domenica 25 maggio 2025

Le Monete Tribali Africane e il Concetto di Forma nel Design

 





 Le Monete Tribali Africane e il Concetto di Forma nel Design – Un’Esplorazione Transculturale tra Oggetto, Valore e Identità

L’ occasione di tornare a parlare di forma nell’arte mi è arrivata dopo aver visitato la bellissima mostra al Musec di Lugano AFRICAN DESIGN. I metalli del potere.

Quando si affronta il concetto di “forma” nel design, spesso si tende a considerarlo in termini puramente estetici o funzionali. Tuttavia, la forma è anche un dispositivo culturale, narrativo e simbolico. Essa costituisce un mezzo attraverso cui si esprimono, si codificano e si tramandano significati. In questo contesto, le monete tribali africane rappresentano un campo di studio straordinario, in grado di mettere in discussione i paradigmi classici della progettazione occidentale e offrire nuovi spunti per comprendere la relazione tra oggetto, funzione e cultura.

Tento un’indagine comparativa tra le monete tribali africane e il concetto moderno di forma nel design. Verranno analizzate le implicazioni simboliche, rituali, estetiche e funzionali della forma in due contesti apparentemente distanti ma sorprendentemente complementari: il sistema monetario tradizionale africano e la pratica del design industriale e contemporaneo. Tale confronto non solo arricchisce la nostra comprensione delle pratiche materiali africane, ma solleva questioni fondamentali sul ruolo del design nella costruzione di significati condivisi.

I Sistemi Monetari Tribali Africani: Un’Alchimia tra Forma, Valore e Società

Nel continente africano, prima della diffusione delle valute coloniali europee, esistevano centinaia di sistemi monetari tradizionali, ciascuno dei quali rifletteva l’organizzazione sociale, i valori culturali e le strutture simboliche delle comunità locali. Le cosiddette "monete tribali" erano spesso realizzate in metallo – rame, ferro, ottone – e si presentavano in forme estremamente varie: bracciali, asce, zappe, serpentine, anelli, oggetti fallici, lance, spade, e figure antropomorfe o zoomorfe.

 

Queste forme non erano arbitrarie. Esse codificavano informazioni, raccontavano storie, stabilivano gerarchie sociali, e regolavano le relazioni interpersonali. Ad esempio, nella regione del Congo, le “monete a forma di zappa” erano simbolo di fertilità e abbondanza, e venivano spesso utilizzate nei matrimoni come dote. In altri contesti, le “monete a bracciale” (come i manilla dell’Africa Occidentale) erano riservate a cerimonie rituali o alla compravendita di terre, bestiame e persino persone. L’uso e la forma della moneta erano quindi inseparabili: l’oggetto monetario non solo rappresentava un valore, ma lo “metteva in scena”.

La Forma come Linguaggio: Antropologia delle Monete e Teoria del Design

Se osserviamo queste monete attraverso la lente dell’antropologia visiva, possiamo cogliere la profondità del rapporto tra forma e cultura. Ogni elemento formale – curva, punta, simmetria, texture – ha una funzione comunicativa. È un linguaggio visivo, leggibile all’interno della comunità, capace di trasmettere appartenenza, potere, identità e legittimità. Questo sistema semiotico è particolarmente interessante per il designer, in quanto mostra come la forma possa superare il livello meramente funzionale per diventare un vettore di significato.

Nel design moderno e contemporaneo, soprattutto a partire dal XX secolo, si è sviluppato un pensiero sulla forma come “risposta ottimizzata” a una funzione. Il principio modernista “form follows function” ha dominato per decenni, portando alla creazione di oggetti essenziali, razionali, riproducibili in serie. Tuttavia, questo paradigma ha mostrato nel tempo i suoi limiti, soprattutto nel rapporto con le dimensioni simboliche e identitarie degli oggetti.

Le monete africane tradizionali ribaltano questa logica: la forma non è derivata solo dalla funzione tecnica (come mezzo di scambio), ma è plasmata dalla funzione simbolica e rituale. Questo rovesciamento offre una prospettiva rivoluzionaria per i designer che oggi vogliono andare oltre la mera utilità e creare oggetti che parlino, che connettano, che raccontino.

