Pioveva acido. Le gocce
rimbalzavano sulle lamiere dei tetti come dita nervose che battevano su un
vetro sporco. I neon pubblicitari sputavano immagini stanche, incastrate in
loop di promesse di perfezione, sorrisi posticci, corpi impossibili.
Nordavax era diventata questo: un
riflesso persistente. Un gigantesco specchio metropolitano. Ovunque ti girassi,
c’erano superfici riflettenti. Vetrine, schermi, facciate, persino l’asfalto
bagnato. Tutto restituiva un’immagine — mai tua, non davvero — ma di ciò che
pensavi di essere, o che volevi che gli altri vedessero.
La gente non si guardava più in
faccia. Si osservava nei riflessi, negli avatar, nelle versioni digitali di sé
stesse. Il contatto umano era una reliquia. L’empatia, un fastidio. I legami si
erano fatti evanescenti. Corde tese nel vuoto che non vibravano mai.
Era una città costruita
sull’apparenza. Un luogo dove nessuno era reale se non appariva come voleva
essere visto.
Ed è lì che ho commesso il mio
crimine.
Mi chiamo Emil Larcen. Ero uno scienziato. Un costruttore di specchi. Ma non quelli che riflettono la luce. I miei riflettevano l’anima. O almeno… così dicevo.
Ora so che riflettevano solo il
nostro abisso.
La Torre Panóptica era un
edificio che stava in piedi solo grazie all’arroganza. Trecento metri di vetro
nero, circondato da pareti specchianti che ospitavano centri di ricerca, studi
di neuroetica e, per un certo periodo, anche la mia coscienza.
La stanza 47 era al piano più
alto. Nessuna finestra. Nessun accesso alla rete. Solo muri insonorizzati e un
impianto di ventilazione difettoso che tossiva come un vecchio malato
terminale.
E al centro della stanza: lo
Specchio Deformante.
Tre metri d’altezza. Una cornice
fatta di ossidazioni metalliche e cavi ottici. Una superficie non piatta, non
curva, ma viva. Lo Specchio non rifletteva l’immagine esterna. Non era un
oggetto. Era un processo. Si collegava al cervello dell’osservatore attraverso
onde neurali, decifrava i modelli cognitivi, i desideri latenti, le
frustrazioni sepolte, e le mostrava.
Mostrava come ti vedevi.
O, peggio, come volevi vederti.
Il primo giorno che ci ho
guardato dentro, ho visto me stesso. Non come ero. Come avrei voluto essere.
Alto, elegante, vestito con un completo nero. Dietro di me, una folla immensa
in silenzio. Tutti mi guardavano come si guarda un messia. Ogni mio gesto era
legge. Ogni parola, vangelo. Avevo la città ai miei piedi.
Ma quando mi sono voltato — nel riflesso, intendo — la mia nuca era cava. Vuota. Una maschera che sorrideva solo davanti. Dietro, solo buio.
Sono svenuto. Mi hanno trovato
tre ore dopo, tremante sul pavimento.
Ma non ho smesso di guardare.
Avevo creato lo Specchio come
parte del progetto Speculum Veritatis. L’idea era tanto brillante quanto folle:
costringere gli esseri umani a confrontarsi con la propria auto-percezione per
guarire dalle dissonanze, dai traumi, dai falsi sé. Pensavo di poter salvare la
mente collettiva.
Ma avevo sottovalutato il potere
dell’illusione.
La gente non vuole la verità.
Vuole la propria versione della verità. Vuole sentirsi speciale. Irripetibile.
Amata. Temuta. Vuole il controllo. Il dominio. L’ammirazione.
Lo Specchio mostrava tutto
questo. E quando lo toglieva, lasciava il vuoto.
I test iniziali furono
devastanti. Alcuni soggetti vedevano sé stessi come divinità immortali. Altri
come vittime eterne. Molti finivano in crisi psicotiche. Alcuni si suicidavano
entro 48 ore.
Lo Specchio non mentiva. Non
diceva nemmeno la verità. Era peggio: diceva ciò che credevi fosse vero. E lo
mostrava con la violenza delle immagini.
La commissione etica chiuse il
progetto. Lo Specchio fu bandito. Ma io lo tenni con me. Mi chiusi nella stanza
47. E cominciai a parlarci ogni notte.
Era l’unico che mi mostrava ancora qualcosa.
Nordavax, nel frattempo, aveva
adottato la mia malattia.
Non c’era più differenza tra
persona e personaggio. Ognuno curava la propria immagine come fosse un’opera
d’arte tossica. Profili digitali aggiornati al secondo. Manipolazione
dell’immagine corporea. Voice filters per mascherare insicurezze. Traduzioni emotive
automatizzate.
