Ricordo il motto di
un’era passata, quello che un tempo era solo finzione: L’inverno sta
arrivando. Ma adesso, non è più una frase tratta da un libro di Corbins. È
la nostra realtà, una condanna scritta nel cielo pallido e nelle strade
deserte. Sfoglio ancora le vecchie pagine ingiallite di Corbins, come se quelle
storie potessero prepararmi a ciò che vedo fuori dalla mia finestra. Là, oltre
i vetri screpolati dal gelo, la città è sepolta sotto una coltre di ghiaccio
impenetrabile. Non c’è più movimento, nessun rumore. Solo il sibilo incessante
del vento che taglia l'aria come una lama.
Le autorità l'hanno
chiamata “la piaga del ghiaccio”.
Il nome, secco e meccanico, non poteva rendere
giustizia al terrore che ha divorato il mondo, divorandoci uno ad uno. Non è
stato solo l’inizio di un lungo inverno, ma l’inizio della fine. Il freddo era
arrivato come un lento veleno, annunciato da bollettini meteorologici che
inizialmente sembravano errori: temperature mai viste prima, bufere fuori
stagione, venti che squarciavano gli edifici e lasciavano solo un silenzio
morto alle spalle.
Ma presto tutti hanno
capito. Questo non era un semplice fenomeno atmosferico; era qualcosa di più
profondo, più antico, qualcosa che non obbediva alle leggi della natura che
credevamo di conoscere.
Ogni volta che uscivo
dalla casa dove ancora mi rifugiavo, sentivo il gelo come un morso. Un freddo
così intenso che sembrava ustionarmi la pelle, come il tocco del fuoco. Era un
dolore sordo e persistente, che non lasciava tregua nemmeno quando rientravo.
Le finestre, ormai, erano barricate con strati di legno e metallo, ma il gelo
penetrava comunque, insinuandosi ovunque. La casa scricchiolava sotto il peso
del ghiaccio che si accumulava ogni giorno di più, come una creatura viva che
tentava di seppellirci.
Avventurarsi fuori era
un rischio, ma la claustrofobia e la paura della fame mi costringevano a farlo.
Ogni passo nelle strade deserte era una sfida alla morte. Un tempo, quelle
stesse strade brulicavano di vita: bambini che giocavano, auto che si facevano
largo nel traffico, voci e rumori che riempivano l’aria. Ora tutto era
silenzioso, una landa desolata e spettrale, congelata in un eterno istante di
dolore.
Le automobili erano
diventate relitti congelati, come carcasse di animali preistorici bloccati in
un mare di ghiaccio. I vetri dei parabrezza erano opachi, coperti da strati di
neve e ghiaccio che sembravano cementarsi ogni giorno di più. Dentro, i segni
di un’umanità frettolosamente abbandonata: una giacca gettata sul sedile, una
borsa sul cruscotto. Ogni cosa sembrava essersi fermata in quell'istante
terribile in cui tutti avevano compreso che non c’era più via di fuga. Che
l’inverno non sarebbe mai finito.
Non c’erano più cani o
gatti, nemmeno gli uccelli osavano più volare sotto quel cielo. Gli esseri
viventi, forse i più saggi di tutti, avevano abbandonato la speranza prima
ancora di noi. Il silenzio era totale, rotto solo dal soffiare incessante del
vento, come il sussurro di una vecchia divinità dimenticata. Solo il gelo
restava, persistente, implacabile, come una maledizione lanciata sulla Terra.
Non ero certo di essere
l’ultimo, ma non vedevo più nessuno da settimane. I pochi che si erano
avventurati fuori nelle prime fasi dell’inverno erano morti presto, uccisi
dall'esposizione o spariti in quella distesa bianca. Le città si erano
trasformate in mausolei ghiacciati, monumenti vuoti a un mondo che non c'era
più.
