giovedì 30 gennaio 2025

Teste decapitate nell’arte moderna

 

Teste decapitate nell’arte moderna: un’analisi a partire dal saggio di Larsen

Il tema della decapitazione ha attraversato secoli di storia dell’arte, assumendo significati diversi a seconda del contesto culturale, religioso e politico. Nel suo saggio Teste mozze: Storie di decapitazioni, reliquie, trofei, souvenir e crani illustri, Erik A. Larsen esplora il fascino esercitato dal


le teste mozzate nella cultura occidentale, soffermandosi sul loro valore simbolico e sulla loro rappresentazione artistica. Partendo dalla sua analisi, è possibile tracciare un percorso che, dalla tradizione pittorica e scultorea antica e medievale, arriva fino all’arte moderna e contemporanea, dove il concetto di decapitazione assume nuove valenze, spesso legate alla critica politica, all’alienazione dell’individuo e alla frammentazione dell’identità.

Decapitazione nell’arte: dal simbolismo sacro alla riflessione moderna

Fin dall’antichità, la decapitazione ha avuto una forte connotazione simbolica. Nelle culture antiche, tagliare la testa a un nemico significava privarlo non solo della vita, ma anche del suo potere e della sua identità. Nella tradizione cristiana, invece, le teste mozzate dei martiri sono diventate oggetto di venerazione: esempi celebri sono San Giovanni Battista e Sant’Eugenia. Questa iconografia ha avuto una vasta diffusione nell’arte medievale e rinascimentale, con artisti come Caravaggio e Donatello che hanno saputo esprimere, attraverso la rappresentazione di teste mozzate, tensioni drammatiche ed emotive.

Tuttavia, con l’avvento della modernità, la decapitazione nell’arte perde il suo legame esclusivamente religioso o storico e inizia a essere interpretata in chiave più concettuale. Non si tratta più solo di rappresentare episodi biblici o eventi storici, ma di utilizzare la testa mozzata come metafora della perdita di identità, della violenza della società moderna o della frattura tra corpo e mente.

Teste mozzate nell’arte moderna: identità e alienazione

L’arte moderna ha sviluppato il concetto di testa decapitata in modi innovativi, spesso legandolo a tematiche esistenziali e psicologiche. Un esempio emblematico è quello di Pablo Picasso, il cui periodo cubista frantuma e ricompone le figure umane in una sorta di "decapitazione" visiva, dove il volto perde la sua forma tradizionale e diventa una serie di elementi scomposti. In questo caso, la decapitazione non è fisica ma simbolica: il soggetto viene smembrato e ricostruito, riflettendo la crisi dell’individuo nella società contemporanea.

Anche Francis Bacon ha affrontato il tema della testa mozzata nelle sue opere, seppur in modo più crudo e angosciante. Le sue figure deformate e i volti urlanti sembrano evocare un’umanità disgregata, spesso privata di tratti definiti. In Bacon, la testa non è necessariamente separata dal corpo, ma viene distorta al punto da suggerire un’idea di mutilazione psichica. La decapitazione, in questo senso, diventa un simbolo della frammentazione dell’identità e della sofferenza interiore.

Un altro artista che ha lavorato sul concetto di testa decapitata è Damien Hirst, noto per le sue opere provocatorie che riflettono sulla morte e sulla caducità della vita. Le sue installazioni, come quelle con animali sezionati o teste immerse in formaldeide, evocano il tema della decapitazione in chiave scientifica e postmoderna, riducendo la testa mozzata a un oggetto di studio e spettacolarizzazione.

Decapitazione e critica politica nell’arte contemporanea

Se nell’arte moderna la decapitazione è stata spesso usata per esplorare la condizione esistenziale, nell’arte contemporanea essa assume una dimensione più politica e critica. Un esempio significativo è quello dell’artista cinese Ai Weiwei, che ha utilizzato la propria immagine decapitata per denunciare la repressione e il controllo autoritario del governo cinese.

Anche artisti come Jean-Michel Basquiat hanno reinterpretato il concetto di testa mozzata, spesso con richiami alla violenza razziale e al colonialismo. Le sue figure scheletriche e i volti sfigurati rimandano a una decapitazione simbolica, in cui la cultura afroamericana viene privata della propria identità attraverso secoli di oppressione.

L’uso della decapitazione nell’arte contemporanea si inserisce dunque in un discorso più ampio, che va oltre il semplice atto di violenza fisica per toccare temi come la censura, l’alienazione e la perdita di umanità in un mondo sempre più dominato dalla tecnologia e dalla disumanizzazione.

Conclusioni

Partendo dal saggio di Larsen, si può comprendere come il tema delle teste mozzate nell’arte moderna non sia solo un retaggio della tradizione storica e religiosa, ma anche un potente strumento di riflessione sulla società contemporanea. Dall’identità frammentata del cubismo alla disperazione esistenziale di Bacon, fino alle provocazioni politiche dell’arte contemporanea, la decapitazione continua a essere un simbolo forte e attuale, capace di evocare angoscia, denuncia e riflessione critica.

L’arte moderna e contemporanea ha trasformato la testa mozzata da reliquia sacra o trofeo di guerra a metafora della condizione umana e delle sue contraddizioni, rendendola uno degli elementi più inquietanti e affascinanti della cultura visiva attuale.


martedì 21 gennaio 2025

Fragili e vuote

 



Fragile e vuote

Il rapporto tra il concetto di vuoto nella filosofia buddista e il lavoro fotografico di Francesca Woodman si rivela estremamente affascinante, poiché entrambi esplorano il tema dell’identità, della transitorietà e della dissoluzione dell’io. Le immagini di Woodman, intrise di una profonda sensibilità esistenziale, evocano un dialogo intimo con la nozione di vuoto buddista, non come assenza o negazione, ma come spazio fertile di possibilità, trasformazione e impermanenza. 

