mercoledì 16 aprile 2025

UN ALBERO RADICATO NEL FUTURO : “L’ ALBERO DI TESLA” l’ultimo film di Giorgio Magarò

 






Il cinema ha il potere di rendere vivida e coinvolgente qualsiasi epoca storica, sfruttando un insieme di strumenti espressivi che spaziano dalla fotografia, al montaggio, alla colonna sonora. Grazie a queste tecniche, gli eventi del passato non appaiono più come semplici dati cronologici, ma si trasformano in esperienze emotive dirette per lo spettatore. 

Fin dalla sua nascita alla fine del XIX secolo, ha sempre avuto un rapporto stretto con la scienza e la tecnologia. Senza le scoperte scientifiche in ambito ottico, meccanico e chimico, la settima arte non sarebbe mai nata. Tuttavia, l'influenza della scienza sul cinema non si limita alla sua creazione tecnica: la scienza è anche una fonte inesauribile di ispirazione per registi e sceneggiatori, che spesso hanno utilizzato teorie e scoperte scientifiche per costruire narrazioni affascinanti e visionarie.

Quando si decide di riportare in vita un personaggio storico come Nikola Tesla, il linguaggio cinematografico deve affrontare una sfida duplice: da un lato, restituire fedelmente il contesto storico e scientifico in cui l’inventore operava; dall’altro, rendere il personaggio attuale e affascinante per il pubblico contemporaneo. Per riuscirci, registi e sceneggiatori adottano spesso soluzioni creative che mescolano realtà e finzione, costruendo una narrazione che non è mai una mera riproduzione documentaristica, ma un’opera artistica dotata di un’identità propria. Rendere attuale un personaggio storico attraverso il cinema non significa solo raccontare la sua vita, ma ridefinire il modo in cui esso viene percepito dal pubblico. Questo processo di rielaborazione è un atto profondamente creativo, che implica la scelta di una chiave di lettura originale capace di comunicare con la sensibilità contemporanea. 

Il cinema, infatti, non è mai una semplice riproduzione del reale, ma una sua interpretazione artistica. Registi e sceneggiatori scelgono quali aspetti di un personaggio mettere in evidenza, quale tono adottare e quale atmosfera costruire. Nel caso di Tesla, il suo lato più futuristico e misterioso è spesso accentuato per rafforzare il suo status di precursore e outsider del progresso scientifico. 

L’ occasione di rimarcare questi concetti è data dalla imminente uscita del nuovo film dell’amico regista Giorgio Magarò, “ L’ALBERO DI TESLA”.

Nato in Umbria, vissuto a Milano e attualmente attivo nel pavese, ha all’attivo molti documentari a carattere sociale e alcuni film di fantascienza e non solo, tra gli altri L’ISOLA SBAGLIATA (2017), LIMBO (2020) e CHAOS (2023).

Giorgio dice di sé: “Scrivere in poche righe la propria storia professionale non è cosa semplice. Il mio lavoro, iniziato alla fine degli anni ’80 è fatto di molte esperienze intense che mi hanno permesso di incontrare persone e realtà che non conoscevo”.

L’ALBERO DI TESLA” ha proprio il focus sullo scienziato Nikola Tesla, per chi non l’avesse ancora capito.

Incontro Giorgio un tardo pomeriggio in quel di Lodi, dove sta allestendo la mostra collaterale alla proiezione in 3d del suo film  CHAOS. Tra un modellino di una astronave e una strana tuta da palombaro, troviamo il momento per un caffè e scambiare quattro chiacchiere.

Giorgio, dopo esserti cimentato con la cinematografia di fantascienza,  dimensione stilistica d'elezione vista la tua passione verso l'argomento, hai approcciato il genere storico. Come mai questa scelta e quali difficoltà hai dovuto affrontare?

La mia passione per il personaggio è nota da tempo. La sua figura mi ha sempre affascinato: una delle menti più geniali e misteriose della storia. Con questo lavoro mi proponevo di esplorare le sue battaglie personali, il rapporto con altri pionieri dell'epoca e soprattutto il suo lato più enigmatico e visionario. La sua storia si prestava perfettamente a questa operazione, poiché la sua esistenza è caratterizzata da elementi di grande fascino narrativo: la rivalità con Edison, le sue invenzioni rivoluzionarie, il carattere solitario e utopista, ma anche il fallimento economico nonostante le sue scoperte fondamentali. Volevo che queste caratteristiche specifiche caratterizzassero i personaggi del film, cosa del resto che faccio sempre nei miei film dove i personaggi si portano appresso un vissuto che è tutto da immaginare e magari non è palesato nella narrazione stessa. Così accade in un lavoro fantascientifico o storico: due facce della stessa medaglia. Nel primo faccio indossare delle tute spaziali nel secondo giacche e pantaloni d’epoca, molto semplice. Certo la contestualizzazione, le location mi costringono a fare esercizi di studio per far aderire maggiormente il contenuto con l’epoca, ma questo viene da sé.

 

Salvo errori per questo film hai curato anche la scrittura a differenza di altri tuoi lavori precedenti. Questo è dovuto al fatto che l'argomento del film è centrato sulla figura dello scienziato serbo Nikola Tesla a cui sei molto legato e quindi forse volevi la sicurezza che si raccontasse il "tuo" Tesla senza correre il pericolo di andare fuori tema?

Avrei potuto confrontarmi stilisticamente con il Tesla di The Prestige  di Christopher Nolan, dove Tesla, interpretato da David Bowie, viene rappresentato come un enigmatico scienziato ai limiti della fantascienza, capace di creare invenzioni rivoluzionarie che sfidano i confini della realtà ma che lo trasforma in un simbolo della lotta tra creatività e potere, tra progresso scientifico e interessi economici, rendendolo estremamente attuale.

Oppure ancora con il Tesla  di Michael Almereyda, con Ethan Hawke nel ruolo del protagonista. In questa pellicola, il regista adotta una narrazione sperimentale, mescolando elementi biografici con scelte stilistiche anacronistiche, come l’uso di proiezioni digitali e scene in cui Tesla canta brani pop moderni (Everybody Wants To Rule the Word - Tears for Fears ndr).

L’operazione che io faccio è molto diversa, centrandolo su una storia inventata e ambientandolo a Pavia. Tesla, interpretato da Luigi Cori  incontrerà la fisica Rita Brunetti, interpretata da Chiara Vitti. Brunetti si occupò di spettrografia e diresse l’Istituto di Fisica a Pavia dal 1936 al 1945 e i sui studi coinvolgono nella storia Nikola Tesla in merito al sui Teslascopio uno strano ed eclettico strumento in grado di comunicare con lo spazio…strumento realmente inventato da Tesla ma del quale, come per altre invenzioni non c’è più traccia.

È per questo motivo che ho lavorato direttamente sulla sceneggiatura, proprio per non perdere il filo di questa narrazione fantastica.

 

Beh…a questo punto continua con il racconto senza spoilerare troppo….

Dicevo che Nikola giunto a Pavia, verrà accompagnato dalla sua amica Katharine McMahon Jonhson, poetessa interpretata da Inga Babenko, la quale non riuscirà a convincere il suo amico a dedicarsi a una dimensione sociale, tentando di riportarlo su dimensioni meno visionare. Infatti Tesla inseguendo la sua indole chimerica si porterà in quel di Montesegale per portare a compimento il suo progetto di comunicare con i marziani. In quei giorni Tesla vivrà una fase di confusione tra realtà sperimentale e sogni di aliene, interpretata da Martina Calzavacca,  che comunicano con lui. La storia poi si sposta in un altro contesto lodigiano, tra visite di un investigatore fascista, interpretato da Alessandro Baito, ma ora non vorrei togliere la sorpresa…

Parlaci allora del lavoro che hai fatto con gli attori protagonisti per portarli sulla tua concezione del lavoro e hai lavorato anche sulla colonna sonora?

