sabato 19 ottobre 2024

NUMERO 239

 


 



L’ospedale psichiatrico criminale di Rostov era un’imponente struttura che dominava l’orizzonte come un antico castello decadente.

Costruito ai margini della città, lontano dalle strade battute, l’edificio si ergeva su una collina desolata, circondato da una vegetazione incolta, selvaggia che sembrava riflettere l’abbandono e l'isolamento dei suoi abitanti. La sua architettura era un mix tra brutalismo sovietico e decadenza gotica, un monolito di cemento grigio intervallato da finestre piccole e strette, come occhi vigili che scrutavano il mondo esterno con diffidenza.

L’ingresso principale, una massiccia porta di ferro, era fiancheggiato da due torri strette e alte che conferivano all’intera struttura un’aria minacciosa. Le torri non servivano a nulla, se non a intimorire. Alcune leggende sussurrate tra i pazienti dicevano che, in passato, vi fossero stati installati strumenti di sorveglianza o persino celle di isolamento. Ora giacevano vuote, come simboli di un potere che non aveva più bisogno di essere esibito. Il semplice essere rinchiusi a Rostov era una condanna sufficiente.

Le mura esterne erano spesse e logore, annerite dal tempo e dall’umidità, che aveva lasciato macchie scure su tutto l’edificio. Non c’erano decorazioni o elementi che potessero addolcire l’aspetto dell’ospedale: era puro cemento, freddo e inospitale, costruito per contenere, non per accogliere. La struttura era vecchia, probabilmente risalente agli anni ’50, costruita in un’epoca in cui l’attenzione ai diritti umani era subordinata alla necessità di contenere ciò che la società considerava pericoloso. Nonostante la sua età, ogni modifica o aggiunta era stata fatta seguendo lo stesso rigido modello funzionale: ogni corridoio, ogni ala dell'ospedale era pensata per massimizzare il controllo e minimizzare la fuga.

All’interno, la struttura era divisa in ali diverse, ognuna destinata a un gruppo specifico di pazienti. C’era l’ala dei casi meno gravi, dove i pazienti che mostravano segni di recupero potevano muoversi con una certa libertà, sebbene sempre sotto costante sorveglianza. Poi c’erano le sezioni di isolamento, nascoste nelle profondità dell'edificio, dove Pavel era stato spesso confinato. Queste aree erano le più sinistre. Lunghe e strette, i corridoi erano privi di finestre, illuminati da una luce gialla fioca e intermittente, che rendeva tutto ancora più soffocante. Le porte delle celle erano pesanti, di metallo spesso, e si chiudevano con un clangore che rimbombava come il suono di una condanna.

Le celle di isolamento erano piccole stanze imbottite, con pareti rivestite di un materiale gommoso e bianco, quasi asettico. L'aria dentro era stagnante, densa, e portava con sé l'odore dei farmaci e del sudore freddo. Queste stanze, pur essendo imbottite per prevenire atti di autolesionismo, avevano un effetto ancora più agghiacciante su chi vi veniva rinchiuso: l’assenza di rumore, il vuoto opprimente che sembrava risucchiare ogni pensiero, costringevano chiunque a fare i conti con i propri demoni interiori.

I corridoi principali erano lunghi e stretti, progettati per tenere sotto controllo il movimento dei pazienti e per limitare le possibilità di fuga. Ad ogni angolo vi erano telecamere di sicurezza, sospese come occhi meccanici onnipresenti, registrando ogni gesto, ogni sussurro. Le porte che collegavano le varie sezioni dell’ospedale erano pesanti, con serrature elettriche che si chiudevano automaticamente, impedendo qualsiasi tentativo di attraversamento non autorizzato. La sensazione che ogni paziente provava attraversando questi corridoi era quella di essere in una trappola: un labirinto di cemento da cui non c'era via d'uscita.

L’ala medica era forse la più inquietante. Qui si svolgevano le "terapie", che spesso non erano altro che sessioni di contenimento chimico o elettroshock. Le stanze erano piccole e squadrate, riempite solo del minimo necessario: un lettino, un carrello di metallo con siringhe e farmaci, e apparecchiature antiche per le procedure elettroconvulsive. L’odore di disinfettante chimico si mescolava con quello del sudore e della paura. Nessuno parlava troppo, né medici né infermieri; tutto avveniva in un silenzio spettrale, rotto solo dai lamenti soffocati di chi subiva le "cure".

