Il sangue, simbolo ancestrale e universale, ha sempre avuto un ruolo centrale nell’immaginario collettivo e nell’arte. Il suo valore semantico oscilla tra vita e morte, violenza e sacrificio, purezza e contaminazione. Nel corso della storia, il sangue è stato rappresentato come elemento sacrificale nelle religioni, segno di martirio nell’iconografia cristiana, manifestazione di sofferenza nella pittura espressionista, fino a diventare un materiale artistico vero e proprio nell’arte contemporanea.
Un esempio emblematico di questa evoluzione è la mostra Rosso Vivo. Mutazione, trasformazione e sangue nell’arte contemporanea, curata da Francesca Alfano Miglietti e presentata al PAC di Milano nel 2007. L’esposizione ha esplorato il sangue come metafora della condizione umana, mettendo in dialogo opere di artisti internazionali che hanno utilizzato questo elemento in modi differenti, dalla denuncia sociale alla riflessione sul corpo e la sua fragilità.
Fin dai tempi antichi, il sangue è stato raffigurato in scene di guerra, sacrificio e redenzione. Nell’arte cristiana medievale, ad esempio, il sangue di Cristo rappresentava la salvezza e la purificazione, un concetto che si estende alle immagini dei martiri e dei santi. Con il Rinascimento, artisti come Caravaggio o Rubens hanno enfatizzato il suo valore drammatico attraverso il realismo delle ferite e dei flussi ematici.
Con l’arrivo dell’Espressionismo e delle Avanguardie, il sangue ha assunto un significato più psicologico ed esistenziale. Artisti come Egon Schiele e Francis Bacon hanno utilizzato la violenza del colore rosso e la distorsione del corpo per evocare sofferenza e disfacimento. Questo uso drammatico del sangue ha aperto la strada alle sperimentazioni dell’arte contemporanea, in cui il sangue non è solo rappresentato, ma spesso utilizzato fisicamente come materiale espressivo.
L’arte contemporanea ha reso il sangue un protagonista fisico e concettuale delle opere. A partire dagli anni ‘60 e ‘70, artisti come Hermann Nitsch e il movimento dell’Azionismo Viennese hanno utilizzato il sangue in performance estreme per rappresentare la violenza, il sacrificio e la ritualità. Marina Abramović ha più volte affrontato il tema del sangue come elemento di resistenza fisica e mentale, mentre artisti come Andres Serrano hanno utilizzato il sangue mescolato ad altri fluidi corporei per interrogare la relazione tra sacro e profano.
In questo contesto si inserisce la mostra Rosso Vivo, che ha esplorato il sangue come simbolo di mutazione e trasformazione, mettendo in evidenza il suo potenziale narrativo ed emotivo.
Francesca Alfano Miglietti, ha riunito opere di diversi artisti contemporanei, esplorando il sangue nelle sue molteplici sfaccettature: biologico, politico, metaforico ed estetico. L’intento curatoriale era quello di indagare il corpo in trasformazione, la mutazione dell’identità e il sangue come veicolo di memoria e di cambiamento.
Attraverso una selezione di opere che spaziano dalla pittura alla fotografia, dalla scultura alla video-arte, Rosso Vivo ha affrontato temi come il dolore, la violenza, la bellezza e la transitorietà della vita. La mostra si è distinta per l’uso di immagini forti e spesso disturbanti, che hanno spinto lo spettatore a confrontarsi con la vulnerabilità del proprio corpo. La mostra ha sottolineato come il sangue sia profondamente legato ai concetti di mutazione e trasformazione. In molte culture, il sangue è associato al passaggio tra stati diversi dell’esistenza: la nascita, la morte, la crescita, la malattia e la guarigione. Nell’arte contemporanea, il sangue diventa un mezzo per esplorare il cambiamento, sia a livello biologico che simbolico.
Le opere presenti nella mostra hanno affrontato il sangue da diverse prospettive: alcune hanno evidenziato il suo aspetto viscerale e corporeo, altre lo hanno usato per denunciare questioni politiche e sociali, mentre altre ancora hanno enfatizzato la sua componente estetica e simbolica.
Tra gli artisti presenti nella mostra vi erano nomi di rilievo dell’arte contemporanea, ognuno dei quali ha interpretato il tema del sangue in modo personale:
- Franko B: Conosciuto per le sue performance estreme, Franko B ha spesso utilizzato il proprio sangue come strumento espressivo, trasformando il dolore fisico in una forma di comunicazione.
- Adel Abdessemed: Il suo lavoro esplora la violenza e il sangue come simbolo di guerra e conflitto, ponendo l’accento sulle tensioni geopolitiche e sulle ingiustizie sociali.
- Orlan : Artista nota per il suo uso del corpo come medium artistico, ha riflettuto sulla mutazione e sulla trasformazione dell’identità attraverso interventi chirurgici.
- Marc Quinn: Celebre per le sue sculture realizzate con il proprio sangue congelato, Quinn ha esplorato il rapporto tra corpo, identità e mortalità.
Credo sia interessante aprire un focus proprio su questo artista e su uno dei sui lavori più iconici.
L’opera Self di Marc Quinn, realizzata per la prima volta nel 1991, è una scultura realizzata interamente con il sangue congelato dell’artista, modellato per formare un autoritratto a grandezza naturale. Ciò che rende quest’opera straordinaria è il suo significato profondo: non è solo un semplice ritratto, ma un’indagine sull’identità, sul corpo e sulla sua trasformazione nel tempo. Quinn ricrea Self ogni cinque anni, raccogliendo il proprio sangue in modo progressivo fino a raggiungere circa cinque litri, la quantità totale di sangue presente nel corpo umano.