Fortunatamente in questi anni mi capita spesso di lavorare con gli stessi attori che collaborano con me da parecchio. Questo mi aiuta molto perché mi permette di entrare più in sintonia  con i personaggi che interpreteranno. Poi il lavoro si basa come sempre sul renderli partecipi della sceneggiatura, parlando a lungo con loro anche sui personaggi principali, con informazioni storiche e caratteriali. Trattandosi di un film con forti caratteristiche storiche ci siamo soffermati particolarmente sui costumi d’epoca. Una novità è poi stata quella di reclutare un buon numero di comparse per attenermi a particolari riprese effettuate in un cinema d’epoca. Una sfida che mi ha impegnato molto ma che mi ha permesso di conoscere molte persone. Anche sulla colonna sonora ho voluto dare un’impronta caratteristica rievocando il particolare suono del  theremin  un sintetizzatore elettronico, inventato nel 1920 dal fisico sovietico Lev Sergeevič Termen. In questo caso mi sono avvalso della colonna sonora originale del maestro Massimo Bendinelli e del figlio Vittorio. Non mancano altri contributi musicali eseguiti  dal Quartetto d'archi del Conservatorio "Vittadini" di Pavia con la direzione della musicista Adriana Tataru.

Parliamo di ambientazioni. Dove è stato girato il film e perché proprio queste location?

Ho scelto ambientazioni che potessero rievocare essenzialmente il modus storico del film. Pavia e i suoi scorci storici si prestavano particolarmente per girare alcune scene importanti. Ma non voglio dimenticare alcune situazioni girate al Museo della Tecnica Elettrica, Museo di Storia Naturale KOSMOS di  Pavia, oppure al  Almo Collegio BORROMEO – HORTI di Pavia e ovviamente gli esterni di Montesegale in provincia di Pavia. Tutte queste location mi hanno dato qualcosa di importante, permettendomi di conoscere delle realtà umane che non avrei mai immaginato potessero coesistere. Credo che sia anche questo il fascino di questo lavoro. Approcciarsi con umiltà e curiosità agli ambienti ti permette di cogliere quelle sfumature che speri sempre vengano colte dai tuo spettatori.

Ti occupi sempre della post produzione dei tuoi film. Che problemi particolari ha dovuto affrontare in fase di montaggio, doppiaggio ecc?

Un altro elemento fondamentale nel processo di attualizzazione di un personaggio storico attraverso il cinema è la costruzione di un’estetica visiva e narrativa capace di coinvolgere il pubblico. Tesla è stato spesso rappresentato con un’estetica quasi gotica o steampunk, che sottolinea il contrasto tra il suo genio e il mondo industriale in cui si trovava a operare.

L’uso di luci e ombre, scenografie che evocano il mistero e il potenziale inesplorato della scienza, e una fotografia che alterna toni freddi e caldi contribuiscono a creare un’immagine suggestiva e indelebile del personaggio. Anche la musica gioca un ruolo essenziale: colonne sonore evocative, che mescolano elementi classici e sperimentali, aiutano a trasmettere la complessità del protagonista e il suo rapporto tormentato con il mondo che lo circonda.

Personalmente tendo a non utilizzare effetti particolari quando ho una storia che regge da sé, proprio come in questo caso. Anche per quanto riguarda il suono mi sono avvalso il più possibile alla presa diretta dei dialoghi. Malgrado ciò ho dovuto intervenire sulla post produzione quando nel girato apparivano elementi estranei non coevi  come cartelloni pubblicitari o graffiti sui muri. Ma nel complesso si è trattato di un lavoro ben diverso rispetto a quelli a cui sono abituato , come le ambientazioni fantascientifiche o surreali.

 

Credo che  creatività applicata al linguaggio cinematografico ha il potere di trasformare la storia in un’esperienza viva e significativa per le nuove generazioni. Nel caso di Nikola Tesla, il cinema ha permesso di sottrarlo all’oblio e di restituirlo all’immaginario collettivo come un’icona moderna, capace di incarnare il conflitto tra genio e società, tra innovazione e resistenze culturali. Attraverso la sperimentazione visiva e narrativa, registi e sceneggiatori hanno dimostrato che la storia non è qualcosa di statico, ma può essere reinterpretata e attualizzata per offrire nuove prospettive sul presente. In questo senso, il cinema si conferma non solo come intrattenimento, ma come un potente strumento di riflessione culturale e di riscoperta identitaria e il tuo film si inserisce perfettamente in questo solco.

È proprio quello che spero. La mia intenzione è proprio quella di far riflettere su realtà storiche che possano darci ancora molto.

Veniamo alla promozione del film. Che cosa c’è in campo finora e cosa ti aspetti?

La realizzazione del film sta creando una certa attesa. Già parecchi articoli sono usciti in queste settimane su alcuni quotidiani ma ovviamente è la prima proiezione che ci darà il polso della situazione. Un regista si aspetta sempre che una produzione seria si accorga del film e contribuisca alla sua distribuzione. Detto questo vi aspetto tutti alla prima al cinema POLITEAMA di PAVIA il giorno 24 aprile alle 21. Ricordo che il film ha ricevuto il Patrocinio dei comuni di Pavia e Montesegale.

Bene lascio Giorgio al suo lavoro di allestimento della mostra.

Io credo molto nel suo lavoro di regista e mi attendo sicuramente un ritorno positivo dalla visione di questo ultimo film, che segna un nuovo episodio della sua variegata carriera cinematografica.

 Sono altrettanto sicuro che gli appassionati di storia, scienza e cinema non vedranno l’ora di scoprire come Magarò porterà sullo schermo la vita straordinaria di uno degli scienziati più influenti di tutti i tempi.

Appuntamento per tutti davanti al cinema Politeama di Pavia il 24 aprile alle ore 21.

 

 





giovedì 20 marzo 2025

Sangue: una questione artistica






Il sangue, simbolo ancestrale e universale, ha sempre avuto un ruolo centrale nell’immaginario collettivo e nell’arte. Il suo valore semantico oscilla tra vita e morte, violenza e sacrificio, purezza e contaminazione. Nel corso della storia, il sangue è stato rappresentato come elemento sacrificale nelle religioni, segno di martirio nell’iconografia cristiana, manifestazione di sofferenza nella pittura espressionista, fino a diventare un materiale artistico vero e proprio nell’arte contemporanea. 

Un esempio emblematico di questa evoluzione è la mostra Rosso Vivo. Mutazione, trasformazione e sangue nell’arte contemporanea, curata da Francesca Alfano Miglietti e presentata al PAC di Milano nel 2007. L’esposizione ha esplorato il sangue come metafora della condizione umana, mettendo in dialogo opere di artisti internazionali che hanno utilizzato questo elemento in modi differenti, dalla denuncia sociale alla riflessione sul corpo e la sua fragilità. 

Fin dai tempi antichi, il sangue è stato raffigurato in scene di guerra, sacrificio e redenzione. Nell’arte cristiana medievale, ad esempio, il sangue di Cristo rappresentava la salvezza e la purificazione, un concetto che si estende alle immagini dei martiri e dei santi. Con il Rinascimento, artisti come Caravaggio o Rubens hanno enfatizzato il suo valore drammatico attraverso il realismo delle ferite e dei flussi ematici. 

Con l’arrivo dell’Espressionismo e delle Avanguardie, il sangue ha assunto un significato più psicologico ed esistenziale. Artisti come Egon Schiele e Francis Bacon hanno utilizzato la violenza del colore rosso e la distorsione del corpo per evocare sofferenza e disfacimento. Questo uso drammatico del sangue ha aperto la strada alle sperimentazioni dell’arte contemporanea, in cui il sangue non è solo rappresentato, ma spesso utilizzato fisicamente come materiale espressivo. 

L’arte contemporanea ha reso il sangue un protagonista fisico e concettuale delle opere. A partire dagli anni ‘60 e ‘70, artisti come Hermann Nitsch e il movimento dell’Azionismo Viennese hanno utilizzato il sangue in performance estreme per rappresentare la violenza, il sacrificio e la ritualità. Marina Abramović ha più volte affrontato il tema del sangue come elemento di resistenza fisica e mentale, mentre artisti come Andres Serrano hanno utilizzato il sangue mescolato ad altri fluidi corporei per interrogare la relazione tra sacro e profano. 