La notte non arrivava
più, non nel senso tradizionale. Il cielo era costantemente grigio, senza mai
rivelare il sole. Non c’erano stelle, né luna. Solo un’oscurità perenne e
uniforme, come se il cielo stesso fosse morto. La mancanza di luce faceva
perdere la cognizione del tempo, come se i giorni si fondessero in un unico
lungo incubo.
Ricordo quando è
iniziato, il primo segnale chiaro che qualcosa non andava. Era stata una
tempesta, un vortice di neve che aveva colpito senza preavviso. Un muro bianco
che aveva divorato tutto ciò che incontrava, cancellando le persone dalle
strade, risucchiandole nel nulla. Nessuno l’aveva vista arrivare. E dopo, il
silenzio. Era come se il mondo avesse trattenuto il fiato, aspettando. Da quel
giorno, la neve non aveva più smesso di cadere, a volte leggera e impalpabile,
altre volte densa e violenta, come se volesse sommergere ogni cosa.
Ogni tanto trovavo
rifugio in qualche edificio abbandonato, ma non era mai sicuro restare troppo a
lungo nello stesso posto. Il gelo aveva una strana intelligenza, come se fosse
cosciente della nostra presenza. Penetrava attraverso i muri, sotto le porte,
cercando di strapparci quel poco di calore che ci rimaneva. E non solo:
sembrava prendersi anche i nostri pensieri, la nostra volontà. L’apatia era il
primo sintomo, poi veniva la stanchezza, e infine il sonno. Un sonno da cui non
ci si risvegliava mai più.
Ho visto i corpi di
quelli che avevano ceduto. Si sdraiavano, quasi serenamente, sotto strati di
neve e ghiaccio. I loro volti erano immobili, congelati in un ultimo momento di
sollievo. Eppure, c’era qualcosa di innaturale in loro, come se non fossero davvero
morti, ma solo sospesi, in attesa.
Mi chiedo se un giorno
anche io farò la stessa fine. Ma fino a quel momento, continuo a muovermi.
Continuo a cercare. Forse qualcosa di diverso, forse qualcuno ancora vivo.
Le autorità non
esistono più, nemmeno come voce distante alla radio. Le ultime trasmissioni
erano spezzoni confusi, discorsi interrotti da interferenze e sussurri. Poi,
anche quelle si erano spente. Ora, è solo questo gelo, che avanza inesorabile,
e io, che sopravvivo. Forse per niente. Forse solo per prolungare
l’inevitabile.
Ogni tanto, fermandomi
a osservare le strade, penso che il freddo non sia mai stato solo una forza
naturale. Penso che il ghiaccio abbia fame, che ci stia cacciando uno ad uno, e
che si nutrirà della nostra disperazione fino a quando l’ultimo respiro umano
non si sarà spento. Allora, forse, anche il vento smetterà di soffiare, e il
silenzio sarà totale.
Ma per ora, resto in
piedi.
Indosso tutti gli strati
di vestiti che possiedo, come un astronauta in una missione suicida. Guanti,
passamontagna, giacca tecnica: è la mia armatura contro un mondo che non
riconosco più. Ho visto i miei vicini lasciare l’edificio uno dopo l’altro,
fuggire in cerca di un miraggio che non troveranno mai. Le riunioni
condominiali si erano trasformate in scontri verbali, ognuno pronto a difendere
la propria sopravvivenza a scapito degli altri. Alla fine, si è deciso che non
eravamo una comunità. Siamo solo individui isolati in attesa della fine.
Non so dove siano
andati tutti. Alcuni, li ho trovati io. Corpi congelati, deformati dal freddo.
Un giorno, ho visto brandelli di abiti portati dal vento. Mi avventuro sempre
più lontano, in quartieri che non riconosco più, come un esploratore di un deserto
bianco. Ma mai di notte. La notte è diversa. Il gelo diventa qualcosa di vivo,
qualcosa che sussurra promesse di morte.
È giugno, ma nessuno lo
direbbe. La temperatura è scesa a -15° e sembra di vivere in un’eterna tundra.