 

Il vuoto nella filosofia buddista


Nella tradizione buddista, il vuoto (śūnyatā) è un concetto centrale, spesso frainteso come sinonimo di nulla o annichilimento. In realtà, il vuoto è la condizione fondamentale di tutte le cose, un’indicazione del fatto che nessun fenomeno esiste intrinsecamente o in modo indipendente. Tutto ciò che esiste è interconnesso, dipendente da cause e condizioni, e privo di un sé o di una sostanza permanente. Il vuoto, quindi, non è assenza, ma apertura: uno spazio in cui le forme emergono, si trasformano e svaniscono.


La contemplazione del vuoto implica la comprensione che l'io è un costrutto mutevole, un flusso di esperienze e relazioni piuttosto che un’entità stabile. Questo porta non solo a un senso di leggerezza e libertà, ma anche a una profonda consapevolezza della natura effimera di tutte le cose, generando un’attitudine di accettazione e compassione verso il mondo.

 

Francesca Woodman e la dissoluzione dell’identità


L’opera fotografica di Francesca Woodman, caratterizzata dall’autoritratto e dalla sperimentazione con il corpo e lo spazio, riflette in modo potente una ricerca sul sé e sulla sua relazione con il mondo. Le sue immagini, spesso sfocate, frammentate o parzialmente nascoste, trasmettono una sensazione di assenza e transitorietà. La figura umana – frequentemente il suo stesso corpo – sembra dissolversi nello spazio circostante, fondendosi con muri, porte e oggetti come a suggerire la permeabilità dei confini tra il soggetto e l’ambiente.


In questo senso, il lavoro di Woodman richiama il vuoto buddista nella sua esplorazione della fragilità dell’identità. La fotografa sembra mettere in discussione l’esistenza di un sé autonomo, lasciando che il corpo diventi una sorta di traccia effimera, una presenza che è al tempo stesso materiale e immateriale. Questa dissoluzione dell’io non è una negazione, ma una trasformazione: l’immagine suggerisce che il sé non è una realtà fissa, ma un costrutto fluido, che emerge e si dissolve come un riflesso in uno specchio.


 Corpo e spazio come metafore del vuoto


Un elemento chiave delle fotografie di Woodman è il dialogo tra il corpo e lo spazio. Spesso, i suoi autoritratti la mostrano in stanze vuote o decrepite, spazi che sembrano abbandonati e carichi di una presenza silenziosa. Questi luoghi non sono solo sfondi, ma partecipano attivamente alla narrazione visiva, diventando estensioni del corpo stesso. L’interazione tra figura umana e ambiente suggerisce un senso di impermanenza e transitorietà, in cui il corpo diventa parte di un flusso più grande, dissolvendosi nella materialità del mondo.


Questo rapporto tra corpo e spazio si avvicina alla meditazione buddista sul vuoto, in cui il praticante è invitato a percepire l’interconnessione di tutte le cose e la natura impermanente del sé. Le fotografie di Woodman non offrono una risposta definitiva, ma pongono domande profonde: dove finisce il corpo e dove inizia lo spazio? Dove si trova il sé in relazione al mondo? Queste domande, simili a quelle esplorate nella meditazione buddista, invitano l’osservatore a riflettere sulla propria natura effimera.


La sfocatura e l’impermanenza


Un altro aspetto distintivo del lavoro di Woodman è l’uso della sfocatura e del movimento. In molte delle sue immagini, la figura umana appare come una presenza fantasmagorica, catturata nell’atto di muoversi o di svanire. Questo effetto visivo amplifica la sensazione di instabilità e transitorietà, suggerendo che il corpo – e per estensione, l’io – è qualcosa di fugace e inafferrabile.


La sfocatura e la sovrapposizione delle immagini richiamano l’idea buddista che il sé non sia altro che un’illusione momentanea, un prodotto delle condizioni che si incontrano e si dissolvono. In questo modo, Woodman utilizza il mezzo fotografico per esplorare visivamente ciò che la filosofia buddista esprime concettualmente: la realtà è un costante divenire, e ogni tentativo di afferrarla si traduce inevitabilmente in una perdita.


La dimensione esistenziale del vuoto


Il lavoro di Francesca Woodman è spesso stato interpretato attraverso una lente esistenzialista, poiché riflette temi come la solitudine, la fragilità e il desiderio di trascendere i limiti della condizione umana. Tuttavia, queste interpretazioni possono essere arricchite da una prospettiva buddista, che vede nella sua opera non solo un grido di angoscia, ma anche un’esplorazione del vuoto come potenziale creativo. Il suo lavoro non celebra la fine o l’annullamento, ma illumina il processo di dissoluzione e ricostruzione, offrendo una visione del sé come parte di un ciclo più ampio di nascita, morte e rinascita.


Il legame tra il vuoto buddista e il lavoro fotografico di Francesca Woodman risiede nella loro comune esplorazione della transitorietà e della natura illusoria del sé. Entrambi ci invitano a riflettere sull’impermanenza e sull’interconnessione di tutte le cose, offrendo una prospettiva che va oltre il dualismo tra presenza e assenza, tra sé e mondo. Le fotografie di Woodman diventano così non solo un’espressione artistica, ma anche una meditazione visiva sulla natura del vuoto, ricordandoci che, come insegna il Buddismo, ciò che appare vuoto è in realtà pieno di possibilità. 



sabato 18 gennaio 2025

1.Outside e altre storie




David Bowie, figura camaleontica e geniale, ha sempre dimostrato un'attenzione particolare alla critica sociale e culturale, esplorando con i suoi lavori artistici tematiche legate all'identità, alla tecnologia, al potere e al mondo dell'arte contemporanea e alla sua crescente decadenza.

