La stanza non appartiene a nessun luogo e a nessun tempo. Ha muri scrostati come quelli che Francesca ama fotografare, ma alle finestre entra una luce obliqua che ricorda i mattini d’Oriente di Annemarie. Fuori non si sente nulla: né città, né deserto, né vento. Solo un silenzio che sembra fatto apposta per accogliere chi ha passato la vita a fuggire.
Annemarie è arrivata per prima. Ha lasciato la bicicletta da qualche parte, appoggiata contro un muro invisibile. Indossa una giacca maschile, i capelli corti incorniciano un volto stanco e bellissimo. Si guarda intorno come in una delle tante camere d’albergo attraversate: con la curiosità di chi sa che non resterà a lungo.
Poi la porta si apre senza rumore. Entra Francesca, a piedi nudi, con la macchina fotografica stretta al petto. I suoi occhi sono scuri, attenti, come se stesse già cercando un’inquadratura. Si ferma, vede Annemarie, non si sorprende. In quella stanza, nulla sorprende.
Si osservano. Non serve presentarsi: si riconoscono.
«Anche tu sei in viaggio?» chiede Francesca, dopo un po’.
Annemarie sorride appena. «Sempre. Anche quando resto ferma.»
Francesca annuisce. «Io invece viaggio restando ferma.»
Ridono piano. È il primo segno dell’affinità: due frasi opposte che dicono la stessa cosa.
Si siedono per terra, una di fronte all’altra. Tra loro, la luce cade come una lama.
Annemarie racconta delle strade polverose, dei porti, delle notti in treno. Parla dell’Europa che brucia, dei volti incontrati, delle parole scritte in fretta, come per non perdere il mondo che scorre via. Dice che ogni viaggio è una speranza: che da qualche parte ci sia un luogo dove smettere di sentirsi straniera.
Francesca ascolta. Poi dice: «Io non ho attraversato il mondo. Ho attraversato le stanze. Ma in ogni stanza cercavo la stessa cosa: un posto dove il mio corpo potesse stare senza sentirsi di troppo.»
Annemarie la guarda con attenzione. «E l’hai trovato?»
Francesca abbassa gli occhi. «Solo per un attimo. Nell’istante dello scatto. Poi spariva.»
Annemarie annuisce: conosce bene quell’attimo che non dura.
Parlano del corpo, allora. Del sentirlo come una casa fragile.
«Il mio mi ha sempre tradita,» dice Annemarie. «Troppo sensibile, troppo stanco. Ho cercato di domarlo, di anestetizzarlo. Ma poi tornava a chiedere.»
Francesca sfiora il muro alle sue spalle. «Io invece l’ho usato come una domanda. L’ho messo contro i muri, dietro le porte, l’ho fatto scomparire. Volevo vedere fin dove potevo cancellarmi senza morire.»
La frase resta sospesa. Entrambe sanno che mentono un po’.
Nella stanza, il tempo sembra fermo, ma qualcosa pulsa: il battito di due vite che si riconoscono nella stessa ferita.
«Tu scrivi,» dice Francesca.
«Tu fotografi,» risponde Annemarie.
«Perché?»
Annemarie ci pensa. «Per non perdermi. Per lasciare tracce. Se non scrivo, è come se non fossi mai passata.»
Francesca sorride, amara. «Io fotografo per il contrario: per vedere come si può passare senza lasciare traccia.»
Eppure, si capiscono.
Capiscono che entrambe hanno usato l’arte come una bussola in un mondo senza nord. Che ogni parola di Annemarie e ogni immagine di Francesca sono state tentativi di dire: io sono qui, anche se non so perché.
Parlano dell’essere donne.
Annemarie racconta degli abiti maschili, degli sguardi storti, dell’amore per le donne in un tempo che non perdona. «Non volevo essere ciò che mi chiedevano. Così ho scelto di essere altro. Ma anche l’altro, a volte, pesa.»
Francesca dice: «Io volevo che il mio corpo non fosse mai quello che si aspettavano. Niente pose, niente seduzione. Solo un corpo che si perde, che si spezza, che si confonde con i muri.»
«Per non farsi prendere,» mormora Annemarie.
«Per non farsi prendere,» ripete Francesca.
Poi arriva il silenzio più denso. Quello della morte.
Non la nominano subito. Ma è lì, nella stanza, come una terza presenza.
«Hai mai avuto paura di non farcela?» chiede Francesca, con voce bassa.
Annemarie sorride con tristezza. «Sempre. Ma ho fatto finta di no. E tu?»
«Io avevo paura del contrario,» risponde Francesca. «Di farcela e scoprire che non cambiava niente.»
Annemarie la guarda a lungo. «Forse siamo state entrambe troppo lucide.»
«O troppo fedeli a quello che sentivamo,» dice Francesca.
Si alzano. Francesca sistema la macchina fotografica. «Posso?»
Annemarie annuisce.
Si mette davanti al muro, in controluce. Non posa davvero. Sta. Francesca scatta. Nell’istante, Annemarie sembra già lontana, come se appartenesse più al viaggio che alla stanza.
Poi è Annemarie a prendere un taccuino. Scrive poche righe, veloci. «Se qualcuno leggerà,» dice, «saprà che ci siamo incontrate.»
«E se qualcuno guarderà,» risponde Francesca, «saprà che eravamo lì.»
Si avvicinano. Non si toccano, ma sono vicinissime.
«Pensi che basti?» chiede Francesca.
Annemarie ci pensa. «No. Ma è tutto quello che abbiamo.»
La stanza comincia a svuotarsi, come se il tempo si rimettesse in moto.
Francesca prende la macchina fotografica. Annemarie la valigia. Si avviano verso due porte diverse, apparse ora sulle pareti.
Prima di uscire, si voltano.
Non si dicono addio. Sarebbe troppo definitivo. Si scambiano solo uno sguardo che dice: ti ho riconosciuta.
Poi spariscono.
Restano la fotografia e le parole. E in mezzo, quella stanza delle soglie, dove due vite lontane si sono toccate per un istante, unite da un’affinità segreta: aver cercato, ciascuna a modo suo, di abitare l’inquietudine senza tradirla.