 

Il cortile esterno, l’unico spazio all’aria aperta accessibile ai pazienti, era circondato da alte mura di cemento sormontate da filo spinato arrugginito. Lì, alcuni pazienti venivano condotti per brevi passeggiate, sempre sorvegliati da vicino. Il terreno era spoglio, la terra dura e crepata, come se persino la natura avesse abbandonato quel luogo. Gli alberi intorno al perimetro erano morti o morenti, con i rami spogli che si tendevano verso il cielo grigio come artigli di creature disperate.

L’ospedale sembrava un’entità vivente, una bestia dormiente che si nutriva delle menti e delle anime di coloro che vi erano rinchiusi. Ogni stanza, ogni corridoio, ogni angolo della struttura sembrava progettato per prosciugare la volontà, per ridurre gli uomini a ombre senza più speranza. Rostov non era solo un luogo di contenimento fisico; era una prigione mentale, dove i pensieri venivano distorti, manipolati, e alla fine annientati.

Le pareti bianche dell'ospedale psichiatrico di Rostov sembravano chiudersi sempre di più intorno a Pavel. Il mondo esterno era un ricordo lontano, sfumato come un sogno svanito all'alba. Aveva perso il conto dei giorni, forse anche degli anni. L'ultima volta che aveva visto il sole, era inverno. Ora, l'unico orologio che scandiva il tempo era il suono metallico delle serrature che scattavano all'inizio e alla fine di ogni turno.

Pavel non ricordava neanche più cosa lo avesse condotto lì. C'era stato un processo, vagamente lo sapeva, ma gli eventi si accavallavano nella sua mente come fotogrammi disgiunti di un film spezzato. Gli avevano detto che aveva ucciso qualcuno, un uomo, un estraneo. Gli avevano detto che aveva afferrato un coltello in un bar e lo aveva pugnalato senza motivo. Ma Pavel non ricordava nulla di tutto ciò.

I medici lo chiamavano "disconnessione dalla realtà". Una delle tante etichette che gli avevano appiccicato addosso. Una delle tante diagnosi. Lui, però, non vedeva disconnessioni ma solo la nebbia. La nebbia grigia che avvolgeva tutto. A volte si faceva più densa, altre più leggera. A volte poteva persino vedere attraverso di essa, vedere qualcosa di familiare. Ma poi tornava, sempre. E la realtà diventava confusa, spaventosa.

Pavel era un uomo di circa quarant'anni, ma il tempo trascorso all'interno dell'ospedale psichiatrico di Rostov lo aveva invecchiato prematuramente. Le rughe profonde intorno agli occhi e sulla fronte sembravano solchi scavati da anni di tormento interiore. I capelli, un tempo scuri, ora erano striati di grigio e trasandati, ricadendo in ciocche disordinate su una fronte alta e sudata. La barba incolta gli conferiva un aspetto trasandato, quasi selvaggio, accentuando la sensazione che fosse un uomo perso tra i confini della follia e della realtà.

Il suo fisico, un tempo robusto, era ora consumato dalla permanenza in quella prigione mentale. Pavel aveva un corpo magro e asciutto, quasi scheletrico, le spalle leggermente curve come se portasse il peso di un fardello invisibile. Le mani tremavano lievemente, segnate da cicatrici sottili che raccontavano di notti insonni e tentativi maldestri di liberarsi dalle costrizioni fisiche e mentali dell’ospedale. Le dita erano ossute, con le unghie sempre consumate a forza di mordicchiarle nei momenti di ansia.

I suoi occhi, però, erano l'aspetto più inquietante del suo viso. C'era qualcosa in essi che spaventava chiunque lo osservasse da vicino. Erano occhi che sembravano costantemente all'erta, sempre in movimento, come se cercassero qualcosa che non riuscivano a trovare. Avevano una sfumatura verde scuro, penetranti, ma al contempo velati da una profonda stanchezza, quella stanchezza di chi ha visto troppo e non sa più dove cercare conforto. Ogni tanto si infiammavano di una rabbia improvvisa e inspiegabile, come se dentro di lui vi fosse un incendio costante, ma soffocato dalle pareti di Rostov.