Ha spesso intrecciato la sua carriera musicale con altre forme d'arte, creando una rete di riferimenti che vanno ben oltre la musica. Tra i tanti progetti e tematiche affrontate da Bowie, uno dei più enigmatici e concettualmente provocatori è il personaggio di Nathan Adler e i suoi diari, presentati nel suo album 1. Outside .

Questo lavoro, frutto della collaborazione con il produttore Brian Eno, rappresenta una riflessione complessa e stratificata sul sistema dell'arte contemporanea, sui suoi limiti, le sue pretese e il ruolo dell'artista come figura profetica e al contempo dissacrante.

Il contesto

1.Outside si inserisce in una fase della carriera di Bowie in cui l'artista sperimenta con il concetto di "arte totale". Pubblicato nel 1995, il disco è una sorta di opera rock futuristica in cui si fondono musica, narrazione e performance concettuale. I testi si basano sui cosiddetti "diari di Nathan Adler", un personaggio immaginario creato da Bowie, descritto come un investigatore che lavora su casi di "arte del crimine". La trama ruota intorno a un omicidio rituale e all'idea che, in un futuro distopico, l'arte contemporanea ha superato i limiti dell'omicidio e della legalità per diventare una forma di trasgressione estrema, in cui la creazione di opere passa attraverso atti di violenza o distruzione.

Nathan Adler è il narratore della storia, un personaggio ambiguo, a metà tra il critico e il detective, il cui ruolo è indagare il "crimine dell'arte". Attraverso i suoi diari, Bowie critica i meccanismi dell'arte contemporanea, svelandone i paradossi. In questa cornice, l'omicidio diventa una metafora dell'arte stessa: un atto di rottura radicale, ma anche una provocazione che obbliga lo spettatore a interrogarsi sui confini tra creazione, etica e significato.

La critica al sistema dell'arte contemporanea

Con il progetto di 1. Outside , Bowie mette in discussione il sistema dell'arte contemporanea e il suo rapporto con l'industria culturale. Il personaggio di Adler e il concetto di "arte del crimine" riflettono l'ossessione per la novità e la trasgressione che spesso caratterizza il mondo dell'arte, dove ciò che è scioccante o provocatorio viene valorizzato più del contenuto estetico o concettuale dell'opera. stessa. Bowie esplora l'idea che l'arte sia diventata uno spettacolo, in cui la provocazione serve principalmente ad ottenere attenzione e legittimazione.

La struttura distopica della storia di 1. Outside è una caricatura estrema, ma non lontana dalla realtà di certi fenomeni del mondo dell'arte contemporanea. Negli anni '90, periodo in cui l'album venne pubblicato, il sistema dell'arte si trovava in una fase di forte commercializzazione, con artisti come Damien Hirst che ridefinivano i limiti dell'arte con opere provocatorie, spesso critiche per il loro opportunismo. Bowie, attraverso il suo lavoro, mette in luce come l'arte contemporanea sembri aver bisogno di scioccare per rimanere rilevante, spingendo il pubblico a chiedersi fino a che punto un'opera debba essere considerata arte, e quale sia il ruolo dell'artista in questo sistema.

Il ruolo dell'artista e la perdita di senso

Un tema centrale dei diari di Nathan Adler è la figura dell'artista come "profeta" e al contemporaneo "truffatore". Bowie sembra suggerire che l'artista contemporaneo si trova a oscillare tra il ruolo di creatore autentico e quello di manipolatore che sfrutta i meccanismi del mercato per ottenere successo. In 1. Outside , l'arte non è più una ricerca di verità o bellezza, ma un mezzo per ottenere visibilità e consenso. Il personaggio di Adler e il suo diario esprimono questo dilemma, sottolineando come l'arte sia diventata un campo di battaglia in cui il significato viene sacrificato sull'altare della spettacolarizzazione.

Bowie, che nella sua carriera ha sempre giocato con l'identità e il ruolo dell'artista, sembra usare Adler come alter ego per esplorare le sue stesse preoccupazioni sul senso della creazione artistica. L'intero progetto di 1. Outside può essere visto come una riflessione meta testuale: Bowie non solo critica il mondo dell'arte, ma si pone anche la domanda su quale sia il valore del proprio lavoro in un sistema che premia il sensazionalismo.

La narrazione frammentaria come metafora dell'incertezza

Dal punto di vista narrativo, i diari di Nathan Adler sono scritti in modo frammentario, con un linguaggio criptico e spesso incoerente. Questo stile rispecchia l'incertezza e il caos del mondo che Bowie descrive. La frammentarietà della narrazione riflette anche il modo in cui l'arte contemporanea spesso si presenta: ambigua, difficilmente decifrabile, e aperta a infinite interpretazioni.

La scelta di utilizzare una struttura narrativa non lineare, che combina testo, musica e visualità, permette a Bowie di creare un'esperienza immersiva e totalizzante. Lo spettatore/ascoltatore diventa parte del processo di interpretazione, costretto a confrontarsi con domande che non hanno una risposta semplice. In questo senso, i diari di Nathan Adler non sono solo un mezzo narrativo, ma anche un dispositivo critico che sfida il pubblico a riflettere sul ruolo dell'arte e dell'artista.

Ma è attraverso il video di Hearts Filthy Lesson (1995),  che offre una delle più potenti e oscure riflessioni sulla condizione dell'arte contemporanea. Attraverso un'estetica disturbante e simbolica, il video esplora il confine tra arte, ossessione e distruzione, rappresentando una critica profonda al sistema dell'arte moderna e alla sua degenerazione in rituali vuoti e autoreferenziali.

