Non dualità (advaita) e i tagli di Lucio Fontana
Nel cuore della tradizione filosofica indiana, l’advaita vedānta afferma un’intuizione radicale: non due. La realtà ultima è una, indivisa, senza secondo. Tutto ciò che appare come molteplice – il mondo, gli oggetti, gli individui, perfino il nostro io – è manifestazione di un’unica essenza, il Brahman. La separazione è un effetto dello sguardo, non della realtà. È avidyā, ignoranza, che frammenta ciò che in verità non è mai stato diviso.
A distanza di secoli e in un contesto apparentemente lontanissimo, Lucio Fontana, con un gesto che ha scandalizzato e rinnovato l’arte del Novecento, sembra incarnare la stessa urgenza: superare la superficie delle cose per aprirsi a un’unità più profonda. I suoi celebri tagli, incisi nella tela a partire dalla fine degli anni Quaranta, non sono semplici atti distruttivi, ma soglie metafisiche. Non feriscono il quadro: lo liberano.
Fontana parla di spazialismo, di un’arte che non si accontenta più della bidimensionalità della pittura, ma vuole includere lo spazio reale, la luce, il tempo. Tuttavia, al di là delle formulazioni teoriche, il suo gesto appare come un atto quasi rituale: una lama che attraversa la tela per negare il confine, per dire che ciò che crediamo limite è solo una convenzione.
Qui il dialogo con l’advaita si fa stringente. La non dualità insegna che la distinzione tra soggetto e oggetto, tra chi guarda e ciò che è guardato, è illusoria. Noi crediamo di essere “dentro” un corpo che osserva un mondo “fuori”, ma questa frattura è mentale. Nel riconoscimento advaitico, cade l’idea di un io separato: resta la pura presenza, che è insieme chi vede e ciò che è visto.
Così, davanti a un taglio di Fontana, non siamo più semplici spettatori di un oggetto artistico. Il nostro sguardo è risucchiato in quella fenditura scura, che non rimanda a un’immagine, ma a un’assenza. E in quell’assenza, paradossalmente, siamo coinvolti. Il quadro non è più “là”: entra in relazione con il nostro spazio, con il nostro corpo, con il nostro stesso atto di guardare. La dualità tra opera e osservatore si incrina.
Il taglio è allora una negazione creativa. Come il metodo neti neti dell’advaita – “non questo, non quello” – che rifiuta ogni definizione per avvicinarsi all’Assoluto, Fontana toglie invece di aggiungere. Non dipinge di più: incide. Non riempie: svuota. Non costruisce forme: apre vuoti. È una via negativa, apofatica, che trova nel gesto minimo la massima potenza.
C’è poi il tema del vuoto, centrale sia nella mistica orientale sia nell’arte di Fontana. Nell’advaita, il vuoto non è il nulla nichilistico, ma la pienezza che precede ogni forma: ciò che è, prima che l’io lo nomini. Nei tagli, quel nero che si intravede dietro la tela non è semplice oscurità: è lo spazio indeterminato, l’oltre che la pittura tradizionale non poteva contenere. È l’invisibile che irrompe nel visibile.
In questo senso, il taglio non rappresenta l’unità: la fa accadere. Non dice cos’è l’Assoluto, ma crea le condizioni perché lo spettatore intuisca che la superficie non basta, che c’è sempre un “più in là” che sfugge alla presa delle immagini. Come il maestro advaitin non trasmette un sapere oggettivo ma conduce l’allievo a un riconoscimento interiore, così Fontana non comunica un contenuto, ma provoca un’esperienza.
Il gesto di Fontana è anche un gesto temporale. Ogni taglio porta con sé l’istante in cui è stato compiuto: un atto deciso, irreversibile. La lama che attraversa la tela non può tornare indietro. In quell’atto c’è il rischio, l’evento, l’accadere puro. L’advaita parla spesso dell’illuminazione come di un insight improvviso: non un cammino graduale, ma un lampo in cui la falsa identificazione con l’io cade. Allo stesso modo, il taglio è un attimo che cambia per sempre lo statuto della tela: da superficie a varco.
Ma se l’advaita mira alla liberazione dalla sofferenza generata dall’illusione della separazione, cosa “libera” il taglio di Fontana? Libera l’arte dalla prigione della rappresentazione. Dopo di lui, la pittura non può più fingere di essere solo finestra sul mondo: diventa essa stessa mondo, spazio reale, presenza. La tela non mostra qualcosa: è qualcosa.
Eppure, né l’advaita né Fontana propongono una fuga dall’apparenza. Il mondo continua a esistere, le forme restano. Anche dopo il riconoscimento della non dualità, il saggio advaitin continua a vedere la molteplicità, ma senza esserne ingannato. Così, dopo il taglio, la tela resta lì, intatta nella sua cornice, spesso di un bianco assoluto, quasi sacrale. Ma quel bianco non è più innocente: è stato attraversato, segnato dall’oltre.
Il bianco delle tele di Fontana può allora essere letto come una metafora della coscienza: apparentemente vuota, neutra, ma capace di accogliere ogni esperienza. Il taglio è ciò che rivela che quel bianco non è una superficie morta, ma una soglia verso l’infinito. Come la coscienza, che sembra limitata all’io, ma in realtà, nell’advaita, è identica al Brahman.
C’è infine una dimensione etica ed esistenziale in questo dialogo. La non dualità non è solo una teoria metafisica: implica un diverso modo di stare al mondo. Se non c’è un “altro” radicalmente separato da me, allora ogni relazione è già relazione con me stesso. Cadono le gerarchie rigide, si attenua la violenza del dominio, si apre uno spazio di compassione. Anche il taglio di Fontana, in fondo, è un atto che rifiuta il possesso: non vuole afferrare la realtà, ma lasciarla essere, aprirsi.
Per questo i suoi tagli continuano a inquietare. Sembrano ferite, ma non sanguinano. Sembrano negazioni, ma generano spazio. Sono l’immagine di una perdita che è in realtà guadagno: perdendo la superficie, si conquista l’infinito.
Forse, allora, i tagli di Fontana possono essere letti come una metafora visiva dell’advaita: un colpo netto che non divide, ma rivela che ciò che credevamo separato non lo è mai stato. Una ferita che non crea due, ma mostra che, sotto la pelle del mondo, c’è un’unica, silenziosa continuità.
E in quel silenzio, davanti a una tela incisa, come davanti a un insegnamento advaitico, siamo chiamati non a capire di più, ma a vedere diversamente: a lasciare che cada, per un istante, l’illusione di essere qualcosa di distinto da ciò che guardiamo. Per scoprire che il taglio, in fondo, non è nella tela, ma nello sguardo.