L'espressione di Pavel era spesso vacua, lo sguardo perso nel vuoto come se fosse altrove, forse in un mondo creato dalla sua mente per sfuggire all'orrore che lo circondava. Tuttavia, negli ultimi giorni, dopo quel misterioso sussurro che lo aveva svegliato, la sua postura aveva iniziato a cambiare. Si muoveva con più consapevolezza, con una certa determinazione. Anche il suo sguardo, pur rimanendo inquietante, ora si era fatto più focalizzato, come se un pensiero fisso lo guidasse. Pavel aveva smesso di essere solo una vittima. Ora stava cercando qualcosa.

Vestiva sempre lo stesso camice ospedaliero, logoro e sporco, che lo faceva sembrare più fragile di quanto fosse realmente. Ma sotto quello strato di abiti slabbrati e sporchi, si nascondeva una resistenza interiore che nessuno poteva intuire. Era stato un uomo forte, un uomo che lavorava con le mani, forse in fabbrica, forse come muratore. Qualcosa che richiedeva forza e precisione. Quel Pavel era ancora lì, da qualche parte, sopito sotto anni di nebbia e farmaci.

La sua mente era un campo di battaglia e il suo volto era una mappa di emozioni contrastanti: paura, rabbia, tristezza, ma anche un barlume di speranza ribelle. Aveva un sorriso rarefatto, un sorriso quasi assente, ma che quando emergeva era l'ultimo residuo

di umanità in un uomo che stava combattendo per non essere inghiottito dall'oblio.

Le infermiere passavano ogni tanto, il loro volto mascherato da sorrisi di plastica, con quegli occhi vuoti. Non vedevano Pavel, lo sapeva. Vedevano solo il numero 239. Ogni paziente aveva un numero. Il suo, l’aveva sentito pronunciare innumerevoli volte nei corridoi freddi e sterili. Ogni volta che lo sentiva, si chiedeva se fosse davvero lui. O se il "lui" che conosceva fosse ormai un’ombra persa.

La routine dell'ospedale era monotona, calcolata fino all'ultimo secondo. Cibo insapore, terapie silenziose, ore di osservazione, medicinali distribuiti con una precisione cronometrica. Nessuno parlava più di quanto fosse strettamente necessario. Ogni parola sembrava un rischio, una potenziale prova della propria follia.

C’erano altri pazienti come lui. Ma Pavel li percepiva come spettri vaganti nelle stanze. Alcuni parlavano da soli, altri restavano immobili, con lo sguardo fisso nel vuoto. Non c’era vita, non c’era speranza. Solo quella sensazione opprimente che niente sarebbe mai cambiato. Che Rostov sarebbe stato la sua prigione eterna.

Una notte, però, accadde qualcosa. Pavel era sdraiato sulla branda, lo sguardo rivolto verso il soffitto, quando sentì un rumore diverso. Non il solito scricchiolio dei carrelli dei medicinali o il passo lento delle infermiere. Era qualcosa di più profondo, come se le viscere dell'edificio stesso si muovessero.

Le luci si spensero. Improvvisamente. Il buio avvolse tutto, e per la prima volta da quando era lì, Pavel sentì il battito del suo cuore accelerare. Il silenzio era totale. Non c'erano urla, né comandi. Solo un vuoto.

Poi, un sussurro.

«Pavel.. »

La voce era lieve, quasi impercettibile, ma veniva da dentro la sua stanza. Si alzò a sedere, il cuore che pulsava nelle tempie. «Chi è? » chiese, la gola secca.

«Non importa chi sono. Importa quello che sei diventato. »

Il suo sguardo cercò freneticamente l'origine della voce, ma nel buio tutto era indistinguibile. Eppure, la sentiva chiaramente. Era dentro di lui, come un'eco nei suoi pensieri.

«Hanno giocato con la tua mente. Ti hanno rinchiuso qui perché sei pericoloso. Ma non per gli altri, Pavel. Per loro.»