Diretto da Samuel Bayer, il video presenta un ambiente degradato, quasi post-apocalittico, abitato da personaggi eccentrici, artisti marginali e pratiche che evocano sacrifici e riti oscuri. In questo spazio decadente, l'arte non è più un mezzo per trascendere la realtà, ma piuttosto un riflesso della corruzione e della confusione della società contemporanea. La presenza di sangue, carne e materiali corporei nel video sottolinea il carattere fisico e ossessivo dell'atto creativo, quasi come se Bowie volesse dichiarare che l'arte contemporanea è diventata una pratica violenta e autolesionista, un'autopsia condotta su un corpo culturale già morto.

La rappresentazione del processo artistico nel video è profondamente ritualizzata. Gli artisti sembrano preda di ossessioni e pratiche che ricordano antichi riti sacrificali. Questo rimanda all'idea che, nel mondo contemporaneo, l'arte sia diventata una sorta di religione alternativa, ma con una spiritualità corrotta. L'artista moderno, secondo questa visione, è un sacerdote decaduto che opera in un sistema vuoto, consumato dall'autocelebrazione e dalla ricerca della novità a tutti i costi.

La critica al sistema dell'arte contemporanea

"Hearts Filthy Lesson" riflette una visione profondamente critica del sistema dell'arte contemporanea. Nel corso del XX secolo, l'arte si è progressivamente spostata da un contesto in cui la creazione aveva un valore intrinseco a un sistema dominato dal mercato, dalla spettacolarizzazione e dalla ricerca ossessiva del nuovo. Bowie sembra porre l'accento su come l'arte sia diventata una merce, un prodotto confezionato per un'élite di collezionisti, galleristi e critici, svuotata di significato autentico.

Il riferimento al "filthy lecture" – la "lezione sporca" – può essere interpretato come una critica al compromesso morale ed etico che molti artisti e operatori culturali accettano per sopravvivere in un sistema che premia il sensazionalismo e la provocazione fine a sé stessa. Il mondo dell'arte contemporanea, nel video, appare come un ambiente insincero, dove la creatività autentica è sacrificata sull'altare del profitto e della celebrità. Gli artisti, come mostrato nel video, sembrano essere intrappolati in un ciclo ripetitivo di creazione e distruzione, senza uno scopo reale, ma mossi da impulsi ossessivi e dall'influenza di un sistema che non lascia spazio all'individualità.

La relazione con le teorie sull'arte postmoderna

L'analisi del video non può prescindere da un confronto con alcune teorie critiche sull'arte postmoderna. Jean Baudrillard, con la sua idea di iperrealtà, descrive un mondo in cui la realtà è sostituita da simulacri: rappresentazioni che non hanno più un legame autentico con ciò che rappresentano. Questo concetto si applica perfettamente al sistema dell'arte contemporanea, dove il valore di un'opera è spesso determinato dalla sua visibilità mediatica o dal contesto sociale in cui è inserito, piuttosto che dal suo significato intrinseco. Bowie, attraverso il video, sembra incarnare questa critica, mostrando un mondo artistico che è diventato una caricatura di sé stesso, incapace di produrre qualcosa di veramente autentico.

Un altro riferimento teorico rilevante è quello di Arthur Danto, che nel suo libro The End of Art sostiene che l'arte, dopo la sua emancipazione concettuale, ha smesso di avere un obiettivo specifico, divenendo un territorio aperto e privo di confini. Nel video di Bowie, questa "morte dell'arte" si manifesta come un caos visivo e narrativo: i confini tra artista, opera e pubblico si dissolvono, lasciando spazio a un rituale inquietante che sembra annunciare non solo la fine dell'arte, ma anche della sua capacità di significare.

La figura dell'artista nel video

Bowie stesso appare nel video come una figura centrale, ma non come il creatore onnipotente che controlla il processo artistico. Al contrario, egli sembra essere una vittima del sistema che critica, un osservatore intrappolato in un mondo che non può cambiare. Il suo personaggio si muove in mezzo a una scena di caos e decadenza, rappresentando forse l'artista moderno, consapevole del fallimento del sistema ma impotente di fronte alla sua forza oppressiva. Questa rappresentazione riflette una tensione esistenziale che permea gran parte dell'opera di Bowie, la lotta tra il desiderio di autenticità e la necessità di confrontarsi con le strutture sociali e culturali del proprio tempo.

 Tuttavia, l'analisi del video si arricchisce ulteriormente se lo mettiamo in relazione con il romanzo settecentesco L'omicidio come forma d'arte ( Murder as a Fine Art ) di Thomas De Quincey, un'opera che esamina il legame tra violenza, estetica e perversione, ponendo domande fondamentali su cosa possa essere considerata "arte" e quali siano i suoi limiti morali.

Questa connessione tematica, che lega il video di Bowie al romanzo, apre uno spazio di riflessione ancora più ampio sulla natura dell'arte come gesto provocatorio, sul potere simbolico del sangue e della morte e sul fascino perverso dell'oscurità come ispirazione artistica.

 

La violenza rituale come atto artistico

Il romanzo di De Quincey, pubblicato nel 1827, è una provocatoria riflessione sul modo in cui la violenza può essere considerata una forma d'arte. In esso, l'autore descrive con un linguaggio estetizzante i delitti della famiglia Williams, soffermandosi sui dettagli dei loro crimini come se fossero opere d'arte da analizzare e contemplare. De Quincey non intende glorificare l'omicidio, ma piuttosto esplora il confine ambiguo tra moralità e estetica, tra l'orrore e il fascino. Questa tensione tematica è centrale anche nel video di Bowie, che raffigura un mondo degradato in cui l'arte stessa si è trasformata in un atto violento e brutale, un rituale di sacrificio.

