Al Cinema Hypnos, la
locandina luccicava sotto il neon bluastro: Proiezioni in 4D. Un'esperienza
che cambierà la tua percezione del reale.
La gente si accalcava
all'ingresso, incuriosita, eccitata, ignara. Solo pochi, tra cui io, si
fermavano a osservare la folla senza desiderio di unirsi, come animali che,
sentendo il temporale prima degli altri, cercano riparo.
Non era facile spiegare
cosa accadesse all'interno. Le voci erano poche e frammentarie, poiché chi
usciva dalla sala non parlava volentieri. Non che non volesse: pareva che non
sapesse più come farlo. Qualcuno era cambiato nell'aspetto, qualcuno nel comportamento,
ma non era mai chiaro cosa fosse successo realmente. Le leggende intorno
all'Hypnos si moltiplicavano.
Quando mia moglie,
Silvia, decise di andare, non tentai di fermarla. Credevo alle storie quanto
basta per temere quel posto, ma non per oppormi a un suo desiderio. Le avevo
detto solo: «Attenta. » Lei aveva sorriso, sicura di sé, come
a volermi tranquillizzare.
Mi pentii di non aver
fatto di più.
Era una serata fredda
di metà ottobre e le luci fioche dei lampioni disegnavano ombre lunghe sul
marciapiede. Silvia aveva insistito per vedere quel film, un'opera misteriosa
di cui si parlava nei circoli più elitari del cinema indipendente. Un film che,
secondo lei, prometteva di esplorare gli angoli più oscuri dell'animo umano.
Non ero del tutto convinto, ma l'entusiasmo con cui me ne parlava aveva
qualcosa di contagioso. Così, quella sera, mi lasciai convincere e la
accompagnai al cinema.
Io l’aspettai fuori.
Il film durava due ore.
Al termine Silvia, però, non si mosse subito. Restò seduta immobile, come se
non volesse o non potesse abbandonare quel mondo che il film aveva creato.
«Silvia? »le
chiesi sottovoce, ma lei non rispose. Solo allora si alzò, senza guardarmi, e
si avviò verso l'uscita. La seguii, un po' perplesso, notando che il suo passo
era lento, quasi meccanico. All'inizio, pensai che fosse scossa dal film. Forse
era troppo intenso, troppo profondo. Ma quando uscimmo nel freddo della sera,
mi resi conto che c’era qualcosa di più.
Silvia non sembrava
turbata o sconvolta come avrei potuto immaginare. No, non era neppure
invecchiata di un istante. Fisicamente era identica a prima: i capelli castani
raccolti in una coda disordinata, il suo cappotto leggero e il passo che
riconoscevo così bene. Eppure, qualcosa in lei era radicalmente cambiato. Aveva
uno sguardo vuoto, assente, che non le avevo mai visto prima. I suoi occhi, che
fino a poche ore prima erano stati vivaci e pieni di luce, sembravano ora
pozzanghere opache, prive di ogni scintilla di vita.
La chiamai ancora una
volta. «Silvia, tutto bene? » Non ci fu risposta. Non fece
neppure un cenno. Il suo volto era impassibile, congelato in un’espressione che
mi metteva a disagio. In quel momento, qualcosa dentro di me si mosse, un'ombra
di paura o di inquietudine. Ma cercai di scacciare quel pensiero, convincendomi
che aveva solo bisogno di tempo per elaborare il film.
Sulla via del ritorno,
la tensione aumentò. Io continuavo a guardarla di sfuggita mentre guidavo,
cercando di trovare un appiglio, un segno che potesse rassicurarmi, ma non
trovai nulla. Lei era lì accanto a me, seduta con le mani rigide sulle
ginocchia, lo sguardo fisso davanti a sé. Non c'era vita in quegli occhi. Era
come se tutto ciò che la rendeva Silvia, tutto ciò che amavo in lei, fosse
stato svuotato. Non era stanca, non era arrabbiata, non era nulla. Solo un
guscio vuoto.
Arrivati a casa, mi
resi conto che il silenzio fra noi era diventato insopportabile. Mi fermai
prima di spegnere il motore e la guardai.
«Silvia, ti prego.
Dimmi qualcosa. » Le mie parole uscirono quasi in un
sussurro, come se stessi cercando di non svegliare un mostro addormentato. Ma
lei non si mosse. Non ci fu neppure un tremito nel suo corpo.
Scesi dall'auto,
aspettando che mi seguisse. Ma quando lo fece, fu con la stessa lentezza
meccanica. Salimmo le scale del nostro palazzo in un silenzio irreale,
interrotto solo dal rumore dei nostri passi. Dentro casa, Silvia si diresse
verso la camera da letto senza dire nulla. La seguii a distanza, confuso e
spaventato. Vederla così mi faceva sentire impotente, come se avessi perso il
controllo su qualcosa di fondamentale nella mia vita.
Non accese la luce. Si
sedette sul bordo del letto, le mani ancora appoggiate sulle ginocchia, lo
sguardo fisso nel vuoto. Il suo silenzio era soffocante. Mi avvicinai piano,
inginocchiandomi davanti a lei. «Silvia, ascoltami... »
le dissi, prendendole le mani. Erano fredde, insolitamente fredde. La scossi
leggermente, cercando di scuoterla da quel torpore. Ma niente.
Cominciai a chiedermi
cosa fosse accaduto in quelle due ore. Il film poteva aver avuto un impatto
così devastante? O c’era qualcos’altro? Forse dovevo essere più attento. Forse
quel film non era semplicemente una storia. Forse era qualcosa di più profondo,
di più pericoloso.