Il sudore gli scivolava sulla fronte. Qualcosa dentro di lui si stava risvegliando, un ricordo sopito, sepolto sotto strati di farmaci e terapie. Aveva sempre saputo che qualcosa non quadrava, ma la nebbia... la nebbia lo teneva prigioniero.

«Svegliati, Pavel. »

Le luci si accesero di colpo, accecandolo. L'infermiere stava alla porta, con il volto impassibile.

«Ora delle medicine, 239. »

Il vecchio Pavel avrebbe obbedito senza esitare, inghiottito la pillola e lasciato che la nebbia lo riprendesse. Ma ora, qualcosa era cambiato. Quella voce gli aveva dato una scintilla di consapevolezza, di ribellione.

No, non avrebbe preso più nulla.

Scagliò la pillola lontano, fissando l'infermiere con uno sguardo che non aveva mai avuto prima. «No. »

La reazione fu immediata. Un segnale d’allarme. In pochi istanti, due guardie lo afferrarono e lo trascinarono via. Ma Pavel non lottava. Rideva. Una risata sorda, quasi isterica. Aveva capito. La prigione di Rostov non era fatta di mura, ma di chimica. Lo tenevano sedato, quieto, con il cervello intrappolato in un costante stato di torpore.

Le guardie lo gettarono in una stanza imbottita. Un posto dove mettere i pazienti "difficili". Ma Pavel era calmo. Si sdraiò sul pavimento freddo, lasciando che il suo corpo si rilassasse.

 La voce tornò, più forte ora.

«Loro non possono fermarti, Pavel. Non sei pazzo. Sei sveglio. »

I giorni successivi furono un crescendo di caos. Le sue risate risuonavano nei corridoi, infettando l’aria opprimente di Rostov.

Altri pazienti iniziarono a ribellarsi, a rifiutare le medicine. Il controllo che i medici avevano su di loro cominciò a sgretolarsi.

Pavel non era solo.

C’era qualcosa di più grande, qualcosa che si muoveva sotto la superficie di quell’ospedale. E Pavel, per la prima volta da quando era stato rinchiuso, sentiva che sarebbe riuscito a scappare. Non fisicamente, ma mentalmente.

La nebbia stava svanendo, e con essa, anche Rostov.

Eppure, nonostante tutta questa oppressione, Pavel aveva iniziato a vedere l’architettura dell’ospedale in modo diverso dopo il suo "risveglio". I corridoi non erano più solo un labirinto di cemento, ma una sfida da affrontare. Le celle di isolamento non erano più tombe per la mente, ma luoghi dove la sua volontà si rafforzava. Anche le torri e le mura, che un tempo gli incutevano terrore, ora sembravano solo un guscio fragile di un potere illusorio. Sapeva che Rostov era destinato a crollare, come tutto ciò che è costruito sulla paura.

Per Pavel, l'ospedale psichiatrico criminale di Rostov non era più solo una prigione fisica, ma un riflesso distorto della realtà stessa. E ora, quella realtà si stava sgretolando.

L’elemento misterioso che Pavel avvertiva nell’ospedale di Rostov, una presenza indefinita ma inesorabile, si manifestava come un costante sussurro ai margini della sua percezione. Non aveva forma, non aveva volto. Era più simile a un'ombra che si muoveva nei corridoi, o forse nei suoi pensieri, insinuandosi silenziosamente nelle pieghe della sua coscienza. L’ospedale stesso sembrava reagire a quella presenza, come se fosse un’entità viva che si nutriva di quel silenzioso enigma.

Tuttavia, nessuno tranne Pavel sembrava avvertirlo.

La prima volta che aveva udito il sussurro, era stato un suono vago, quasi un soffio portato dal vento in una notte particolarmente fredda. Non vi aveva prestato attenzione, abituato agli scricchiolii e ai rumori indefinibili dell’edificio. Ma poi era successo di nuovo. La seconda volta, il suono era più nitido, più vicino, ma ancora indefinito, come una voce che si trovava in una stanza accanto, separata da muri troppo spessi per essere penetrati. Non erano parole, ma un ritmo, una cadenza, qualcosa che richiamava alla sua mente immagini oscure e confusamente familiari. La voce sembrava non volergli dire nulla, eppure lo chiamava.