Nel video, il processo creativo è rappresentato come un atto che coinvolge sangue, carne e simboli di morte, richiamando direttamente l'estetizzazione della violenza presente nel romanzo di De Quincey. L'ambiente decadente e ritualistico, popolato da figure disturbanti e marginali, suggerisce che l'arte ha smesso di essere uno spazio per la bellezza o per il trascendimento spirituale, per trasformarsi invece in un atto crudele, fisico e viscerale. Questo riflette l'idea che l'artista, nel sistema contemporaneo, deve "uccidere" qualcosa – simbolicamente o materialmente – per creare un'opera che catturi l'attenzione.

Come De Quincey mette in scena l'omicidio come una forma d'arte, Bowie sembra suggerire che il sistema dell'arte contemporanea abbia un rapporto altrettanto perverso con la violenza e la distruzione. Nel suo video, la creazione artistica non è un processo puro, ma piuttosto un atto di disfacimento, che comporta il sacrificio dell'autenticità in favore di qualcosa di più spettacolare e sensazionale.

 

Arte, perversione e spettacolarizzazione

Un tema cruciale che collega il romanzo e il video è la spettacolarizzazione della violenza. De Quincey, nel suo saggio ironico e provocatorio, suggerisce che l'umanità fornisce un certo tipo di attrazione per l'orrore, soprattutto quando viene presentato attraverso una lente estetica. Questo è esattamente ciò che accade nel mondo dell'arte contemporanea criticata da Bowie: un sistema che premia il sensazionalismo e la provocazione sopra il significato intrinseco. La ricerca della novità, dell'eccesso e dello shock diventa il motore principale della produzione artistica, trasformando l'arte in un'esperienza voyeuristica.

Nel video di Hearts Filthy Lesson , questa idea si manifesta attraverso la rappresentazione di un mondo artistico in cui ogni atto creativo è intrinsecamente legato alla violenza e al degrado. Gli artisti ei personaggi che popolano il video sembrano essere ridotti a strumenti di un rituale che non serve più a comunicare, ma solo a esporre, scioccando il pubblico. Questo richiama direttamente l'ironia di De Quincey, che mette in discussione il modo in cui il pubblico sia disposto a trasformare l'orrore in intrattenimento e l'arte in una perversione.

Il sacrificio come metafora dell'arte moderna

Un altro legame significativo tra il romanzo e il video è la centralità del sacrificio come elemento creativo. In L'omicidio come forma d'arte , De Quincey descrive l'atto dell'omicidio come un processo deliberato e ritualizzato, che richiede pianificazione e attenzione ai dettagli, proprio come un'opera d'arte. Allo stesso modo, nel video di Bowie, il sacrificio sembra essere il cuore del processo artistico. Il sangue e la carne diventano metafore per il prezzo che l'artista deve pagare per creare qualcosa di nuovo all'interno di un sistema corrotto e consumato.

Questo tema del sacrificio si collega anche alla figura dell'artista moderno, che Bowie rappresenta come una vittima del sistema dell'arte contemporanea. Proprio come l'omicida di De Quincey, l'artista nel video è intrappolato in un ciclo ossessivo in cui deve continuamente spingersi oltre i limiti morali e creativi per soddisfare le richieste di un pubblico sempre più insaziabile e di un mercato sempre più vorace.

Questa rappresentazione richiama non solo la critica al sistema dell'arte contemporanea, ma dialoga anche con pratiche storiche che hanno cercato di rompere i confini tradizionali dell'espressione artistica. Tra queste, un punto di riferimento fondamentale è rappresentato dall'Azionismo Viennese, un movimento artistico sviluppatosi negli anni Sessanta, che si caratterizza per l'uso del corpo come strumento principale di espressione e per l'utilizzo rituale di materiali come il sangue. Collegare il video di Bowie all'Azionismo Viennese permette di approfondire ulteriormente la riflessione sul ruolo del rituale, del sacrificio e della violenza nell'arte, ponendola in un contesto storico e filosofico più ampio.

Il rituale come performance: il legame con l'Azionismo Viennese

L'Azionismo Viennese, movimento artistico radicale nato in Austria negli anni Sessanta, fu caratterizzato da performance estremamente provocatorie e spesso violente, in cui il corpo, i fluidi corporei (in particolare il sangue) e l'uso del sacrificio ritualistico erano centrali. Artisti come Günter Brus, Hermann Nitsch, Rudolf Schwarzkogler e Otto Muehl esploravano i limiti dell'arte attraverso atti che includevano automutilazioni, lacerazioni e rappresentazioni simboliche di sacrifici. Per questi artisti, il rituale e l'uso di materiali organici non erano fine a sé stessi, ma avevano un profondo significato: rappresentare il dolore, la sofferenza e la fragilità della condizione umana, decostruendo l'idea dell'arte come un'esperienza estetica puramente visiva e cercando di coinvolgere il pubblico in un'esperienza multisensoriale e destabilizzante.

Nel video di Hearts Filthy Lesson , diretto da Samuel Bayer, troviamo un'eco visiva e concettuale di queste pratiche. Bowie e i personaggi che abitano lo spazio decadente rappresentano figure che sembrano impegnati in un rito artistico-ritualistico, in cui materiali corporei e simboli di morte diventano centrali. L'uso del sangue come elemento estetico e simbolico richiama direttamente le performance di Hermann Nitsch, il quale nei suoi Teatro delle Orge e dei Misteri ( Orgien Mysterien Theatre ) utilizzava grandi quantità di liquido ematico e carcasse animali per evocare una connessione primitiva con la vita e la morte. Nitsch, in particolare, concepiva i suoi rituali come una forma di catarsi collettiva, una sorta di purificazione spirituale attraverso la rappresentazione della crudeltà e della morte.