L’amore era diventato una
strategia di marketing. L’amicizia, un interscambio performativo. La
sessualità, un linguaggio cifrato.
Ogni individuo si muoveva con la
consapevolezza di essere osservato. Ma non per essere capito. Solo per essere invidiato.
Lo specchio era ovunque. Ma
nessuno si guardava davvero. Solo proiezioni.
Era il mio fallimento perfetto.
Io continuavo. Ogni notte,
accendevo lo Specchio. Mi sedevo davanti. Parlavo. Lo interrogavo. A volte lo
minacciavo. Altre, lo supplicavo. Lo Specchio restituiva sempre ciò che volevo.
O ciò che temevo.
Un giorno mi mostrò la città in
ginocchio, mentre io volavo sopra, con un mantello bianco che brillava come un
angelo. Tutti mi ringraziavano. Mi imploravano. Mi adoravano.
Ma quando
abbassavo lo sguardo, i volti erano tutti “il mio”.
Era come se avessi clonato me stesso in ogni cittadino. Una folla di Emil. Tutti con lo stesso sorriso finto. Tutti con gli occhi spenti.
Ogni tanto, nel riflesso, un mio
doppio mi fissava. E sorrideva. Quel sorriso… Dio. Ancora oggi mi sveglio
sudato per colpa di quel sorriso.
Avevo provato a comunicare. Avevo
creato un canale chiamato “Riflessi di Verità”, dove trasmettevo i miei
pensieri, le visioni, i risultati delle mie sessioni con lo Specchio. Nessuno
ascoltava. O forse sì, ma nessuno rispondeva.
I cittadini di Nordavax non
parlavano più. Non interagivano. Non litigavano. Non facevano l’amore.
Guardavano. Scrollavano. Postavano. Ogni frase era una posa. Ogni opinione, un
esercizio narcisistico. Nessuno ascoltava nessuno.
Era l’inferno della “non
reciprocità”.
Un tempo pensavo che l’opposto
dell’amore fosse l’odio.
Ora sapevo la verità: è l’indifferenza.
Poi, una notte, tutto si spense.
Nessun allarme. Nessun segnale.
La città sprofondò nel buio. Niente più neon. Niente più riflessi. Solo
silenzio. E pioggia.
Mi svegliai nella stanza 47, con
il cuore che batteva troppo in fretta. Mi avvicinai allo Specchio. Era spento.
Nero. Per la prima volta, non restituiva nulla.
Allora lo guardai come si guarda
un cadavere. Mi sedetti. E aspettai.
Dopo ore — forse giorni — la
superficie si accese.
Ma non mostrò me. Non subito.
Mostrò “loro”. Tutti. La città
intera. Volti umani. Veri. Difettosi. Gente che rideva, piangeva, urlava. Gente
che non vedevo da anni. Gente che avevo dimenticato.
Poi, tra loro, mi vidi anch’io.
Ma non il me delle visioni.
Il vero me. Occhi stanchi. Spalle
curve. Barba lunga. Pelle grigia. E uno sguardo… rotto.
E in quel momento capii.
Lo Specchio non era il problema.
E nemmeno la città.
Ero io.
Avevo costruito una macchina per
vedermi migliore. Più amato. Più potente. Avevo riempito la rete di me stesso.
Avevo contagiato ogni pixel della città con il mio desiderio di controllo, di
gloria, di adorazione.
Avevo ucciso ogni forma di
relazione. Avevo promosso l’immagine a verità. L’apparenza a essenza.
L’ammirazione a sostituto dell’amore.
Lo Specchio era solo un mezzo.
Io ero il carnefice.
E la mia creatura, Nordavax, era
la mia vittima.
O forse era il contrario.
La mattina seguente — o forse era
notte, chissà — mi vestii. Scrissi una frase sul muro con un pennarello rosso:
“Non mi vedo più. Finalmente.”
Poi salii sul tetto. Il vento
sapeva di ammoniaca e malinconia. Guardai la città. Spenta. Silenziosa.
Bellissima, per la prima volta.
Mi buttai.
Il mio corpo lo trovarono tre
giorni dopo. Un senzatetto mi coprì con un telo. Nessun funerale. Nessun
articolo. Nessun epitaffio.
Ma qualcosa cambiò.
La stanza 47 fu sigillata. Lo
Specchio non fu più accesso. Ma qualcuno racconta che, anche spento, rifletta
cose nuove.
Volti veri. Abbracci sinceri.
Mani sporche. Errori. Gesti. Non più icone. Non più idoli. Non più maschere.
Solo esseri umani.
Forse lo Specchio ha imparato.
O forse, per un attimo, ha
semplicemente smesso di deformare