In quei giorni, Pavel cominciò a sentire la presenza in ogni parte dell’ospedale. Non si trattava solo del suono, ma di un senso di vigilanza costante, un occhio invisibile che lo seguiva, osservandolo non con l’indifferenza delle telecamere, ma con un’intenzione deliberata. Non era la sorveglianza dei medici o delle guardie, ma qualcosa di più sottile e più antico. Era come se l’intero edificio fosse abitato da un’intelligenza latente, un’intelligenza che cresceva nella muffa sui muri, che si insinuava nelle crepe del pavimento e che respirava nelle pareti di cemento.

Pavel tentò di parlarne con altri pazienti, ma le sue parole non trovarono risposte. «Non c'è nulla qui, se non Rostov» gli dissero. Le loro menti sembravano anestetizzate, incapaci di percepire quella presenza. Anche i medici lo ignorarono, aumentando semplicemente la sua dose di farmaci quando mostrava segni di inquietudine. Ma i farmaci non potevano soffocare ciò che Pavel stava sperimentando. Anzi, con il passare del tempo, la presenza divenne sempre più tangibile.

Una notte, mentre giaceva sveglio nella sua cella, la presenza si fece più forte che mai. Pavel sentì chiaramente il suo respiro, lento e profondo, come se provenisse da un essere enorme nascosto appena oltre le pareti. Poi arrivò il sussurro, non più vago o distante, ma chiarissimo, proprio vicino al suo orecchio: «Non sei solo. »

 

Pavel si alzò di scatto, gli occhi spalancati nel buio della stanza.

« Chi sei? » sussurrò tremando, ma non ci fu risposta. L’aria si fece improvvisamente pesante, quasi palpabile, come se fosse carica di una forza invisibile. Sentiva il cuore battergli forte nel petto, mentre la sua mente cercava disperatamente di trovare una spiegazione razionale. Ma in fondo, sapeva che non c’era nulla di razionale in ciò che stava accadendo.

Nei giorni successivi, la presenza divenne una costante. Il sussurro, a volte indistinguibile, altre volte netto come un ordine, gli parlava nei momenti di solitudine, invitandolo a dubitare della sua percezione. Gli diceva che non era pazzo, che non era il colpevole, ma che era stato scelto. « Da chi? Per cosa? » chiedeva Pavel, ma la voce non rispondeva mai a queste domande. Sembrava solo insistere sul fatto che l’ospedale non era quello che sembrava.

Con il tempo, la presenza cominciò a manifestarsi anche fisicamente. Nelle ombre degli angoli più oscuri dei corridoi, Pavel vedeva movimenti sfuggenti, ombre che non appartenevano a nessuno dei pazienti o del personale. Gli sembrava di percepire una figura vagamente umana che lo seguiva, che si nascondeva solo un attimo prima che i suoi occhi riuscissero a metterla a fuoco. Era sempre lì, ai limiti della sua visione periferica, mai completamente visibile, ma sempre presente.

 Una notte, decise di seguirla. Uscito dalla sua cella durante il turno di notte, quando l’ospedale era immerso nel silenzio più profondo, camminò per i corridoi seguendo quella sensazione opprimente. Le ombre sembravano allungarsi e avvolgerlo come tentacoli. Il suono delle sue scarpe rimbombava nel silenzio, e più si avvicinava a quella che sentiva essere la fonte della presenza, più il suono del suo battito cardiaco diventava assordante.

Pavel arrivò infine davanti a una porta che non aveva mai notato prima. Era vecchia, quasi nascosta dietro un muro coperto da muffa. Era sicuro di non averla mai vista, eppure sembrava essere sempre stata lì. La mano tremante si allungò verso la maniglia. La voce sussurrò di nuovo, questa volta più chiara, come se fosse proprio dietro quella porta: « Non aprire. »

Ma Pavel aprì.

Dietro quella porta non c’era nulla. Solo un vuoto nero, profondo come un pozzo senza fondo. La voce non parlava più. Le pareti sembravano respirare attorno a lui, e in quell'oscurità infinita Pavel sentì qualcosa di più spaventoso di qualsiasi incubo: il senso di essere stato atteso. Non era lui a cercare la presenza, era la presenza che aveva sempre cercato lui.