Il video di Bowie, con le sue atmosfere industriali e degradate, trasforma questa estetica in un'ambientazione postmoderna: il sacrificio rituale non è più uno strumento di purificazione, ma un simbolo della corruzione del sistema dell'arte. In questo senso, Bowie capovolge l'idea centrale dell'Azionismo Viennese, trasformando il rituale in una critica della perdita di autenticità e spiritualità sembra nell'arte contemporanea.

Altro tema interessante è l'intersezione tra arte performativa estrema e narrazione musicale si trova in un territorio dove il corpo diventa linguaggio e la società viene decostruita e ricomposta attraverso il simbolismo e la provocazione. In questo contesto, il lavoro di Ron Athey e il concept dei "diari di Nathan Adler" di David Bowie si situano come due espressioni di una stessa esigenza: spingersi oltre i limiti convenzionali dell'arte per esplorare il disagio umano, la politica dell' identità e le possibilità della trasformazione. Entrambi combattono all'interno di una dimensione liminale, in cui il confine tra il reale e il metaforico, il personale e il sociale, si dissolvono.

Ron Athey: il corpo come campo di battaglia

Ron Athey è uno degli artisti performativi più radicali e discussi degli ultimi decenni. La sua arte si basa sull'uso del corpo come medium primario per esplorare temi come il trauma, la spiritualità, l'identità sessuale e la malattia. Nato nel 1961 in California, Athey è cresciuto in una famiglia pentecostale e ha vissuto una serie di esperienze traumatiche che hanno profondamente influenzato la sua poetica. La sua pratica artistica, fortemente influenzata dalla sottocultura queer e dal suo status di uomo sieropositivo, si caratterizza per l'utilizzo di tecniche estreme, come il piercing, il taglio e la manipolazione del sangue, che mettono in discussione il rapporto tra il pubblico e il performer, tra il sacro e il profano.

Opere come "Martyrs and Saints" (1992) e "Incorruptible Flesh" (1996) sono esempi di come Athey utilizza il proprio corpo per raccontare storie collettive di oppressione e resistenza. Attraverso immagini viscerali e rituali, egli trasforma il dolore personale in una performance catartica che costringe il pubblico a confrontarsi con la debolezza umana e le norme sociali. La sua arte non è solo una provocazione, ma un mezzo per sfidare le convenzioni e rivelare ciò che la società preferisce nascondere.

A livello tematico, Athey affronta le questioni che si intrecciano profondamente con le idee di David Bowie nei "diari di Nathan Adler", in particolare la tensione tra identità individuale e collettiva, il rapporto tra tecnologia e umanità, e il ruolo dell'artista come figura liminale che opera ai margini della società.

Come Athey, Bowie esplora l'idea del corpo come spazio di trasformazione e trasgressione. Nei diari di Nathan Adler, i "crimini artistici" non sono solo atti violenti, ma anche espressioni di un desiderio di trascendere i limiti dell'umanità attraverso la creazione e la distruzione. Questo tema è particolarmente evidente nella figura di Baby Grace Blue, una delle vittime dei crimini rituali, il cui corpo diventa un'opera d'arte.

Connessioni tematiche: l'arte come trasgressione

Nonostante le evidenti differenze stilistiche tra Ron Athey e David Bowie, entrambi condividono una visione dell'arte come atto trasgressivo e trasformativo. Nei lavori di Athey, il corpo diventa un palinsesto su cui si scrivono storie di dolore, resistenza e rinascita. Nei diari di Nathan Adler, l'arte si trasforma in un atto di ribellione contro un sistema distopico e oppressivo. In entrambi i casi, l'artista si pone come figura liminale, un intermediario tra il sacro e il profano, tra la società e l'individuo.

Un altro punto di contatto è la riflessione sulla tecnologia e sul suo impatto sull'identità umana. Bowie, nei "diari di Nathan Adler", immagina un futuro in cui la tecnologia ha alterato il modo in cui le persone si relazionano all'arte e alla realtà. Athey, d'altra parte, esplora il corpo umano come una macchina biologica che può essere manipolata e trasformata per sfidare le norme sociali. Entrambi affrontano la questione dell'autenticità e della simulazione, mettendo in discussione cosa significa essere umano in un mondo in rapido cambiamento.

 

 




 

sabato 11 gennaio 2025

teste mozzate nell'arte

 Il tema delle teste mozzate nell'arte antica e contemporanea

Le teste mozzate hanno un posto di rilievo nell'immaginario collettivo, ricoprendo significati profondi e ambivalenti nel corso della storia. Dalla rappresentazione della violenza e della punizione alla celebrazione del potere, fino a simboli di martirio, sacrificio e mistero, la decapitazione si presta a numerose interpretazioni culturali, religiose e artistiche. L'arte, che riflette e modella l'identità e le paure umane, ha spesso utilizzato questo tema per evocare emozioni e riflessioni contrastanti.

La mostra “Perdere la testa” presso la Galleria BKV Fine Art di Milano, il saggio dell'antropologa Frances Larson , "Teste mozze. Storie di decapitazioni, reliquie, trofei, souvenir e crani illustri", ei romanzi di Marco Bellomi si rivelano strumenti preziosi per comprendere come la decapitazione abbia influenzato l'arte e la cultura, dall'antichità ai giorni nostri.

Le teste mozzate nell'arte antica: simboli di potere e sacrificio

Nell'arte antica, le teste mozzate erano frequentemente associate alla rappresentazione della giustizia divina, della punizione terrena e del trionfo militare. Culture diverse hanno attribuito significati specifici a questo atto estremo, ma spesso la testa separata dal corpo era vista come un potente simbolo del controllo sulla vita e sulla morte.