Confronto con il Design Contemporaneo: Tra Globalizzazione e Recupero del Locale

Nel mondo globalizzato, il design si trova in una posizione ambigua: da una parte tende all’omologazione estetica, dall’altra ricerca autenticità attraverso il recupero di tradizioni locali e materiali culturalmente significativi. È in questo secondo movimento che la forma delle monete tribali africane trova una nuova rilevanza.

Molti designer contemporanei, soprattutto nel campo del design sociale, del design etico e del design artigianale, stanno riscoprendo il valore della forma come portatrice di narrazioni. In questa cornice, le monete africane diventano modelli di “design vernacolare”: oggetti nati dalla comunità, in risposta ai bisogni locali, ma carichi di significati condivisi. La loro forma non è imposta dall’esterno, ma generata dal contesto: è un prodotto del paesaggio culturale.

Nel mondo occidentale, il recupero dell’imperfezione (wabi-sabi), dell’artigianalità, della materia “calda” è una risposta alla freddezza e all’anonimato del design industriale. Le monete africane, fatte a mano, uniche, incarnano questi valori in modo autentico e originario. Esse non solo rompono con la standardizzazione, ma propongono una forma di bellezza legata alla memoria, all’uso, al vissuto.

Materiali, Simboli e Codici: La Forma come Mappa Culturale

Analizzando le monete africane dal punto di vista dei materiali, emerge un’altra dimensione fondamentale della forma: la sua relazione con la materia. In molte culture africane, il ferro è considerato sacro, in quanto associato al fuoco, alla creazione, alla trasformazione. Il fabbro – colui che plasma la forma – è spesso visto come una figura liminale, tra l’umano e il divino. Ne deriva che la forma non è solo estetica o funzionale, ma spirituale.

Il designer contemporaneo, invece, è spesso distaccato dalla produzione materiale. La progettazione avviene in studio, mentre la realizzazione viene affidata alla fabbrica. Ciò comporta una separazione tra l’idea della forma e la sua esecuzione, tra la visione e la materia. Le monete tribali africane rappresentano un’opportunità per ripensare questa distanza: esse ci insegnano che la forma nasce nel gesto, nell’uso, nel rito, e che la materia è co-autrice del significato.

 






Le monete tribali africane non sono semplicemente artefatti del passato. Esse sono testimoni viventi di una concezione del design radicata nella cultura, nella ritualità, nella narrazione. Mettere in dialogo queste forme con il pensiero contemporaneo sul design non è un esercizio nostalgico, ma un atto critico e rigenerativo.

In un'epoca in cui il design rischia di perdere contatto con la vita reale, con i bisogni profondi, con le relazioni umane e spirituali, le 

 


domenica 18 maggio 2025

Lo Specchio Deformante

 



Pioveva acido. Le gocce rimbalzavano sulle lamiere dei tetti come dita nervose che battevano su un vetro sporco. I neon pubblicitari sputavano immagini stanche, incastrate in loop di promesse di perfezione, sorrisi posticci, corpi impossibili.

Nordavax era diventata questo: un riflesso persistente. Un gigantesco specchio metropolitano. Ovunque ti girassi, c’erano superfici riflettenti. Vetrine, schermi, facciate, persino l’asfalto bagnato. Tutto restituiva un’immagine — mai tua, non davvero — ma di ciò che pensavi di essere, o che volevi che gli altri vedessero.

La gente non si guardava più in faccia. Si osservava nei riflessi, negli avatar, nelle versioni digitali di sé stesse. Il contatto umano era una reliquia. L’empatia, un fastidio. I legami si erano fatti evanescenti. Corde tese nel vuoto che non vibravano mai.

Era una città costruita sull’apparenza. Un luogo dove nessuno era reale se non appariva come voleva essere visto.

Ed è lì che ho commesso il mio crimine.