Ora capiva. Il segreto di Rostov non era nei pazienti, né nelle cure. L’ospedale stesso era vivo, un essere antico e silenzioso che si nutriva della paura e della follia. Ogni paziente non era che una piccola parte di un disegno più grande. E Pavel, nonostante tutto, faceva parte di quel disegno, una pedina scelta per un motivo che non avrebbe mai compreso fino in fondo.

 La porta si chiuse dietro di lui, e da quel momento nessuno lo vide più. Le infermiere continuavano a somministrare le medicine al letto vuoto di Pavel, e nei corridoi si sussurrava che il numero 239 fosse stato trasferito. Ma l’ospedale di Rostov sapeva la verità. Pavel non era mai uscito. Era diventato parte di quella presenza che lo aveva chiamato, uno dei tanti segreti sepolti tra le sue mura.

E nei silenzi della notte, chi ascolta attentamente può ancora udire un sussurro.

domenica 6 ottobre 2024

CINEMA HYPNOS

  




Al Cinema Hypnos, la locandina luccicava sotto il neon bluastro: Proiezioni in 4D. Un'esperienza che cambierà la tua percezione del reale.

La gente si accalcava all'ingresso, incuriosita, eccitata, ignara. Solo pochi, tra cui io, si fermavano a osservare la folla senza desiderio di unirsi, come animali che, sentendo il temporale prima degli altri, cercano riparo.

Non era facile spiegare cosa accadesse all'interno. Le voci erano poche e frammentarie, poiché chi usciva dalla sala non parlava volentieri. Non che non volesse: pareva che non sapesse più come farlo. Qualcuno era cambiato nell'aspetto, qualcuno nel comportamento, ma non era mai chiaro cosa fosse successo realmente. Le leggende intorno all'Hypnos si moltiplicavano.

Quando mia moglie, Silvia, decise di andare, non tentai di fermarla. Credevo alle storie quanto basta per temere quel posto, ma non per oppormi a un suo desiderio. Le avevo detto solo: «Attenta. » Lei aveva sorriso, sicura di sé, come a volermi tranquillizzare.

Mi pentii di non aver fatto di più.

Era una serata fredda di metà ottobre e le luci fioche dei lampioni disegnavano ombre lunghe sul marciapiede. Silvia aveva insistito per vedere quel film, un'opera misteriosa di cui si parlava nei circoli più elitari del cinema indipendente. Un film che, secondo lei, prometteva di esplorare gli angoli più oscuri dell'animo umano. Non ero del tutto convinto, ma l'entusiasmo con cui me ne parlava aveva qualcosa di contagioso. Così, quella sera, mi lasciai convincere e la accompagnai al cinema.

Io l’aspettai fuori.

Il film durava due ore. Al termine Silvia, però, non si mosse subito. Restò seduta immobile, come se non volesse o non potesse abbandonare quel mondo che il film aveva creato.

«Silvia? »le chiesi sottovoce, ma lei non rispose. Solo allora si alzò, senza guardarmi, e si avviò verso l'uscita. La seguii, un po' perplesso, notando che il suo passo era lento, quasi meccanico. All'inizio, pensai che fosse scossa dal film. Forse era troppo intenso, troppo profondo. Ma quando uscimmo nel freddo della sera, mi resi conto che c’era qualcosa di più.

Silvia non sembrava turbata o sconvolta come avrei potuto immaginare. No, non era neppure invecchiata di un istante. Fisicamente era identica a prima: i capelli castani raccolti in una coda disordinata, il suo cappotto leggero e il passo che riconoscevo così bene. Eppure, qualcosa in lei era radicalmente cambiato. Aveva uno sguardo vuoto, assente, che non le avevo mai visto prima. I suoi occhi, che fino a poche ore prima erano stati vivaci e pieni di luce, sembravano ora pozzanghere opache, prive di ogni scintilla di vita.