In questo contesto si inserisce la mostra Rosso Vivo, che ha esplorato il sangue come simbolo di mutazione e trasformazione, mettendo in evidenza il suo potenziale narrativo ed emotivo. 

Francesca Alfano Miglietti, ha riunito opere di diversi artisti contemporanei, esplorando il sangue nelle sue molteplici sfaccettature: biologico, politico, metaforico ed estetico. L’intento curatoriale era quello di indagare il corpo in trasformazione, la mutazione dell’identità e il sangue come veicolo di memoria e di cambiamento. 

Attraverso una selezione di opere che spaziano dalla pittura alla fotografia, dalla scultura alla video-arte, Rosso Vivo ha affrontato temi come il dolore, la violenza, la bellezza e la transitorietà della vita. La mostra si è distinta per l’uso di immagini forti e spesso disturbanti, che hanno spinto lo spettatore a confrontarsi con la vulnerabilità del proprio corpo.  La mostra  ha sottolineato come il sangue sia profondamente legato ai concetti di mutazione e trasformazione. In molte culture, il sangue è associato al passaggio tra stati diversi dell’esistenza: la nascita, la morte, la crescita, la malattia e la guarigione. Nell’arte contemporanea, il sangue diventa un mezzo per esplorare il cambiamento, sia a livello biologico che simbolico.

 Le opere presenti nella mostra hanno affrontato il sangue da diverse prospettive: alcune hanno evidenziato il suo aspetto viscerale e corporeo, altre lo hanno usato per denunciare questioni politiche e sociali, mentre altre ancora hanno enfatizzato la sua componente estetica e simbolica.

Tra gli artisti presenti nella mostra vi erano nomi di rilievo dell’arte contemporanea, ognuno dei quali ha interpretato il tema del sangue in modo personale: 

- Franko B: Conosciuto per le sue performance estreme, Franko B ha spesso utilizzato il proprio sangue come strumento espressivo, trasformando il dolore fisico in una forma di comunicazione. 

- Adel Abdessemed: Il suo lavoro esplora la violenza e il sangue come simbolo di guerra e conflitto, ponendo l’accento sulle tensioni geopolitiche e sulle ingiustizie sociali.

- Orlan : Artista nota per il suo uso del corpo come medium artistico, ha riflettuto sulla mutazione e sulla trasformazione dell’identità attraverso interventi chirurgici.

- Marc Quinn:  Celebre per le sue sculture realizzate con il proprio sangue congelato, Quinn ha esplorato il rapporto tra corpo, identità e mortalità. 

Credo sia interessante aprire un focus proprio su questo artista e su uno dei sui lavori più iconici. 

L’opera Self di Marc Quinn, realizzata per la prima volta nel 1991, è una scultura realizzata interamente con il sangue congelato dell’artista, modellato per formare un autoritratto a grandezza naturale. Ciò che rende quest’opera straordinaria è il suo significato profondo: non è solo un semplice ritratto, ma un’indagine sull’identità, sul corpo e sulla sua trasformazione nel tempo. Quinn ricrea Self ogni cinque anni, raccogliendo il proprio sangue in modo progressivo fino a raggiungere circa cinque litri, la quantità totale di sangue presente nel corpo umano. 

Questa scelta non è casuale: Self diventa un'opera vivente, capace di rappresentare la condizione mutevole dell’individuo e la sua fragilità. Il Sé, in Quinn, è qualcosa di precario, costantemente in bilico tra permanenza e dissoluzione. L’opera può esistere solo se mantenuta a una temperatura specifica (-18°C), altrimenti si scioglierebbe e perderebbe la sua forma, trasformandosi in una massa informe di sangue liquido. In questa condizione precaria, Quinn trasforma la sua stessa corporeità in un’opera d’arte effimera, suggerendo che l’identità è un fenomeno instabile e condizionato da fattori esterni. 

Qui esploreremo come Self rifletta il concetto di frammentazione del Sé attraverso diverse prospettive: dalla psicoanalisi alla filosofia contemporanea, dalla storia dell’arte alla dimensione biologica e tecnologica dell’identità. 

L’idea che l’identità non sia un’entità fissa, ma un costrutto mutevole e frammentato, è centrale nella psicoanalisi moderna. Sigmund Freud, nel suo modello della psiche, ha introdotto il concetto di un Io costantemente in conflitto con il Super-Io e l’Es, un’identità frammentata tra impulsi inconsci, norme sociali e percezione conscia di sé. 

Successivamente, Jacques Lacan ha ampliato questa visione, suggerendo che l’identità è un processo dinamico, mai completamente stabile, ma costantemente ridefinito attraverso il linguaggio e le interazioni sociali. La famosa teoria dello “stadio dello specchio” di Lacan afferma che il Sé si forma attraverso un’immagine riflessa che il soggetto riconosce come propria, ma che allo stesso tempo rimane estranea e frammentata. 

L’opera Self incarna visivamente questa teoria: il ritratto dell’artista è una rappresentazione di sé, ma non è un’immagine permanente e solida, bensì una materia biologica che rischia di dissolversi. La scultura è un doppio del soggetto, ma allo stesso tempo un'entità fragile e in costante minaccia di autodistruzione. 

 Il sangue è uno degli elementi più significativi dell’opera. Nell’immaginario collettivo, come dicevo, il sangue è associato alla vita, alla mortalità e alla genealogia. La scelta di Quinn di usare il proprio sangue come materiale scultoreo suggerisce che l’identità non è solo una costruzione psicologica o sociale, ma è anche inscritta nella materia biologica. 

L’arte contemporanea ha spesso esplorato il corpo come un archivio dell’identità. Artisti come Orlan, con le sue performance di chirurgia plastica, o Stelarc, con le sue sperimentazioni di fusione tra corpo e tecnologia, hanno interrogato il concetto di un’identità fisica in costante trasformazione. Quinn, a suo modo, porta avanti questa ricerca, suggerendo che il Sé non è un’idea astratta, ma una sostanza concreta che può essere manipolata e plasmata. 

 

In Self, l’identità è ridotta alla sua essenza biologica: la scultura non rappresenta Quinn attraverso un’immagine dipinta o scolpita, ma attraverso la sua stessa materia corporea. Questo solleva domande fondamentali: cosa definisce davvero il Sé? È la nostra immagine esteriore, la nostra storia personale o la nostra composizione biologica? Quinn sembra suggerire che il Sé è tutto questo, ma anche qualcosa di instabile e soggetto alla dissoluzione. 

Uno degli aspetti più radicali di Self è il suo rapporto con il tempo. Tradizionalmente, la ritrattistica ha sempre avuto la funzione di immortalare il soggetto, di renderlo eterno attraverso la pittura o la scultura. Quinn, invece, ribalta questa idea: il suo autoritratto è intrinsecamente effimero, minacciato dalla possibilità di sciogliersi e scomparire. 

Questo introduce una riflessione sul rapporto tra identità e temporalità. Il filosofo Gilles Deleuze ha suggerito che l’identità non è un’entità fissa, ma un processo in continua trasformazione. Per Deleuze, il Sé non è qualcosa che possediamo, ma qualcosa che diviene costantemente attraverso il tempo e l’esperienza. 

In questo senso, Self rappresenta l’identità come qualcosa di dinamico e mutevole. Il fatto che Quinn crei una nuova versione dell’opera ogni cinque anni suggerisce che l’identità non è mai definitiva, ma evolve con il passare del tempo. Ogni nuova versione di Self è un nuovo stato dell’essere dell’artista, un nuovo momento della sua esistenza trasformato in scultura. 

Nella società contemporanea, l’identità è sempre più fluida e frammentata. I social media, la realtà virtuale e le biotecnologie stanno ridefinendo il concetto di Sé, rendendolo sempre più malleabile e soggetto a manipolazione. 

Self può essere visto come una metafora di questa condizione: così come l’identità oggi è influenzata da fattori esterni come la tecnologia e i media, l’opera di Quinn è dipendente dalle condizioni ambientali per esistere. Il suo stato di congelamento può essere interpretato come una condizione di sospensione, simile a quella che viviamo nel mondo digitale, dove le nostre identità sono frammentate tra profili social, avatar virtuali e dati biometrici. 