È come se l'inverno si fosse divorato tutte le stagioni. Nessuna estate, nessun
autunno, solo questo gelo senza fine.
L’inverno sta
arrivando, ripeto tra me e me. Non è più solo una stagione, ma un presagio,
l’ombra di un inverno eterno che si stende sulla vita stessa. Ogni giorno che
passa, lo sento avvicinarsi, come un predatore paziente. Non parlo solo del
freddo, ma della fine. La fine di tutto ciò che conosciamo, l’inizio di un’era
di ghiaccio che non conoscerà tregua.
Guardo fuori,
attraverso i vetri coperti di brina, e penso al futuro che non vedrò mai.
Scrivo i miei ultimi pensieri, consapevole che il mio tempo sta per scadere. Mi
preparo per il giorno in cui non ci sarà più un giorno. Ripercorro la mia vita
e, stranamente, sorrido. Ho sempre amato l’inverno, la neve, il gelo. Ironico
che saranno proprio loro a segnare la mia fine. Il mio epitaffio sarà inciso
sul ghiaccio, un ultimo messaggio congelato nel tempo.
Il vento urla fuori,
sollevando cumuli di neve in spirali che danzano nel vuoto, come fantasmi senza
pace. Ogni fiocco sembra sospeso in un’eternità bianca, un balletto macabro
sotto un cielo che ha perso ogni traccia di azzurro. È strano come il tempo stesso
sembri essersi fermato, congelato insieme al resto del mondo. Il bianco
accecante è tutto ciò che riesco a vedere. Un bianco che soffoca, che consuma,
che cancella.
Il freddo penetra
persino le pareti del mio rifugio. Non importa quanti strati di vestiti indosso
o quante coperte mi avvolgono. Il gelo è vivo, è una creatura che si insinua
dentro di te, lenta e silenziosa, fino a che non diventi parte di esso. Ormai il
mio corpo si è adattato, o meglio, si è arreso. Non sento quasi più le mani, e
il respiro è un velo di nebbia che si dissolve subito, come se anche l’aria non
volesse rimanere troppo a lungo in questo inferno gelato.
Mi chiedo, come in un
pensiero lontano, cosa sarà dell’umanità. Chi sopravviverà a questo? Se mai
qualcuno lo farà. Chi avrà la forza di vedere il mondo rinascere da questo
inverno senza fine? Un "dopo". Una parola che suona vuota, senza
significato. Non ci sarà un dopo per me. Forse nemmeno per chi verrà dopo di
me. Le città sono già tombe di ghiaccio, cimiteri per chi ha creduto che la
civiltà potesse resistere a qualsiasi cosa. Ma non a questo.
Osservo il mio riflesso
in una lastra di vetro coperta di brina, i lineamenti appena distinguibili
sotto la pellicola di ghiaccio che si forma costantemente. Sono pallido, gli
occhi incavati, la barba incolta. Non riconosco più me stesso. Il mio nome? È irrilevante
ormai. Presto sarò solo un corpo congelato, un resto umano sepolto sotto metri
di neve e ghiaccio, una reliquia dimenticata in una città senza vita. La mia
identità non importa. Non a questo mondo.
È ironico, penso. Gli
uomini hanno sempre creduto di poter controllare tutto, persino la natura. Ci
siamo costruiti grattacieli, abbiamo sconfitto malattie, mandato sonde oltre i
confini della Terra. Ma il freddo? Il freddo ci ha ricordato chi siamo davvero.
Siamo creature fragili, legate a un equilibrio così sottile che basta una
piccola deviazione per farci crollare. E ora l’equilibrio si è spezzato, e
l’inverno ha preso il controllo.
Dicono che ci sia stato un momento, tanto tempo fa, in cui avremmo potuto fermarlo. Che gli scienziati avessero visto arrivare questa catastrofe. Ma nessuno li ha ascoltati. Troppo impegnati a correre dietro al progresso, al profitto, all'illusione di una crescita infinita. Nessuno ha creduto che il mondo potesse cambiare così, tutto in una volta. Nessuno ha creduto che l'inverno potesse non finire mai.