La notte fu lunga. Io
non chiusi occhio, mentre lei rimase seduta lì, senza muoversi, senza parlare.
Ogni tanto, provavo a chiederle qualcosa, ma era come parlare a una statua.
Il mattino seguente, al
primo raggio di sole, Silvia si alzò improvvisamente. Senza dire una parola, si
diresse verso la porta, come se avesse un obiettivo preciso. Cercai di
fermarla, afferrandola per un braccio. «Silvia, dove stai andando? »
chiesi, ma lei si liberò dalla mia presa con una facilità sorprendente, senza
neppure guardarmi.
La seguii fuori,
cercando di fermarla, ma lei continuò a camminare, diretta verso il parco
vicino. Un parco che avevamo sempre evitato, che lei diceva di odiare perché le
ricordava qualcosa di doloroso, qualcosa che non mi aveva mai voluto
raccontare. Quando arrivammo lì, si fermò di colpo. Io ero a pochi passi da
lei, senza fiato, il cuore che batteva all'impazzata.
Si voltò finalmente
verso di me. I suoi occhi, vuoti fino a quel momento, sembravano ora accendersi
di un barlume, ma non era un barlume di vita. Era qualcos’altro, qualcosa che
non riuscivo a decifrare. Poi parlò, la sua voce roca, come se non l'avesse usata
da anni.
«Loro mi stanno
aspettando. »
Non capii cosa
intendesse, né chi fossero "loro". Ma in quel momento capii una cosa:
Silvia, la donna che conoscevo, non era più lì. Qualunque cosa fosse successa
in quelle due ore di film, l'aveva cambiata per sempre. E io non sapevo se
l'avrei mai più ritrovata.
Quando tornammo e
varcammo la soglia di casa, mi accorsi di una cosa strana. Un odore
indefinibile permeava l'aria. Era un odore sottile, inquietante, simile al
ferro arrugginito misto a muffa, ma con qualcosa di dolciastro. Il tipo di
odore che non ti lascia in pace, che si insinua dentro di te.
Da quel momento, la
nostra vita matrimoniale, che un tempo era stata piena di amore e complicità,
si dissolse come nebbia al sole. La persona che avevo sposato era scomparsa,
sostituita da qualcosa che sembrava Silvia, ma che non lo era più. Si muoveva
per la casa con una lentezza innaturale, come se dovesse riapprendere ogni
gesto, ogni passo. Le sue mani tremavano, e c'erano momenti in cui sembrava
persa nel tempo, ferma in un punto mentre tutto il resto continuava a scorrere.
Due giorni dopo me ne
andai. Non potevo restare lì. Non con lei, o meglio, con ciò che era diventata.
Non sapevo cosa fosse successo all'Hypnos, ma sapevo che mia moglie non era più
quella che avevo conosciuto.
Non mi ci volle molto
per scoprire che non ero il solo. Nel quartiere, le storie si diffondevano
sottovoce, come un virus che si propagava.
Famiglie distrutte,
persone che dopo essere entrate nel cinema non erano mai più le stesse. Alcuni
invecchiavano in modo accelerato, come se il tempo si fosse piegato su di loro,
consumandoli in pochi giorni. Altri perdevano la memoria o finivano in uno stato
di apatia totale. Altri ancora, come Silvia, sembravano trattenuti da qualcosa
di diverso, come se fossero stati scollegati dal mondo a cui appartenevano.
Eppure, nonostante le
voci e gli avvertimenti, la fila davanti all'Hypnos non smetteva mai di
crescere. Era come se la gente fosse attratta da quel mistero, incapace di
resistere alla tentazione di varcare quella soglia proibita.
Per molto tempo mi sono
chiesto cosa accadesse esattamente lì dentro. Era facile parlare di effetti
speciali, di tecnologia avanzata, di illusioni cinematografiche. Ma la verità
era che nessuno sapeva davvero cosa fosse la quarta dimensione di cui parlavano.
Poi, un giorno, un uomo
anziano, seduto su una panchina fuori dal cinema, mi raccontò qualcosa. Lo
aveva visto decine di volte: persone entrare giovani e uscirne vecchie. Persone
entrare felici e uscirne spezzate. Ma non si trattava solo di invecchiamento o
di cambiamenti emotivi. Quel cinema giocava con le dimensioni in modi che non
potevamo comprendere. Il tempo non era lineare lì dentro; si piegava, si
distorceva, e assieme a esso lo spazio. Ogni spettatore viveva una realtà
diversa, una percezione del tempo che non era più la nostra.
Chiunque entrava
all’Hypnos viveva esperienze che trascendevano ogni comprensione, spaziando in
dimensioni dove tempo e identità perdevano significato. Il corpo poteva
tornare, ma lo spirito, la mente, erano ormai altrove, frammentati tra epoche e
mondi.
Capì allora che chi
usciva dall'Hypnos non era più lo stesso non perché fosse invecchiato o
cambiato, ma perché aveva vissuto qualcosa che noi non avremmo mai potuto
capire. Forse avevano attraversato decenni in pochi minuti. Forse avevano
vissuto più vite, in altre epoche, in altri spazi, con altre identità. Il tempo
e lo spazio si erano mescolati, trasformandoli in qualcosa di alieno.
Non ho mai messo piede
all'Hypnos. Nonostante la curiosità, c'era una paura profonda che mi
tratteneva. Capivo ora che quel cinema non era solo un luogo di
intrattenimento, ma una porta verso l'ignoto. E se c'è una cosa che ho imparato
da tutta questa vicenda, è che ci sono confini che non dovremmo mai
oltrepassare.
Alcuni misteri non sono
fatti per essere svelati.