L'iconografia biblica e mitologica

Uno degli esempi più ricorrenti è la figura di Davide e Golia , presente nell'arte rinascimentale e barocca. La testa del gigante, nelle mani del giovane pastore, rappresentava la vittoria del bene contro il male, dell'ingegno contro la forza bruta. Allo stesso modo, l'episodio di Giuditta che decapita Oloferne , raffigurato in capolavori di artisti come Caravaggio e Artemisia Gentileschi , enfatizza il potere femminile e la giustizia divina, oltre a evocare un senso di inquietudine e violenza.

Anche nel contesto mitologico, la testa mozzata assumeva un significato simbolico. La testa di Medusa , recisa da Perseo, non perdeva il suo potere pietrificante, trasformandosi in un'arma nelle mani dell'eroe. Questo rifletteva l'ambivalenza della decapitazione, che distrugge ma conserva qualcosa del suo significato originario.

La testa mozzata come trofeo di guerra

Nelle culture antiche, mostra la testa di un nemico sconfitto era un gesto di supremazia. Dai Romani ai Celti, questo atto sottolineava la vittoria e intimidiva i nemici. I riti celtici , in particolare, veneravano le teste mozzate come oggetti sacri, credendo che contenessero l'essenza dell'individuo. Quest'idea della testa come sede dell'anima è stata ripresa nell'arte religiosa e nella venerazione delle reliquie.

Reliquia e martirio

Nel contesto cristiano, le teste dei santi decapitati – come quelle di San Giovanni Battista o Santa Caterina – venivano conservate come reliquie e rappresentate in modo ricorrente nell'arte. La testa mozzata, lunga dall'essere un simbolo di morte definitiva, diventava un oggetto sacro e veicolo di miracoli, suggerendo il trionfo della fede sulla sofferenza fisica.

Le teste mozzate nell'arte contemporanea: alienazione e critica sociale

Con il passare dei secoli, l'arte contemporanea ha reinterpretato il tema delle teste mozzate, spostando il focus dalla rappresentazione religiosa e simbolica alla condizione critica sociale, alla riflessione sulla umana e al trauma collettivo.

La mostra “Perdere la testa” alla Galleria BKV Fine Art

La mostra “Perdere la testa” rappresenta una ricca occasione per esplorare l'evoluzione di questo tema. Con 64 opere che spaziano dal Rinascimento all'arte contemporanea, la mostra affronta la decapitazione come simbolo della vulnerabilità umana e dell'instabilità dell'identità. Gli artisti presenti, da Juan Bautista Maino a Julian Schnabel , rileggono il motivo della testa mozzata con linguaggi diversi, passando dal figurativo al concettuale.

Tra le opere più emblematiche si trovano rappresentazioni drammatiche della Salomé con la testa di San Giovanni Battista , che incarnano l'ambiguità del desiderio e del potere. Altre opere contemporanee, come quelle di Bertozzi & Casoni , utilizzano materiali innovativi per riflettere sull'alienazione dell'uomo moderno e sulla mercificazione della violenza.

La testa mozzata come metafora contemporanea

L'arte contemporanea spesso utilizza la testa mozzata come metafora per esprimere temi di frammentazione dell'identità, alienazione e disumanizzazione. In un mondo dominato dalla tecnologia e dalla globalizzazione, la testa recisa può rappresentare la perdita del sé autentico, vittima di un sistema che tende a oggettivare e frammentare l'individuo.

L'analisi antropologica di Frances Larson

Frances Larson, nel suo saggio, esplora l'affascinante ambiguità delle teste mozzate attraverso i secoli. Secondo l'autrice, le teste umane separatamente dal corpo assumono significati che vanno oltre la morte: possono essere reliquie sacre, trofei di guerra, souvenir macabri o simboli di giustizia.

Larson sottolinea come, in contesti bellici o punitivi, la decapitazione fosse non solo un atto di eliminazione fisica, ma anche di cancellazione dell'identità sociale. Le teste mozzate, esposte in precedenza, diventavano monitor visivi, mezzi di controllo e manifestazioni di potere.

Un altro aspetto interessante del saggio è l'analisi del collezionismo di crani umani nel XIX e




XX secolo, un fenomeno che unisce scienza, curiosità morbosa e colonialismo culturale. Larson mette in evidenza come le teste mozzate siano state trasformate in oggetti di studio, togliendo loro ogni connotazione umana per relegarle a meri artefatti.

I romanzi di Marco Bellomi: mistero e critica sociale

Nei romanzi di Marco Bellomi, la testa mozzata assume una valenza narrativa e simbolica unica. Opere come "L'enigma delle teste perdute" e "Uno sciamano nel borgo" utilizzano il motivo della decapitazione per esplorare temi di corruzione, vendetta e perdita dell'identità. La decapitazione, in questi romanzi, diventa un elemento chiave per svelare i lati oscuri della società contemporanea.

In "L'enigma delle teste perdute" , la decapitazione è legata a un complesso mistero artistico, sottolineando il conflitto tra autenticità e superficialità nel mondo dell'arte. In "Uno sciamano nel borgo" , la figura di uno sciamano mongolo porta in scena un senso di giustizia ancestrale che si contrappone alla disumanizzazione della modernità.

Bellomi utilizza la testa mozzata per intrecciare passato e presente, sacro e profano, offrendo una profonda riflessione sull'anima dell'uomo contemporaneo.

venerdì 3 gennaio 2025

Serial killer e teatro

 Il rapporto tra la gestualità teatrale del gruppo teatrale catalano La Fura dels Baus e la gestualità di un serial killer è un tema che solleva questioni interessanti sulle modalità con cui il corpo comunica, esprime potere e trasmette emozioni, siano esse artistiche o violente. Sebbene si tratti di contesti apparentemente distanti – il primo appartenente all’arte performativa e il secondo a un comportamento deviante – entrambi coinvolgono una manipolazione precisa del corpo e dello spazio, trasformando la gestualità in un veicolo di significato. Questo saggio esplorerà le connessioni simboliche, espressive e concettuali tra queste due forme di comunicazione corporea.