La chiamai ancora una volta. «Silvia, tutto bene? » Non ci fu risposta. Non fece neppure un cenno. Il suo volto era impassibile, congelato in un’espressione che mi metteva a disagio. In quel momento, qualcosa dentro di me si mosse, un'ombra di paura o di inquietudine. Ma cercai di scacciare quel pensiero, convincendomi che aveva solo bisogno di tempo per elaborare il film.

Sulla via del ritorno, la tensione aumentò. Io continuavo a guardarla di sfuggita mentre guidavo, cercando di trovare un appiglio, un segno che potesse rassicurarmi, ma non trovai nulla. Lei era lì accanto a me, seduta con le mani rigide sulle ginocchia, lo sguardo fisso davanti a sé. Non c'era vita in quegli occhi. Era come se tutto ciò che la rendeva Silvia, tutto ciò che amavo in lei, fosse stato svuotato. Non era stanca, non era arrabbiata, non era nulla. Solo un guscio vuoto.

Arrivati a casa, mi resi conto che il silenzio fra noi era diventato insopportabile. Mi fermai prima di spegnere il motore e la guardai.

«Silvia, ti prego. Dimmi qualcosa. » Le mie parole uscirono quasi in un sussurro, come se stessi cercando di non svegliare un mostro addormentato. Ma lei non si mosse. Non ci fu neppure un tremito nel suo corpo.

Scesi dall'auto, aspettando che mi seguisse. Ma quando lo fece, fu con la stessa lentezza meccanica. Salimmo le scale del nostro palazzo in un silenzio irreale, interrotto solo dal rumore dei nostri passi. Dentro casa, Silvia si diresse verso la camera da letto senza dire nulla. La seguii a distanza, confuso e spaventato. Vederla così mi faceva sentire impotente, come se avessi perso il controllo su qualcosa di fondamentale nella mia vita.

Non accese la luce. Si sedette sul bordo del letto, le mani ancora appoggiate sulle ginocchia, lo sguardo fisso nel vuoto. Il suo silenzio era soffocante. Mi avvicinai piano, inginocchiandomi davanti a lei. «Silvia, ascoltami... » le dissi, prendendole le mani. Erano fredde, insolitamente fredde. La scossi leggermente, cercando di scuoterla da quel torpore. Ma niente.

Cominciai a chiedermi cosa fosse accaduto in quelle due ore. Il film poteva aver avuto un impatto così devastante? O c’era qualcos’altro? Forse dovevo essere più attento. Forse quel film non era semplicemente una storia. Forse era qualcosa di più profondo, di più pericoloso.

La notte fu lunga. Io non chiusi occhio, mentre lei rimase seduta lì, senza muoversi, senza parlare. Ogni tanto, provavo a chiederle qualcosa, ma era come parlare a una statua.

Il mattino seguente, al primo raggio di sole, Silvia si alzò improvvisamente. Senza dire una parola, si diresse verso la porta, come se avesse un obiettivo preciso. Cercai di fermarla, afferrandola per un braccio. «Silvia, dove stai andando? » chiesi, ma lei si liberò dalla mia presa con una facilità sorprendente, senza neppure guardarmi.

La seguii fuori, cercando di fermarla, ma lei continuò a camminare, diretta verso il parco vicino. Un parco che avevamo sempre evitato, che lei diceva di odiare perché le ricordava qualcosa di doloroso, qualcosa che non mi aveva mai voluto raccontare. Quando arrivammo lì, si fermò di colpo. Io ero a pochi passi da lei, senza fiato, il cuore che batteva all'impazzata.

Si voltò finalmente verso di me. I suoi occhi, vuoti fino a quel momento, sembravano ora accendersi di un barlume, ma non era un barlume di vita. Era qualcos’altro, qualcosa che non riuscivo a decifrare. Poi parlò, la sua voce roca, come se non l'avesse usata da anni.

«Loro mi stanno aspettando. »

Non capii cosa intendesse, né chi fossero "loro". Ma in quel momento capii una cosa: Silvia, la donna che conoscevo, non era più lì. Qualunque cosa fosse successa in quelle due ore di film, l'aveva cambiata per sempre. E io non sapevo se l'avrei mai più ritrovata.