Inoltre, il fatto che l’opera sia biologicamente legata all’artista introduce un’interessante riflessione sulla biopolitica: chi possiede realmente la nostra identità? Se il sangue stesso diventa opera d’arte, allora il corpo umano può essere considerato un oggetto di mercato? 

L’opera di Marc Quinn è molto più di un semplice autoritratto: è una potente riflessione sulla frammentazione del Sé e sulla sua precarietà. Attraverso l’uso del sangue congelato, Quinn ci mostra un’identità che non è stabile, ma sempre a rischio di dissolversi. 

In un mondo in cui la tecnologia e la biologia stanno ridefinendo il concetto di identità, Self appare più attuale che mai. Ci costringe a confrontarci con la nostra stessa condizione di esseri umani: temporanei, mutevoli e sempre in bilico tra permanenza e trasformazione. 

 




martedì 11 marzo 2025

La Zona come reliquia dello spirito: un’analisi liminale di Stalker

 




Nel cinema di Andrej Tarkovskij, i luoghi non sono mai semplici scenografie, ma diventano spazi simbolici, carichi di spiritualità e memoria.

In Stalker ( 1979), la Zona è uno spazio proibito e inaccessibile ai più, circondato da filo spinato e sorvegliato da un governo che ne vieta l'ingresso. Si dice che in questo luogo esistano leggi fisiche sconosciute e che al suo interno vi sia una stanza capace di esaudire i desideri più profondi di chi vi entra. Lo Stalker , il protagonista, è una guida che porta due uomini, lo Scrittore e il Professore, all'interno della Zona, affrontando il pericolo per condurli verso questa misteriosa stanza.

Luogo liminale, poiché si colloca in uno spazio intermedio tra il reale e l'irreale, tra il mondo ordinario e un altro di natura sconosciuta. Il suo stesso funzionamento è instabile: le regole dello spazio e del tempo si alterano, i percorsi cambiano e il viaggio diventa un'esperienza interiore più che un semplice spostamento fisico. Territorio di metamorfosi, un passaggio tra la realtà materiale e quella spirituale.

La Zona si presenta come un luogo sospeso tra realtà e mistero: non è solo un luogo fisico, ma un simbolo della ricerca interiore e della trasformazione spirituale. In questo senso, il concetto di liminalità si intreccia con quello di misticismo. Il personaggio dello Stalker è una figura quasi sacerdotale, un intermediario tra il mondo ordinario e una dimensione superiore. Egli guida i viaggiatori attraverso un percorso che ricorda il pellegrinaggio religioso, in cui il superamento di prova porta a una possibile rivelazione.

 Ma può essere anche letta come una reliquia dello spirito, un territorio sacro che conserva tracce di una presenza trascendente. 

Il concetto di reliquia è tradizionalmente associato a oggetti sacri che mantengono un legame con una divinità o con eventi passati. Tuttavia, possiamo estenderlo ai luoghi: certi spazi conservano un’aura di sacralità e diventano punti di contatto tra il visibile e l’invisibile. In questo saggio, esploreremo come la Zona di Stalker possa essere interpretata come una reliquia dello spirito, un luogo che trattiene un’energia oltre il tempo e la materia, e come questa lettura si intrecci con la sua natura liminale. 

 La Zona come reliquia: traccia di un passato sconosciuto 

La Zona è descritta nel film come un luogo inaccessibile e pericoloso, creato da un evento ignoto (forse un impatto extraterrestre o un esperimento fallito). Essa rappresenta un territorio altro, dove la realtà ordinaria si dissolve e dove rimangono solo rovine e segni enigmatici. 

Questa caratteristica la avvicina al concetto di reliquia: 

- Una reliquia è ciò che resta di un passato sacro o straordinario. La Zona, con le sue strutture abbandonate e i suoi oggetti lasciati a marcire, conserva la memoria di un evento fuori dall’ordinario. Anche se non sappiamo cosa sia accaduto, il luogo stesso ne è la testimonianza. 

- Le reliquie emanano un potere invisibile. La Zona non è solo uno spazio fisico, ma sembra possedere un’essenza propria: le sue leggi sfidano la logica, le strade cambiano, e l’ambiente reagisce in modi misteriosi. Come le reliquie sacre che si crede possano guarire o conferire benedizioni, la Zona ha un effetto trasformativo su chi vi entra. 

- Le reliquie sono spesso proibite o difficili da raggiungere. Nel Medioevo, i pellegrini affrontavano lunghi viaggi per vedere una reliquia sacra. Allo stesso modo, in Stalker, l’accesso alla Zona è vietato dal governo e solo gli Stalker possono condurre i viaggiatori al suo interno. 

In questo senso, la Zona non è solo uno spazio liminale, ma anche un luogo impregnato di un’energia spirituale latente, un frammento di un mondo altro che continua a influenzare il presente. 

La Stanza dei Desideri: reliquia dell’anima 

Il cuore della Zona è la leggendaria Stanza dei Desideri, un luogo che si dice possa esaudire il desiderio più profondo di chi vi entra. Questa stanza si configura come l’essenza della reliquia: 

- È un punto di contatto tra il terreno e il trascendente. Come un’icona sacra o una reliquia cristiana, la Stanza è avvolta da un’aura di mistero e potere. Essa non è un oggetto tangibile, ma una promessa, un’interfaccia con qualcosa di superiore. 

- Non è controllabile dalla razionalità. La Stanza non obbedisce ai desideri consci, ma a quelli più profondi e inconfessati. Questo la rende simile agli oggetti sacri che si crede agiscano secondo una volontà divina, al di fuori della comprensione umana. 

- I pellegrini che vi giungono sono posti di fronte a una rivelazione. Come nei viaggi spirituali, chi arriva alla Stanza deve confrontarsi con la verità su se stesso. Il Professore e lo Scrittore, giunti alla soglia, esitano: il timore di ciò che la Stanza potrebbe rivelare è più forte della speranza di ottenere ciò che vogliono. 

La Stanza è dunque il nucleo sacro della Zona, un luogo che custodisce il mistero dell’anima e che, come una reliquia, può trasformare chi la incontra, ma solo se questi è disposto ad accettarne il potere. 

 Il viaggio nella Zona come pellegrinaggio spirituale 

Se la Zona è una reliquia e la Stanza il suo altare, il viaggio intrapreso dai protagonisti diventa una sorta di pellegrinaggio mistico. Lo stesso Stalker assume il ruolo di una guida spirituale, una figura simile ai monaci che accompagnavano i fedeli nei luoghi sacri. 

Il percorso dei viaggiatori nella Zona rispecchia le fasi del pellegrinaggio medievale: 

Partenza dal mondo profano: I protagonisti abbandonano la città grigia e oppressiva, simbolo della vita quotidiana priva di significato. 

Attraversamento del territorio sacro: Nella Zona devono abbandonare la loro razionalità e affidarsi a nuove regole. Ogni passo diventa un atto di fede. 

Arrivo alla reliquia:  Giunti alla Stanza, si trovano di fronte alla possibilità della trascendenza, ma anche alla paura del cambiamento interiore. 

Questa struttura narrativa ricalca i grandi racconti di trasformazione spirituale, come La Divina Commedia o Il viaggio dell’eroe di Joseph Campbell. 

La reliquia come memoria e fede

La Zona non è solo un luogo di mistero e
potere, ma anche un archivio della memoria, un luogo che trattiene le tracce di ciò che è stato. Tarkovskij, nel suo cinema, esplora spesso il tema della memoria come elemento spirituale: ciò che rimane di un evento passato continua a influenzare il presente.  La Zona è un tipico esempio di luogo liminale, poiché si colloca in uno spazio intermedio tra il reale e l'irreale, tra il mondo ordinario e un altro di natura sconosciuta. Il suo stesso funzionamento è instabile: le regole dello spazio e del tempo si alterano, i percorsi cambiano e il viaggio diventa un'esperienza interiore più che un semplice spostamento fisico. La Zona è un territorio di metamorfosi, un passaggio tra la realtà materiale e quella spirituale.

Le reliquie hanno questa stessa funzione: esse sono pezzi di un tempo trascorso, ma il loro significato non è nel passato, bensì nella loro capacità di evocare un’esperienza spirituale nel presente. 