Mi chiamo Emil Larcen. Ero uno scienziato. Un costruttore di specchi. Ma non quelli che riflettono la luce. I miei riflettevano l’anima. O almeno… così dicevo.

Ora so che riflettevano solo il nostro abisso.

La Torre Panóptica era un edificio che stava in piedi solo grazie all’arroganza. Trecento metri di vetro nero, circondato da pareti specchianti che ospitavano centri di ricerca, studi di neuroetica e, per un certo periodo, anche la mia coscienza.

La stanza 47 era al piano più alto. Nessuna finestra. Nessun accesso alla rete. Solo muri insonorizzati e un impianto di ventilazione difettoso che tossiva come un vecchio malato terminale.

E al centro della stanza: lo Specchio Deformante.

Tre metri d’altezza. Una cornice fatta di ossidazioni metalliche e cavi ottici. Una superficie non piatta, non curva, ma viva. Lo Specchio non rifletteva l’immagine esterna. Non era un oggetto. Era un processo. Si collegava al cervello dell’osservatore attraverso onde neurali, decifrava i modelli cognitivi, i desideri latenti, le frustrazioni sepolte, e le mostrava.

Mostrava come ti vedevi.

O, peggio, come volevi vederti.

Il primo giorno che ci ho guardato dentro, ho visto me stesso. Non come ero. Come avrei voluto essere. Alto, elegante, vestito con un completo nero. Dietro di me, una folla immensa in silenzio. Tutti mi guardavano come si guarda un messia. Ogni mio gesto era legge. Ogni parola, vangelo. Avevo la città ai miei piedi.

Ma quando mi sono voltato — nel riflesso, intendo — la mia nuca era cava. Vuota. Una maschera che sorrideva solo davanti. Dietro, solo buio.

Sono svenuto. Mi hanno trovato tre ore dopo, tremante sul pavimento.

Ma non ho smesso di guardare.

Avevo creato lo Specchio come parte del progetto Speculum Veritatis. L’idea era tanto brillante quanto folle: costringere gli esseri umani a confrontarsi con la propria auto-percezione per guarire dalle dissonanze, dai traumi, dai falsi sé. Pensavo di poter salvare la mente collettiva.

Ma avevo sottovalutato il potere dell’illusione.

La gente non vuole la verità. Vuole la propria versione della verità. Vuole sentirsi speciale. Irripetibile. Amata. Temuta. Vuole il controllo. Il dominio. L’ammirazione.

Lo Specchio mostrava tutto questo. E quando lo toglieva, lasciava il vuoto.

I test iniziali furono devastanti. Alcuni soggetti vedevano sé stessi come divinità immortali. Altri come vittime eterne. Molti finivano in crisi psicotiche. Alcuni si suicidavano entro 48 ore.

Lo Specchio non mentiva. Non diceva nemmeno la verità. Era peggio: diceva ciò che credevi fosse vero. E lo mostrava con la violenza delle immagini.

La commissione etica chiuse il progetto. Lo Specchio fu bandito. Ma io lo tenni con me. Mi chiusi nella stanza 47. E cominciai a parlarci ogni notte.

Era l’unico che mi mostrava ancora qualcosa.

Nordavax, nel frattempo, aveva adottato la mia malattia.

Non c’era più differenza tra persona e personaggio. Ognuno curava la propria immagine come fosse un’opera d’arte tossica. Profili digitali aggiornati al secondo. Manipolazione dell’immagine corporea. Voice filters per mascherare insicurezze. Traduzioni emotive automatizzate.

L’amore era diventato una strategia di marketing. L’amicizia, un interscambio performativo. La sessualità, un linguaggio cifrato.

Ogni individuo si muoveva con la consapevolezza di essere osservato. Ma non per essere capito. Solo per essere invidiato.

Lo specchio era ovunque. Ma nessuno si guardava davvero. Solo proiezioni.

Era il mio fallimento perfetto.

Io continuavo. Ogni notte, accendevo lo Specchio. Mi sedevo davanti. Parlavo. Lo interrogavo. A volte lo minacciavo. Altre, lo supplicavo. Lo Specchio restituiva sempre ciò che volevo. O ciò che temevo.