Questa scelta non è casuale: Self diventa un'opera vivente, capace di rappresentare la condizione mutevole dell’individuo e la sua fragilità. Il Sé, in Quinn, è qualcosa di precario, costantemente in bilico tra permanenza e dissoluzione. L’opera può esistere solo se mantenuta a una temperatura specifica (-18°C), altrimenti si scioglierebbe e perderebbe la sua forma, trasformandosi in una massa informe di sangue liquido. In questa condizione precaria, Quinn trasforma la sua stessa corporeità in un’opera d’arte effimera, suggerendo che l’identità è un fenomeno instabile e condizionato da fattori esterni.
Qui esploreremo come Self rifletta il concetto di frammentazione del Sé attraverso diverse prospettive: dalla psicoanalisi alla filosofia contemporanea, dalla storia dell’arte alla dimensione biologica e tecnologica dell’identità.
L’idea che l’identità non sia un’entità fissa, ma un costrutto mutevole e frammentato, è centrale nella psicoanalisi moderna. Sigmund Freud, nel suo modello della psiche, ha introdotto il concetto di un Io costantemente in conflitto con il Super-Io e l’Es, un’identità frammentata tra impulsi inconsci, norme sociali e percezione conscia di sé.
Successivamente, Jacques Lacan ha ampliato questa visione, suggerendo che l’identità è un processo dinamico, mai completamente stabile, ma costantemente ridefinito attraverso il linguaggio e le interazioni sociali. La famosa teoria dello “stadio dello specchio” di Lacan afferma che il Sé si forma attraverso un’immagine riflessa che il soggetto riconosce come propria, ma che allo stesso tempo rimane estranea e frammentata.
L’opera Self incarna visivamente questa teoria: il ritratto dell’artista è una rappresentazione di sé, ma non è un’immagine permanente e solida, bensì una materia biologica che rischia di dissolversi. La scultura è un doppio del soggetto, ma allo stesso tempo un'entità fragile e in costante minaccia di autodistruzione.
Il sangue è uno degli elementi più significativi dell’opera. Nell’immaginario collettivo, come dicevo, il sangue è associato alla vita, alla mortalità e alla genealogia. La scelta di Quinn di usare il proprio sangue come materiale scultoreo suggerisce che l’identità non è solo una costruzione psicologica o sociale, ma è anche inscritta nella materia biologica.
L’arte contemporanea ha spesso esplorato il corpo come un archivio dell’identità. Artisti come Orlan, con le sue performance di chirurgia plastica, o Stelarc, con le sue sperimentazioni di fusione tra corpo e tecnologia, hanno interrogato il concetto di un’identità fisica in costante trasformazione. Quinn, a suo modo, porta avanti questa ricerca, suggerendo che il Sé non è un’idea astratta, ma una sostanza concreta che può essere manipolata e plasmata.
In Self, l’identità è ridotta alla sua essenza biologica: la scultura non rappresenta Quinn attraverso un’immagine dipinta o scolpita, ma attraverso la sua stessa materia corporea. Questo solleva domande fondamentali: cosa definisce davvero il Sé? È la nostra immagine esteriore, la nostra storia personale o la nostra composizione biologica? Quinn sembra suggerire che il Sé è tutto questo, ma anche qualcosa di instabile e soggetto alla dissoluzione.
Uno degli aspetti più radicali di Self è il suo rapporto con il tempo. Tradizionalmente, la ritrattistica ha sempre avuto la funzione di immortalare il soggetto, di renderlo eterno attraverso la pittura o la scultura. Quinn, invece, ribalta questa idea: il suo autoritratto è intrinsecamente effimero, minacciato dalla possibilità di sciogliersi e scomparire.
Questo introduce una riflessione sul rapporto tra identità e temporalità. Il filosofo Gilles Deleuze ha suggerito che l’identità non è un’entità fissa, ma un processo in continua trasformazione. Per Deleuze, il Sé non è qualcosa che possediamo, ma qualcosa che diviene costantemente attraverso il tempo e l’esperienza.
In questo senso, Self rappresenta l’identità come qualcosa di dinamico e mutevole. Il fatto che Quinn crei una nuova versione dell’opera ogni cinque anni suggerisce che l’identità non è mai definitiva, ma evolve con il passare del tempo. Ogni nuova versione di Self è un nuovo stato dell’essere dell’artista, un nuovo momento della sua esistenza trasformato in scultura.
Nella società contemporanea, l’identità è sempre più fluida e frammentata. I social media, la realtà virtuale e le biotecnologie stanno ridefinendo il concetto di Sé, rendendolo sempre più malleabile e soggetto a manipolazione.
Self può essere visto come una metafora di questa condizione: così come l’identità oggi è influenzata da fattori esterni come la tecnologia e i media, l’opera di Quinn è dipendente dalle condizioni ambientali per esistere. Il suo stato di congelamento può essere interpretato come una condizione di sospensione, simile a quella che viviamo nel mondo digitale, dove le nostre identità sono frammentate tra profili social, avatar virtuali e dati biometrici.
Inoltre, il fatto che l’opera sia biologicamente legata all’artista introduce un’interessante riflessione sulla biopolitica: chi possiede realmente la nostra identità? Se il sangue stesso diventa opera d’arte, allora il corpo umano può essere considerato un oggetto di mercato?
L’opera di Marc Quinn è molto più di un semplice autoritratto: è una potente riflessione sulla frammentazione del Sé e sulla sua precarietà. Attraverso l’uso del sangue congelato, Quinn ci mostra un’identità che non è stabile, ma sempre a rischio di dissolversi.
In un mondo in cui la tecnologia e la biologia stanno ridefinendo il concetto di identità, Self appare più attuale che mai. Ci costringe a confrontarci con la nostra stessa condizione di esseri umani: temporanei, mutevoli e sempre in bilico tra permanenza e trasformazione.
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