Alla fine del film, lo Stalker esprime la sua disperazione: i viaggiatori non credono più nella Zona, e senza fede, il suo potere sembra svanire. Questo riflette un problema profondo: le reliquie non hanno significato se non sono accompagnate dalla fede di chi le osserva. La Zona non è un luogo magico di per sé, ma diventa sacra solo per coloro che sono disposti a credere. 

Stalker è un film che trasforma il concetto di luogo in un’esperienza metafisica. La Zona non è solo uno spazio liminale, ma anche una reliquia dello spirito, un frammento di un’altra dimensione che sopravvive nel presente. 

Tarkovskij ci invita a riflettere sulla necessità di fede, sulla natura della trasformazione interiore e sul valore dei luoghi che conservano un’energia spirituale. Come le reliquie nel mondo religioso, la Zona non dà risposte, ma pone domande: che cosa desideriamo davvero? Abbiamo il coraggio di affrontare la nostra verità interiore? 

In questo senso, Stalker non è solo un viaggio attraverso un luogo misterioso, ma un pellegrinaggio nell’anima dell’uomo. E come ogni reliquia autentica, la Zona non può essere compresa pienamente con la logica: il suo significato esiste solo per chi è pronto ad accoglierlo. 

mercoledì 5 marzo 2025

L'urlo di Munch e il grido della Terra: un'analisi dei cambiamenti climatici attraverso l'arte






 Tra le opere più iconiche e inquietanti della storia, L’urlo di Edvard Munch (1893) rappresenta un’espressione viscerale di ansia e terrore esistenziale. Il volto stravolto della figura centrale, il cielo infuocato e le linee ondulate dell’ambiente circostante evocano un senso di disagio profondo, che oggi può essere riletto anche alla luce delle sfide ambientali contemporanee. 

Se nel XIX secolo L’urlo era il riflesso della crisi esistenziale e dell’alienazione dell’uomo moderno, oggi esso potrebbe simboleggiare il grido soffocato della Terra di fronte ai cambiamenti climatici. L’atmosfera apocalittica del dipinto, con i suoi colori accesi e il senso di distorsione, risuona con l’attuale emergenza climatica, caratterizzata da eventi estremi, scioglimento dei ghiacciai e perdita di biodiversità. In questo saggio, analizzeremo come L’urlo possa essere interpretato come una premonizione artistica del disastro ecologico e come la crisi climatica stia generando un nuovo tipo di ansia global

 L’urlo di Munch: un’angoscia senza tempo

Munch descrisse la genesi del suo capolavoro in un diario:

"Camminavo lungo un sentiero con due amici – il sole stava tramontando – il cielo si tinse all'improvviso di rosso sangue – mi fermai, mi appoggiai stanco a un recinto – sul fiordo neroazzurro e sulla città c’erano sangue e lingue di fuoco – i miei amici continuarono a camminare e io tremavo ancora di paura – e sentii che un grande urlo infinito pervadeva la natura."

Questo passaggio rivela come il dipinto sia nato da un’esperienza reale di ansia e fragilità, quasi una premonizione di un mondo in pericolo. Il cielo rosso fuoco potrebbe essere associato ai moderni incendi boschivi che devastano foreste e città in tutto il mondo, dal Canada all’Australia. L’aria pesante e soffocante, descritta da Munch, oggi potrebbe evocare lo smog soffocante delle metropoli moderne o la sensazione di impotenza di fronte all’emergenza climatica. 

L’urlo, quindi, non è solo un grido individuale, ma un richiamo universale che trova un nuovo significato nel contesto della crisi ambientale. 

 Il cambiamento climatico: un urlo soffocato dalla società

Il XXI secolo è segnato da una crisi climatica senza precedenti. L’aumento delle temperature globali, lo scioglimento dei ghiacciai e l’innalzamento del livello del mare stanno alterando il delicato equilibrio del nostro pianeta. Tuttavia, proprio come i due amici di Munch che proseguono il loro cammino ignorando la sofferenza del protagonista, anche la società moderna spesso ignora il grido della Terra. 

Nonostante gli appelli degli scienziati, dei movimenti ambientalisti e delle giovani generazioni, l’azione globale per fermare il riscaldamento globale è ancora insufficiente. L’indifferenza e l’inerzia politica ricordano la sensazione di alienazione espressa nel dipinto di Munch: una paura che immobilizza, un’angoscia che non trova risposta. 

Inoltre, l’ansia climatica sta diventando una condizione diffusa tra i giovani. Il timore di un futuro segnato da disastri ambientali e risorse esaurite sta creando un nuovo tipo di disagio psicologico. Come nell’opera di Munch, il grido interiore di chi percepisce la gravità della situazione rischia di restare inascoltato. 

 L’arte come specchio della crisi climatica

Molti artisti contemporanei stanno affrontando la questione ambientale con opere che denunciano l’emergenza climatica. Dalla Land Art, che utilizza la natura come mezzo espressivo, alle installazioni digitali che mostrano la devastazione ambientale, l’arte continua a essere uno strumento potente per sensibilizzare il pubblico. 

Un esempio significativo è Ice Watch di Olafur Eliasson, un’installazione in cui blocchi di ghiaccio prelevati dall’Artico vengono posizionati nelle città per far percepire concretamente il fenomeno dello scioglimento dei ghiacci. Quest’opera, come L’urlo, trasmette un senso di urgenza e vulnerabilità, mostrando come la natura stessa stia lanciando un grido d’allarme. 

Anche L’urlo può essere reinterpretato in chiave ecologica: l’angoscia espressa nel dipinto può rappresentare il dolore della natura, l’agonia delle specie in via di estinzione e la paura collettiva per un futuro incerto. 

 Possiamo ancora fermare l’urlo della Terra? 

Se L’urlo esprime un senso di impotenza e inevitabilità, la crisi climatica attuale non deve necessariamente condurci alla rassegnazione. La scienza offre ancora soluzioni per mitigare i danni: dalla transizione verso energie rinnovabili alla riforestazione, dall’economia circolare alla riduzione delle emissioni di CO₂. 

L’arte e la cultura possono svolgere un ruolo fondamentale nella sensibilizzazione del pubblico, trasformando l’ansia climatica in azione concreta. Come Munch ha espresso il suo tormento interiore attraverso la pittura, oggi possiamo canalizzare la nostra preoccupazione per il pianeta in azioni individuali e collettive che facciano la differenza. 

Il cielo rosso di L’urlo può ancora schiarirsi: il destino della Terra dipende dalle scelte che faremo nei prossimi anni. 


 


 



domenica 2 marzo 2025

Solitudine e silenzio: un confronto tra Edward Hopper, Vilhelm Hammershøi e Francesca Woodman

 

 



 



Il tema della solitudine è una costante nell’arte di ogni epoca, ma pochi artisti hanno saputo tradurlo con la stessa intensità visiva ed emotiva di Edward Hopper, Vilhelm Hammershøi e Francesca Woodman. Pur appartenendo a contesti storici, geografici e mediatici differenti-Hammershøi operava nella Danimarca di fine Ottocento, Hopper nell’America del Novecento, e Woodman nel panorama della fotografia contemporanea- tutti e tre hanno saputo rendere la solitudine umana un’esperienza visiva potente e universale.

Se nei dipinti di Hammershøi la solitudine è un’esperienza contemplativa e silenziosa, in Hopper diventa una condizione imposta dalla società moderna. Nelle fotografie di Woodman, invece, la solitudine assume un carattere psicologico ed esistenziale, trasformandosi in un’esperienza di smarrimento e dissoluzione dell’identità. Qui si analizzerà le affinità e le differenze tra questi artisti, mettendo in luce le loro strategie formali e concettuali per rappresentare l’isolamento umano.

 Il contesto storico e culturale della solitudine

Per comprendere come questi tre artisti abbiano esplorato la solitudine, è fondamentale analizzare il contesto in cui hanno operato.