Quando tornammo e varcammo la soglia di casa, mi accorsi di una cosa strana. Un odore indefinibile permeava l'aria. Era un odore sottile, inquietante, simile al ferro arrugginito misto a muffa, ma con qualcosa di dolciastro. Il tipo di odore che non ti lascia in pace, che si insinua dentro di te.

Da quel momento, la nostra vita matrimoniale, che un tempo era stata piena di amore e complicità, si dissolse come nebbia al sole. La persona che avevo sposato era scomparsa, sostituita da qualcosa che sembrava Silvia, ma che non lo era più. Si muoveva per la casa con una lentezza innaturale, come se dovesse riapprendere ogni gesto, ogni passo. Le sue mani tremavano, e c'erano momenti in cui sembrava persa nel tempo, ferma in un punto mentre tutto il resto continuava a scorrere.

Due giorni dopo me ne andai. Non potevo restare lì. Non con lei, o meglio, con ciò che era diventata. Non sapevo cosa fosse successo all'Hypnos, ma sapevo che mia moglie non era più quella che avevo conosciuto.

Non mi ci volle molto per scoprire che non ero il solo. Nel quartiere, le storie si diffondevano sottovoce, come un virus che si propagava.

Famiglie distrutte, persone che dopo essere entrate nel cinema non erano mai più le stesse. Alcuni invecchiavano in modo accelerato, come se il tempo si fosse piegato su di loro, consumandoli in pochi giorni. Altri perdevano la memoria o finivano in uno stato di apatia totale. Altri ancora, come Silvia, sembravano trattenuti da qualcosa di diverso, come se fossero stati scollegati dal mondo a cui appartenevano.

Eppure, nonostante le voci e gli avvertimenti, la fila davanti all'Hypnos non smetteva mai di crescere. Era come se la gente fosse attratta da quel mistero, incapace di resistere alla tentazione di varcare quella soglia proibita.

Per molto tempo mi sono chiesto cosa accadesse esattamente lì dentro. Era facile parlare di effetti speciali, di tecnologia avanzata, di illusioni cinematografiche. Ma la verità era che nessuno sapeva davvero cosa fosse la quarta dimensione di cui parlavano.

Poi, un giorno, un uomo anziano, seduto su una panchina fuori dal cinema, mi raccontò qualcosa. Lo aveva visto decine di volte: persone entrare giovani e uscirne vecchie. Persone entrare felici e uscirne spezzate. Ma non si trattava solo di invecchiamento o di cambiamenti emotivi. Quel cinema giocava con le dimensioni in modi che non potevamo comprendere. Il tempo non era lineare lì dentro; si piegava, si distorceva, e assieme a esso lo spazio. Ogni spettatore viveva una realtà diversa, una percezione del tempo che non era più la nostra.

Chiunque entrava all’Hypnos viveva esperienze che trascendevano ogni comprensione, spaziando in dimensioni dove tempo e identità perdevano significato. Il corpo poteva tornare, ma lo spirito, la mente, erano ormai altrove, frammentati tra epoche e mondi.

Capì allora che chi usciva dall'Hypnos non era più lo stesso non perché fosse invecchiato o cambiato, ma perché aveva vissuto qualcosa che noi non avremmo mai potuto capire. Forse avevano attraversato decenni in pochi minuti. Forse avevano vissuto più vite, in altre epoche, in altri spazi, con altre identità. Il tempo e lo spazio si erano mescolati, trasformandoli in qualcosa di alieno.

Non ho mai messo piede all'Hypnos. Nonostante la curiosità, c'era una paura profonda che mi tratteneva. Capivo ora che quel cinema non era solo un luogo di intrattenimento, ma una porta verso l'ignoto. E se c'è una cosa che ho imparato da tutta questa vicenda, è che ci sono confini che non dovremmo mai oltrepassare.

Alcuni misteri non sono fatti per essere svelati.

Alla fine, solo una cosa è certa: chi entra all'Hypnos, non esce mai più davvero

Ferite che parlano, materia che passa: Alberto Burri e Berlinde De Bruyckere tra arte e impermanenza

Questo articolo propone una lettura comparativa tra l’opera di Alberto Burri e quella di Berlinde De Bruyckere alla luce del concetto di imp...