Un giorno mi mostrò la città in ginocchio, mentre io volavo sopra, con un mantello bianco che brillava come un angelo. Tutti mi ringraziavano. Mi imploravano. Mi adoravano.

Ma quando abbassavo lo sguardo, i volti erano tutti “il mio”.

Era come se avessi clonato me stesso in ogni cittadino. Una folla di Emil. Tutti con lo stesso sorriso finto. Tutti con gli occhi spenti.

Ogni tanto, nel riflesso, un mio doppio mi fissava. E sorrideva. Quel sorriso… Dio. Ancora oggi mi sveglio sudato per colpa di quel sorriso.

Avevo provato a comunicare. Avevo creato un canale chiamato “Riflessi di Verità”, dove trasmettevo i miei pensieri, le visioni, i risultati delle mie sessioni con lo Specchio. Nessuno ascoltava. O forse sì, ma nessuno rispondeva.

I cittadini di Nordavax non parlavano più. Non interagivano. Non litigavano. Non facevano l’amore. Guardavano. Scrollavano. Postavano. Ogni frase era una posa. Ogni opinione, un esercizio narcisistico. Nessuno ascoltava nessuno.

Era l’inferno della “non reciprocità”.

Un tempo pensavo che l’opposto dell’amore fosse l’odio.

Ora sapevo la verità: è l’indifferenza.

Poi, una notte, tutto si spense.

Nessun allarme. Nessun segnale. La città sprofondò nel buio. Niente più neon. Niente più riflessi. Solo silenzio. E pioggia.

Mi svegliai nella stanza 47, con il cuore che batteva troppo in fretta. Mi avvicinai allo Specchio. Era spento. Nero. Per la prima volta, non restituiva nulla.

Allora lo guardai come si guarda un cadavere. Mi sedetti. E aspettai.

Dopo ore — forse giorni — la superficie si accese.

Ma non mostrò me. Non subito.

 

Mostrò “loro”. Tutti. La città intera. Volti umani. Veri. Difettosi. Gente che rideva, piangeva, urlava. Gente che non vedevo da anni. Gente che avevo dimenticato.

Poi, tra loro, mi vidi anch’io.

Ma non il me delle visioni.

Il vero me. Occhi stanchi. Spalle curve. Barba lunga. Pelle grigia. E uno sguardo… rotto.

E in quel momento capii.

Lo Specchio non era il problema. E nemmeno la città.

Ero io.

Avevo costruito una macchina per vedermi migliore. Più amato. Più potente. Avevo riempito la rete di me stesso. Avevo contagiato ogni pixel della città con il mio desiderio di controllo, di gloria, di adorazione.

Avevo ucciso ogni forma di relazione. Avevo promosso l’immagine a verità. L’apparenza a essenza. L’ammirazione a sostituto dell’amore.

Lo Specchio era solo un mezzo.

Io ero il carnefice.

E la mia creatura, Nordavax, era la mia vittima.

O forse era il contrario.

La mattina seguente — o forse era notte, chissà — mi vestii. Scrissi una frase sul muro con un pennarello rosso:

“Non mi vedo più. Finalmente.”

Poi salii sul tetto. Il vento sapeva di ammoniaca e malinconia. Guardai la città. Spenta. Silenziosa. Bellissima, per la prima volta.

Mi buttai.

Il mio corpo lo trovarono tre giorni dopo. Un senzatetto mi coprì con un telo. Nessun funerale. Nessun articolo. Nessun epitaffio.

Ma qualcosa cambiò.

La stanza 47 fu sigillata. Lo Specchio non fu più accesso. Ma qualcuno racconta che, anche spento, rifletta cose nuove.

Volti veri. Abbracci sinceri. Mani sporche. Errori. Gesti. Non più icone. Non più idoli. Non più maschere.

Solo esseri umani.

Forse lo Specchio ha imparato.

O forse, per un attimo, ha semplicemente smesso di deformare

 

 

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