  • Vilhelm Hammershøi (1864-1916): il silenzio della borghesia scandinava
    La Danimarca di fine Ottocento e inizio Novecento era caratterizzata da una cultura introspettiva, influenzata dal simbolismo e dalla tradizione nordica della malinconia. Hammershøi fu profondamente influenzato dalla pittura olandese del XVII secolo, in particolare da Vermeer e Rembrandt, ma reinterpretò la loro luce e i loro interni in chiave più rarefatta e spettrale. Le sue opere trasmettono un senso di solitudine esistenziale, dove il tempo sembra sospeso e il silenzio diventa quasi tangibile.
  • Edward Hopper (1882-1967): la solitudine della modernità americana
    La società americana del XX secolo, con la sua urbanizzazione rapida e la crescente alienazione dell’individuo, influenzò profondamente Hopper. Le sue opere sono lo specchio di un mondo in cui le connessioni umane si fanno sempre più labili, e le figure nei suoi dipinti, pur essendo circondate da altri, sembrano profondamente sole. La sua visione della solitudine è legata all’anonimato delle città, agli spazi pubblici trasformati in non-luoghi e all’impossibilità di una vera comunicazione.
  • Francesca Woodman (1958-1981): la solitudine dell’identità e della memoria
    Lavorando nel contesto della fotografia sperimentale e concettuale, Woodman esplora la solitudine in modo più intimo e psicologico. Cresciuta in un ambiente artistico, la sua fotografia è intrisa di riferimenti alla storia dell’arte, dal surrealismo ai pittori fiamminghi. La sua solitudine non è solo esistenziale, ma anche identitaria: nei suoi autoritratti, il corpo si dissolve, si frammenta, diventa evanescente. La sua fotografia è un’indagine sulla vulnerabilità e sulla transitorietà dell’essere.

  Lo spazio come metafora della solitudine

Uno degli elementi centrali nell’opera di questi artisti è l’uso dello spazio per evocare solitudine, silenzio e isolamento.

  • Gli interni chiusi e rarefatti di Hammershøi
    Le stanze dipinte da Hammershøi sono ambienti spogli, silenziosi e dominati da una luce tenue che entra dalle finestre. Gli spazi sembrano privi di tempo, come sospesi in un’atmosfera di attesa indefinita. Le pareti vuote e i pochi arredi (sedie vuote, porte socchiuse, pianoforti chiusi) diventano simboli dell’assenza e dell’incomunicabilità.
  • Gli spazi urbani e anonimi di Hopper
    Al contrario di Hammershøi, Hopper rappresenta la solitudine negli spazi pubblici: bar, stazioni di servizio, hotel. Il suo capolavoro Nighthawks (1942) è l’emblema di questa visione: i personaggi sono vicini fisicamente, ma emotivamente distanti. La vetrata che separa l’interno del diner dalla strada accentua il senso di isolamento. Anche negli interni domestici, i suoi personaggi appaiono intrappolati in stanze anonime e impersonali.
  • Gli spazi in dissoluzione di Woodman
    Se in Hammershøi e Hopper lo spazio è statico e definito, in Woodman è instabile e frammentato. I suoi interni sono spesso luoghi decadenti, con pareti scrostate e superfici irregolari. La figura umana sembra quasi fondersi con l’ambiente, come se fosse sul punto di scomparire. Le sue fotografie trasmettono un senso di impermanenza e fragilità, dove il corpo diventa un elemento effimero e transitorio.

 


La figura umana: presenza, assenza e dissoluzione

  • Hammershøi: la figura immobile e distaccata
    Nei suoi dipinti, le figure sono quasi sempre viste di spalle o rivolte verso una finestra. Questa scelta elimina ogni possibilità di contatto visivo con lo spettatore, rendendo i soggetti ancora più inaccessibili. Non sono individui definiti, ma archetipi della solitudine.
  • Hopper: la figura isolata nel contesto urbano
    I suoi personaggi, pur essendo dettagliati e riconoscibili, sembrano prigionieri della loro solitudine. Anche quando sono in coppia o in gruppo, appaiono incapaci di comunicare tra loro. La loro postura e il loro sguardo trasmettono un senso di malinconia e alienazione.
  • Woodman: la figura in dissoluzione
    La fotografa porta la solitudine a un livello più estremo, frammentando il corpo e rendendolo quasi fantasmatico. L’uso dell’autoscatto e della lunga esposizione crea immagini in cui il soggetto appare sfocato, come se fosse in bilico tra presenza e assenza.

 

4. La luce e il colore come strumenti espressivi della solitudine

  • Hammershøi utilizza una luce morbida e diffusa, che contribuisce a creare un’atmosfera di silenzio e sospensione. La sua palette cromatica è ridotta a toni di grigio, bianco e beige.
  • Hopper lavora con contrasti più marcati tra luce e ombra. La sua luce è spesso artificiale, fredda, tagliente, e sottolinea il senso di alienazione dei personaggi.
  • Woodman usa la luce in modo evanescente, spesso lasciando che il soggetto si confonda con l’ambiente. Il bianco e nero delle sue fotografie amplifica la sensazione di irrealtà e fragilità.

 

In conclusione: tre visioni complementari della solitudine

Nonostante le differenze stilistiche e concettuali, Hammershøi, Hopper e Woodman esplorano la solitudine in modi profondamente affini.

  • Hammershøi rappresenta una solitudine contemplativa e silenziosa.
  • Hopper mostra la solitudine come una condizione imposta dalla società moderna.
  • Woodman trasforma la solitudine in una crisi d’identità e di esistenza.

Ognuno di loro, con il proprio linguaggio, ha saputo dar voce a un’esperienza universale, rendendo la solitudine un tema senza tempo, capace di risuonare ancora oggi con straordinaria forza emotiva.

 

martedì 18 febbraio 2025

Impermanenza, Wabi-Sabi e Anselm Kiefer: la bellezza della rovina nell' Arte Contemporanea

 



 L’installazione di Anselm Kiefer  “I Sette Palazzi Celesti” ospitati stabilmente presso l’Hangar Bicocca di Milano - si ispira ai sette palazzi descritti nello Sefer Hechalot un antico testo esoterico ebraico che narra del viaggio dell’anima attraverso sette livelli di conoscenza fino a raggiungere il divino. 

Tuttavia, le torri di Kiefer non appaiono come strutture eterne e perfette, ma piuttosto come rovinate, incomplete, fragili. Forse la sua opera più iconica - gigantesca installazione di torri di cemento e piombo- evoca anche le rovine industriali e le civiltà scomparse e offre una profonda meditazione sull'impermanenza. Profondamente legata al concetto buddhista mujō, secondo cui nulla è eterno e ogni cosa è destinata a trasformarsi, questa astrazione è radicata soprattutto nel pensiero estetico buddhista zen.

Questa estetica si manifesta in molte espressioni della cultura giapponese, dalla cerimonia del tè alla ceramica raku, dalla poesia haiku alla pittura sumi-e: tutte manifestazioni artistiche accumunate dal concetto profondo del  Wabi-Sabi. Il concetto di Wabi-Sabi è intrinsecamente legato all’impermanenza. Il termine deriva da due parole giapponesi:

- Wabi, che originariamente indicava la solitudine e la semplicità, ma che nel tempo ha acquisito una connotazione di bellezza austera e profonda spiritualità.

- Sabi, che si riferisce al passare del tempo e alla patina che questo lascia sugli oggetti, rendendoli più preziosi proprio in virtù della loro età e decadimento.

 Nel Wabi-Sabi, ciò che è incompleto o deteriorato non viene visto come difetto, ma come parte essenziale della bellezza stessa. Un esempio è la pratica del kintsugi, la riparazione degli oggetti rotti con l’oro, che enfatizza le crepe anziché nasconderle.

Così le crepe di un vaso, le sfumature di un muro invecchiato, le foglie ingiallite in autunno non sono segni di degrado, ma di un’armonia più profonda con il ciclo naturale dell’esistenza.

Per tornare all’installazione di Anselm Kiefer  queste torri, apparentemente instabili e segnate dal tempo, incarnano in un certo senso la stessa filosofia del Wabi-Sabi:

- Imperfezione: le strutture non sono lisce né simmetriche, ma segnate da fratture e sbilanciamenti.

