Pochi sfuggono al desiderio di dichiarare quanto hanno in programma. Specialmente gli artisti. Basta ascoltarli, e tra le parole – ancor prima delle opere – si coglie l’essenza dei loro intenti, una dichiarazione programmatica dell’esistenza. A questa regola non è sfuggita Francesca Woodman, fotografa americana, che nel 1981, a soli 23 anni, si tolse la vita. Nessuno però sia indotto a supporre che la Woodman fosse attraversata da uno “spleen” distruttivo: Francesca amava la vita. La amava così tanto da esserne padrona assoluta, capace di governarla fino in fondo, finché ha voluto. Disse: «Ho dei parametri e la mia vita a questo punto è paragonabile ai sedimenti di una vecchia tazza da caffè e vorrei piuttosto morire giovane, preservando ciò che è stato fatto, anziché cancellare confusamente tutte queste cose delicate». Obbedì al più intransigente tra i suoi “parametri” e si gettò da un grattacielo di New York. Figlia d’artisti, di lei si ricordano gli anni romani, forse i più felici, in compagnia di poeti, letterati e altri artisti. E sono principalmente di questo periodo italiano le foto che vedete.
Il suo lavoro è nuovo e antico; ha la freschezza di un
linguaggio appena elaborato, balzato fuori con la dirompente vitalità di un
fanciullo che ha conosciuto la corsa e a un tempo colmo d’echi. Non c’è
fotografia infatti che non rimandi alle lezioni dei grandi fotografi
sperimentatori.
Ecco dunque Brassaï (Francesca amava il lavoro del maestro
francese) e, soprattutto Man Ray, echeggiare dai fotogrammi mentre lei,
Francesca di ogni foto è l’assoluta protagonista perché, come ebbe a dire in un
amaro furore: «Se stai fuori dal mondo dell’Arte anche solo cinque minuti,
nessuno si ricorderà di te». Ma qui non è l’involucro corporeo a essere
rappresentato quanto una materia sfuggevole e custode di “disordinate geometrie
dell’esistenza”. Tutto è racchiuso in forma simbolica, tutto è circoscritto al
chiuso di una stanza; e nemmeno gli oggetti derogano alle regole. Siano porte –
rigorosamente chiuse –, specchi (la Woodman li userà a favore di una grandiosa
metafora), ambienti il cui disordine è prima di tutto “concettuale” che
ambientale, non c’è foto che non voglia indicare il disagio di un corpo chiuso
nello stretto delle proprie ambizioni o, come preferite, di un esteso
malessere. Ecco dunque un corpo nudo, penzolante da una porta cui fa da
contraltare una donna scalza elegantemente vestita e ignara, forse, di quanto
si svolge alle sue spalle – ma probabilmente è necessario dire che la signora
elegante conosce meglio e prima di noi quella “raffigurazione dell’inconscio di
cui ci invita a condividerne la presenza”. Specchi dunque.
Ma cosa riflettono se non un’immagine che ne ribalta il
contenuto. Siamo più cose insieme, ci dice Francesca Woodman, forse nessuna: ci
smarriamo per ritrovarci. Ci troviamo dalle parti di un Surrealismo
esistenziale e di un dadaismo celebrato nelle composizioni formali, in un
“mosso” frutto di un’ottima conoscenza delle esposizioni. In una foto vediamo
il corpo di una donna agitarsi come un derviscio ma che tuttavia ci appare
“ferma”, quasi a dire che il movimento è consustanziale alla sua natura,
accentuata, questa sì, dai muri scrostati e spogli; spogli come le nudità
femminili dei corpi indifesi, nei quali non è difficile scorgere una vita
intrapsichica.
La vita di Francesca Woodman è stata breve. Intensa ma
breve, e noi non possiamo fare altro che rispettarne la scelta, al riparo del
riserbo. Resta però come un sentore d’amaro, il dispiacere di una vita chiusasi
troppo in fretta e che ha impedito a tutti noi di seguire gli sviluppi
artistici di una fotografa che ha lasciato sì una grande eredità ma di cui
avremmo voluto beneficiarne molti, molti anni più tardi.