazi pubblici: bar, stazioni di servizio, hotel. Il suo capolavoro Nighthawks (1942) è l’emblema di questa visione: i personaggi sono vicini fisicamente, ma emotivamente distanti. La vetrata che separa l’interno del diner dalla strada accentua il senso di isolamento. Anche negli interni domestici, i suoi personaggi appaiono intrappolati in stanze anonime e impersonali.
  • Gli spazi in dissoluzione di Woodman
    Se in Hammershøi e Hopper lo spazio è statico e definito, in Woodman è instabile e frammentato. I suoi interni sono spesso luoghi decadenti, con pareti scrostate e superfici irregolari. La figura umana sembra quasi fondersi con l’ambiente, come se fosse sul punto di scomparire. Le sue fotografie trasmettono un senso di impermanenza e fragilità, dove il corpo diventa un elemento effimero e transitorio.

 


La figura umana: presenza, assenza e dissoluzione

  • Hammershøi: la figura immobile e distaccata
    Nei suoi dipinti, le figure sono quasi sempre viste di spalle o rivolte verso una finestra. Questa scelta elimina ogni possibilità di contatto visivo con lo spettatore, rendendo i soggetti ancora più inaccessibili. Non sono individui definiti, ma archetipi della solitudine.
  • Hopper: la figura isolata nel contesto urbano
    I suoi personaggi, pur essendo dettagliati e riconoscibili, sembrano prigionieri della loro solitudine. Anche quando sono in coppia o in gruppo, appaiono incapaci di comunicare tra loro. La loro postura e il loro sguardo trasmettono un senso di malinconia e alienazione.
  • Woodman: la figura in dissoluzione
    La fotografa porta la solitudine a un livello più estremo, frammentando il corpo e rendendolo quasi fantasmatico. L’uso dell’autoscatto e della lunga esposizione crea immagini in cui il soggetto appare sfocato, come se fosse in bilico tra presenza e assenza.

 

4. La luce e il colore come strumenti espressivi della solitudine

  • Hammershøi utilizza una luce morbida e diffusa, che contribuisce a creare un’atmosfera di silenzio e sospensione. La sua palette cromatica è ridotta a toni di grigio, bianco e beige.
  • Hopper lavora con contrasti più marcati tra luce e ombra. La sua luce è spesso artificiale, fredda, tagliente, e sottolinea il senso di alienazione dei personaggi.
  • Woodman usa la luce in modo evanescente, spesso lasciando che il soggetto si confonda con l’ambiente. Il bianco e nero delle sue fotografie amplifica la sensazione di irrealtà e fragilità.

 

In conclusione: tre visioni complementari della solitudine

Nonostante le differenze stilistiche e concettuali, Hammershøi, Hopper e Woodman esplorano la solitudine in modi profondamente affini.

  • Hammershøi rappresenta una solitudine contemplativa e silenziosa.
  • Hopper mostra la solitudine come una condizione imposta dalla società moderna.
  • Woodman trasforma la solitudine in una crisi d’identità e di esistenza.

Ognuno di loro, con il proprio linguaggio, ha saputo dar voce a un’esperienza universale, rendendo la solitudine un tema senza tempo, capace di risuonare ancora oggi con straordinaria forza emotiva.

 

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