-Transitorietà: il cemento e il piombo non sono materiali immutabili; al contrario, si deteriorano, assumono nuove patine e si modificano nel tempo.

- Natura incompleta: le torri sembrano ruderi di un’antica città, non costruzioni finite, suggerendo un senso di fragilità e precarietà.

Le torri di Kiefer non cercano la solidità, ma abbracciano la rovina come condizione inevitabile dell’esistenza umana e l’imperfezione diventa bellezza e significato.

Kiefer adotta un approccio simile, scegliendo materiali destinati a deteriorarsi:

- Il piombo, pesante, opprimente, ma anche malleabile, quasi vivo nella sua trasformazione che ossida e cambia colore, è uno dei suoi elementi distintivi.

- Il cemento, grezzo e incompiuto, evoca la precarietà delle costruzioni umane e il loro inevitabile declino.

- La cenere, utilizzata in molte sue opere, simboleggia il passaggio del tempo e la distruzione che porta alla rinascita.

Come nel Wabi-Sabi, questi materiali non sono scelti per la loro durata, ma per la loro capacità di raccontare il tempo e il decadimento: essi non cercano la perfezione, ma testimoniano la transitorietà dell’umanità e della sua aspirazione verso il trascendente. 
Kiefer utilizzando materiali che si deteriorano nel tempo, sottolinea la precarietà della memoria e il peso della storia e della memoria collettiva, spesso legate alla Seconda Guerra Mondiale e alla distruzione della cultura europea.

Ma invece di rappresentare il passato in modo statico, Kiefer lo trasforma in un processo continuo di erosione e rinascita, come fa la natura con gli oggetti esposti agli elementi, rappresentando anche la possibilità di una rinascita attraverso la conoscenza e l’arte. 

Nel mondo contemporaneo, dove la tecnologia e l’arte digitale tendono a cancellare le tracce del tempo, il Wabi-Sabi e l’opera di Kiefer ci ricordano che la bellezza più autentica è quella che porta i segni del vissuto. La vera arte non è ciò che sfida il tempo, ma ciò che lo accoglie e lo celebra, trasformando la fragilità in forza, la rovina in poesia.

sabato 8 febbraio 2025

Santa Teresa d’Avila e Nick Cave


 


Erotismo mistico e trascendenza estatica, perdita dell’equilibrio e spazi di dolore: Santa Teresa d’Avila e Nick Cave in una performance sospesa tra il sacro e il profano.

Tenterò di tracciare un arduo accostamento tra la rappresentazione della santa del  Bernini e il songwriter Nick Cave, inerpicandomi tra argomenti quali il sacro e il profano, l’estasi e l’inferno, il misticismo e l’erotismo.

La celebre statua di Santa Teresa d’Avila in estasi, scolpita da Gian Lorenzo Bernini tra il 1647 e il 1652, rappresenta uno dei vertici del barocco italiano e incarna alla perfezione il legame tra misticismo ed erotismo sacro. Quest’opera, situata nella Cappella Cornaro della Chiesa di Santa Maria della Vittoria a Roma, secondo me è un capolavoro che unisce nel contempo dinamismo, teatralità e un’intensa carica emotiva. Tuttavia, ciò che rende questa scultura oggetto di dibattito e fascino è la sua ambiguità espressiva, che oscilla tra l’estasi mistica e una sensualità quasi carnale. 

Il contesto storico e spirituale dell’estasi di Santa Teresa 

Per comprendere appieno l’opera di Bernini, è fondamentale analizzare il retroterra culturale e religioso che la ispira. Santa Teresa d’Avila (1515-1582) è una delle figure più importanti della mistica cristiana e della riforma carmelitana. La sua esperienza spirituale è caratterizzata da **visioni divine, estasi e momenti di intensa comunione con Dio**. 

L’episodio raffigurato da Bernini si basa su un passaggio dell’ "Autobiografia" di Santa Teresa, in cui descrive un’esperienza mistica straordinaria: 

"Vedevo accanto a me un angelo… piccolo ma bellissimo, con il viso illuminato da una luce straordinaria. Nella sua mano teneva una lancia d’oro con una punta di fuoco, che mi trapassava il cuore più volte. Il dolore era così intenso che mi fece gemere, ma allo stesso tempo provavo una dolcezza immensa… Non avrei mai voluto che quel dolore cessasse." 

Le parole della santa evocano un’esperienza che mescola sofferenza e piacere, dolore fisico e gioia suprema, in un linguaggio che ha evidenti richiami erotici. Questo tipo di estasi è comune nella mistica medievale e barocca, dove il rapporto tra l’anima e Dio è spesso descritto con metafore amorose e persino sessuali, sulla scia del Cantico dei Cantici. 

Il Bernini e l'estetica dell'estasi: sensualità e spiritualità 

Bernini traduce questa visione mistica in una scultura che colpisce per la sua straordinaria espressività. Santa Teresa è rappresentata sdraiata su una nuvola, con il capo rovesciato all’indietro, la bocca leggermente aperta e gli occhi semichiusi. Il suo corpo sembra abbandonato a un piacere irresistibile, mentre l’angelo, con un’espressione serena e quasi giocosa, la trafigge con un dardo dorato. 

La composizione dell’opera è estremamente teatrale: il movimento fluido delle vesti della santa sembra suggerire un’energia interiore, un tumulto che va oltre la dimensione puramente estatica per toccare la sensualità del corpo. Il panneggio, scolpito con incredibile maestria, avvolge e allo stesso tempo nasconde il corpo della santa, creando un contrasto tra il peso fisico della materia e la leggerezza dell’estasi spirituale. 

L’uso della luce gioca un ruolo fondamentale: il gruppo scultoreo è illuminato da una fonte di luce nascosta, proveniente dall’alto, che simula un’illuminazione divina. Questo escamotage accentua l’effetto di trascendenza e rende l’esperienza della santa ancora più intensa e soprannaturale. 

Erotismo sacro e mistica cristiana: un confine labile 

L’ambiguità dell’espressione di Santa Teresa e la dinamica del suo corpo hanno portato molti critici a vedere in questa scultura un evidente riferimento all’erotismo sacro. Il volto della santa, con il suo abbandono totale, può essere interpretato come un riflesso di un’esperienza orgasmica, un culmine di piacere che richiama l’unione mistica con Dio.

- Il volto è contorto nel piacere e nel dolore, con la bocca leggermente aperta in una posa che può evocare il culmine del desiderio. 

- Il corpo è privo di controllo, le vesti sembrano suggerire un movimento interno, un’energia che scorre attraverso di lei. 

- L’angelo che la trafigge ha un’espressione dolce, quasi amorosa, sottolineando la fusione tra divino ed erotico. 

L’esperienza mistica di Santa Teresa, descritta nei suoi scritti con un linguaggio che mescola il divino all’erotico, si fonda proprio su questa tensione: il piacere spirituale è così intenso da essere paragonabile all’estasi fisica.

Nel misticismo cristiano, il linguaggio dell’amore umano è spesso usato per descrivere l’incontro con il divino. Già nel Medioevo, santi e sante parlavano del loro rapporto con Dio con immagini che rimandano all’amore coniugale o all’esperienza erotica. San Giovanni della Croce, contemporaneo di Santa Teresa, descriveva l’unione mistica con Dio come una “notte di nozze” dell’anima, mentre Santa Caterina da Siena parlava del suo matrimonio spirituale con Cristo in termini di intimità profonda. 

Il Bernini, con il suo genio barocco, amplifica questa dimensione, creando un’opera che non solo commuove, ma sconvolge lo spettatore, mettendolo di fronte a una rappresentazione che fonde il carnale e il divino, il dolore e il piacere e ci indica che la sua carica sensuale non sminuisce la dimensione spirituale, ma anzi la esalta, suggerendo che l’unione con Dio è un’esperienza totale, che coinvolge l’essere umano nella sua interezza.

Questo capolavoro rimane una delle opere più affascinanti della storia dell’arte proprio perché lascia aperta la questione: è una scena di amore mistico o di piacere terreno? O forse entrambe le cose? La risposta, come nell’arte e nella fede, rimane forse solo aperta all’interpretazione di chi osserva.