 La gestualità nella poetica de La Fura dels Baus

Il gruppo La Fura dels Baus ,nato negli anni ’70, ha rivoluzionato il panorama teatrale attraverso un linguaggio corporeo radicale e immersivo. La loro estetica si fonda sulla rottura delle convenzioni teatrali tradizionali, privilegiando una fisicità estrema, violenta e spesso provocatoria. Le loro performance, che mescolano teatro, danza, acrobazia e tecnologia, si basano su un’interazione stretta tra attori e spettatori, creando un’esperienza immersiva e disturbante.

La gestualità del gruppo è caratterizzata da movimenti crudi e intensi che riflettono temi quali il conflitto, il potere e la sopravvivenza. I performer utilizzano il corpo come strumento primario per comunicare sensazioni di oppressione, vulnerabilità o aggressione, spesso attraverso una coreografia che simula situazioni di tensione fisica o violenza. La gestualità in questo contesto diventa un linguaggio universale, capace di trasmettere emozioni archetipiche e toccare l’inconscio collettivo.

La gestualità del serial killer: il corpo come strumento di controllo e violenza

D’altro canto, la gestualità di un serial killer è intrinsecamente legata alla manipolazione del corpo – sia il proprio sia quello della vittima. I serial killer spesso manifestano un controllo ossessivo sul proprio linguaggio corporeo e sui gesti, utilizzandoli come strumenti per esprimere potere e dominio. In molti casi, i loro movimenti sono freddi, calcolati e ritualizzati, riflettendo una mente ossessionata dal controllo. La gestualità diventa un elemento coreografico che riflette un’espressione di sé distorta, una sorta di "teatro dell’orrore" privato e perverso.

Un elemento centrale nella gestualità del serial killer è il rituale, che spesso si traduce in schemi ripetitivi nei movimenti, sia durante gli omicidi sia nelle interazioni quotidiane. Questo rituale non è solo un mezzo per gestire l'ansia o il senso di colpa, ma anche un modo per creare una narrativa personale che conferisca un senso di identità e di potere. La teatralità implicita nei gesti di un serial killer, seppur involontaria, evoca una macabra rappresentazione performativa che comunica il loro universo interiore.

Paralleli simbolici e concettuali tra le due gestualità

Nonostante le profonde differenze tra l’arte performativa de La Fura dels Baus* e il comportamento patologico di un serial killer, ci sono alcune analogie sorprendenti che emergono dall’analisi delle loro rispettive gestualità.

1. Ritualità e simbolismo: Entrambi i contesti utilizzano gesti codificati e ritualistici. Nel teatro de *La Fura dels Baus*, i gesti rituali servono a evocare archetipi collettivi e a connettere gli spettatori con un immaginario primordiale. Per il serial killer, invece, il rituale ha una funzione individuale, un modo per affermare il proprio senso di controllo e dare un significato all’atto violento.

2. Intensità emotiva: Le performance de La Fura dels Baus sono progettate per evocare emozioni forti, spesso attraverso la rappresentazione di violenza e conflitto. Allo stesso modo, la gestualità del serial killer è intrinsecamente legata a un’intensità emotiva, che può essere il risultato di pulsioni interne o di una ricerca di catarsi personale.

3. Uso dello spazio: La gestualità di *La Fura dels Baus* è strettamente legata allo spazio fisico, con i performer che spesso invadono lo spazio degli spettatori, rompendo la quarta parete. Allo stesso modo, un serial killer utilizza lo spazio come elemento di controllo, creando un “palcoscenico” per i propri atti.

4. Disumanizzazione e trasformazione: In entrambi i casi, la gestualità può portare alla disumanizzazione. I performer de *La Fura dels Baus* spingono i loro corpi al limite, trasformandosi in entità che superano l’umano. Per il serial killer, invece, la disumanizzazione si manifesta attraverso l’oggettivazione della vittima, ridotta a strumento per soddisfare i propri desideri.

Differenze fondamentali: Arte contro devianza

Nonostante le somiglianze simboliche, le differenze tra queste due gestualità sono profonde e cruciali. Nel caso de *La Fura dels Baus*, la gestualità è una scelta artistica consapevole, un mezzo per esplorare e rappresentare temi universali. La violenza rappresentata è sempre simbolica, mirata a stimolare una riflessione critica. Nel caso del serial killer, invece, la gestualità è un’espressione patologica e distruttiva, priva di intento estetico o riflessivo.

La teatralità de “La Fura dels Baus” mira a creare connessione e catarsi; quella del serial killer, al contrario, isola e distrugge, immergendo l'individuo in un ciclo di alienazione e violenza.


In conclusione possiamo affermare che il confronto tra la gestualità teatrale de La Fura dels Baus e quella di un serial killer mette in luce come il corpo possa diventare un mezzo potente per comunicare, evocare e trasformare. Entrambi i contesti dimostrano che il linguaggio del corpo è profondamente radicato nell’esperienza umana, ca


pace di riflettere tanto la creatività quanto la distruttività. Tuttavia, la finalità e il contesto fanno la differenza: nel teatro, il gesto è un atto creativo e collettivo; nella devianza, è un atto distruttivo e solitario. Questo confronto invita a riflettere sul potere del gesto come veicolo di significato e sulle sue infinite possibilità, nel bene e nel male. 


Ferite che parlano, materia che passa: Alberto Burri e Berlinde De Bruyckere tra arte e impermanenza

Questo articolo propone una lettura comparativa tra l’opera di Alberto Burri e quella di Berlinde De Bruyckere alla luce del concetto di imp...