Ed è per questo motivo che mi permetto di accostare un altro linguaggio artistico che secondo me si interseca perfettamente in questa dimensione della libera e cangiante dimensione della creatività profonda e sensibile.

L'estasi mistica raffigurata nella celebre scultura  e il linguaggio oscuro, passionale e spirituale di Nick Cave sembrano appartenere a mondi lontanissimi. Da un lato, un capolavoro del barocco, scolpito nella fredda pietra, che esprime il vertice dell'arte sacra; dall'altro, un artista rock e songwriter, noto per le sue ballate gotiche e il suo immaginario tormentato. Eppure, uno sguardo più attento, emergono sorprendenti affinità tematiche e simboliche : entrambi esplorano il confine tra sacro e profano, amore e sofferenza, estasi e tormento .

L'estasi e la passione: un'esperienza carnale e spirituale

Nella statua del Bernini , Santa Teresa d'Avila è ritratta, dicevo, in un momento di abbandono totale, colta tra il piacere e il dolore, mentre l'angelo le trafigge il cuore con un dardo infuocato. Questo tipo di esperienza – mistica, ma con una fortissima carica sensuale – è centrale anche nella poetica di Nick Cave , il quale nei suoi testi esplora la tensione tra il desiderio terreno e la ricerca di una redenzione spirituale.

Un esempio perfetto è il brano "Into My Arms" (1997), dove Cave canta una preghiera d'amore che oscilla tra la fede e il dubbio:

"I don’t believe in an interventionist God 

But I know, darling, that you do" 

"Non credo in un Dio interventista
ma so,

tesoro, che tu sì"

Cave qui mette in discussione la presenza divina, ma allo stesso tempo si lascia andare a un amore che ha i tratti di una devozione quasi religiosa. Proprio come Santa Teresa è trafitta dall'angelo, Cave sembra "trafitto" dal sentimento, sospeso tra il sacro e il profano.

Allo stesso modo, in "Jubilee Street" (2013), la passione carnale si trasforma in un'esperienza di purificazione:

"I am beyond recrimination  

I’m just a little bit afraid of you  

Because I’m beyond rehabilitation  

 

"Sono al di là delle recriminazioni,
ho solo un po' paura di te
perché sono al di là della riabilitazione"

 

Qui, il protagonista attraversa un'esperienza di redenzione attraverso il peccato , un concetto molto vicino alla mistica cristiana, dove il dolore e il piacere convivono in un'unica estasi trasformativa.

Il dolore come porta d'accesso al divino

Se Santa Teresa prova un piacere sovrannaturale nel momento in cui viene trafitta dal dardo dell'angelo, in molte canzoni di Nick Cave il dolore diventa il mezzo per raggiungere una verità superiore . Un esempio potente è "The Mercy Seat" (1988), un brano ispirato alla pena di morte, ma carico di riferimenti biblici. Il protagonista attende l'esecuzione proclamando la sua innocenza (o forse la sua redenzione), evocando immagini di sacrificio e purificazione:

"E il trono della misericordia sta aspettando
E penso che la mia testa stia bruciando
E in un certo senso desidero ardentemente
Di aver finito con tutta questa misurazione della verità"

La tensione tra peccato e salvezza, tra sofferenza e liberazione, è il cuore pulsante di questo brano, e richiama il misticismo cristiano in cui il dolore terreno si trasforma in un'esperienza di elevazione spirituale. Lo stesso accade nella scultura di Bernini: l'estasi della santa non è separabile dal dolore della trafittura, e proprio in questa contraddizione avviene il contatto con il divino.

La teatralità del sacro: Bernini e il "performer" Nick Cave

Un altro punto di contatto tra i due artisti è l'uso della teatralità . Bernini, maestro del barocco , non si limita a scolpire la statua di Santa Teresa, ma crea un'intera scenografia: la Cappella Cornaro è concepita come un palcoscenico, con gli spettatori scolpiti nelle tribune laterali, quasi a sottolineare che l'estasi mistica è anche un atto da osservare.

Analogamente, Nick Cave è un performer carismatico , capace di trasformare i suoi concerti in vere e proprie rappresentazioni rituali. Sul palco, Cave incarna spesso una figura profetica, che alterna momenti di dolcezza estrema a esplosioni di energia selvaggia. Come Bernini, usa l'arte per trascinare lo spettatore in una dimensione quasi ultraterrena, dove la musica diventa un'esperienza spirituale e sensuale allo stesso tempo.

Sia in Bernini che in Nick Cave, il rapporto con il divino è sempre intriso di desiderio . Santa Teresa, nel suo linguaggio ardente, descrive Dio come un amante che la consuma. Cave, nelle sue canzoni, si rivolge spesso a Dio con il tono di un innamorato abbandonato, come in "God Is in the House" (2001), dove canta un mondo in cui Dio è presente, ma irraggiungibile:

"Dio è nella casa
Oh, vorrei che uscisse"

Qui sembra quasi che il rapporto con la divinità è carico di frustrazione e di attesa, un desiderio che ricorda la tensione erotica dell'estasi di Santa Teresa: un amore che arde, ma che non si consuma mai completamente.

 

In definitiva, il confronto tra Santa Teresa del Bernini e Nick Cave mostra come la dimensione mistica ed erotica siano inscindibili quando si parla di spiritualità profonda. Entrambi esplorano un rapporto con il divino che non è mai pacifico, ma sempre carico di tensione: un'esperienza che passa attraverso il corpo, il dolore, il desiderio e l'estasi.

Mentre Bernini scolpisce la carne per rivelare l'anima , Cave usa la voce, le parole e la musica per esplorare lo stesso mistero: la bellezza dell'amore sacro e terreno, sempre sospeso tra il piacere e la sofferenza, tra il paradiso e l'inferno.

 

Erotismo mistico e perdita

L’erotismo è tradizionalmente associato al desiderio fisico, alla passione e al piacere corporeo, ma in un senso più profondo e filosofico, può essere visto come un’energia che trascende il corpo e si dirige verso qualcosa di assoluto. In questa prospettiva, l’erotismo non è solo carnale, ma anche mistico e spirituale. 

Sia Benini che Cave esplorano questa dimensione erotica in modi diversi ma complementari. Entrambi mostrano come il desiderio—che sia verso Dio, verso un amante o verso chi è stato perso—sia un’esperienza totalizzante, che porta il soggetto a dissolversi nell’altro. 

L’estasi mistica e il lutto condividono lo stesso gesto di abbandono assoluto: nel primo caso si tratta di un’estasi che fonde piacere e sofferenza, nel secondo di un dolore che diventa quasi desiderio. In entrambi, il corpo è trasformato da un’energia che lo sovrasta, che lo fa vacillare, perdere il controllo.

Dopo la morte del figlio Arthur, il suo linguaggio diventa ancora più mistico, trasformando il lutto in una sorta di rapporto erotico con l’assenza, una tensione continua verso qualcosa che non può più essere raggiunto. 

Non è un caso che Cave canta spesso del desiderio come qualcosa che non può essere soddisfatto, una forza che porta il soggetto alla dissoluzione.

In "Ghosteen", la perdita del figlio viene come sublimata in un linguaggio poetico che la trasforma in un’esperienza di desiderio irrisolto, un’assenza che brucia e divora quasi in equilibrio precario sull’abisso nero. Questa perdita dell’equilibrio è profondamente erotica, perché implica una resa totale a un’esperienza più grande del soggetto. L’eros, in senso ampio, è proprio questo: il desiderio di annullarsi nell’altro, di perdersi completamente in orgasmo mistico e dolore assoluto.

L’erotismo, in fondo, è anche una forma di creazione. L’abbandono dell’io, sia nell’estasi mistica che nel dolore, può generare qualcosa di nuovo. 

Bernini trasforma il corpo di Santa Teresa in pura energia, in un dinamismo che lo rende eterno mentre Nick Cave trasforma il suo lutto in arte, in musica che diventa preghiera e catarsi. 

Ma  alla fine, entrambi trasformano la perdita in bellezza, facendo dell’erotismo non solo un’esperienza di desiderio, ma anche di rinascita e trascendenza

 

 

 

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