Ora non c’è più niente.
Solo gelo, ovunque. Non ci sono stagioni, non c’è più il verde degli alberi, il
calore del sole o il canto degli uccelli. Solo il silenzio. E il freddo. Un
freddo che ti avvolge come una coperta pesante, che ti toglie il respiro lentamente,
fino a che non ti addormenti in esso. Ho visto tanti arrendersi. Forse lo farò
anch'io, presto.
L’inverno è arrivato.
Non è solo una stagione, è la nuova realtà. Ogni giorno lo sento più vicino,
come una presenza costante che non mi abbandona mai. Non è il freddo della
natura, è qualcosa di più. È il freddo che viene dalla fine delle cose. Il
freddo dell’assenza. Del nulla.
Non c’è più un domani.
O, se c’è, non sarà un domani per noi. Forse per un’altra specie, qualcosa che
saprà vivere in questo mondo congelato, che non avrà bisogno del calore o della
luce. Qualcosa che sorgerà dalle rovine della nostra arroganza. Ma a me non
importa. Non ci sarò.
Mi domando, prima di
chiudere gli occhi, come sarebbe stato vivere in un mondo che avesse saputo
ascoltare, che avesse avuto la saggezza di fermarsi prima del disastro. Ma è un
pensiero futile. Il vento urla ancora fuori, e la neve continua a cadere. L'inverno
è arrivato. Di nuovo. E questa volta, non se ne andrà mai più.
Sopra di me, le travi
del rifugio tremano per le raffiche. È un rumore che conosco ormai fin troppo
bene. Una volta mi spaventava, ma adesso è diventato solo un’altra parte del
paesaggio sonoro della mia vita. Lo stesso paesaggio che ora comprende il crepitio
del fuoco che si spegne troppo presto, i gemiti delle pareti che cedono al
gelo, e i miei stessi pensieri che vagano, più pesanti di quanto avrei mai
voluto.
Non so quando è
iniziato tutto. Forse l’inverno eterno ha avuto inizio molto prima che la neve
iniziasse a cadere senza sosta. Forse l’inverno ha iniziato a germogliare nei
cuori delle persone, nel momento in cui ci siamo convinti di poter dominare
tutto, ignorando i segni, le avvisaglie, il richiamo della Terra.
Ricordo, vagamente,
come era il mondo prima. Il cielo aveva un colore diverso, un blu che adesso
sembra impossibile immaginare. L’aria era più leggera, profumava di fiori, erba
appena tagliata, pioggia d’estate. C’erano le stagioni, e ognuna portava con sé
un ritmo, un senso, un ciclo. Ma tutto questo appartiene ormai ai ricordi che
si sbiadiscono. È come guardare vecchie fotografie ingiallite dal tempo: sai
che ciò che vedi era reale, eppure, sembra così lontano da sembrare un sogno.
Adesso, tutto è bianco.
Una coltre infinita di ghiaccio e neve copre il mondo. Non c’è più primavera,
né estate, né autunno. Solo il gelido abbraccio dell’inverno. L’umanità ha
cercato di resistere, costruendo rifugi sotterranei, scavando nelle montagne,
cercando riparo nel ventre della Terra. Ma per quanto tempo possiamo davvero
sopravvivere così?
Non sono l’unico
rimasto, lo so. Là fuori ci sono altri, dispersi tra le rovine di città
sepolte, nelle profondità delle foreste congelate, nei silos abbandonati. Ma la
verità è che siamo soli, ognuno di noi. Una volta, forse, avrei cercato di
trovarli. Avrei avuto la speranza di costruire qualcosa insieme, un’ultima
resistenza contro questo inverno senza fine. Ora, però, so che è una battaglia
persa.
Mi alzo lentamente, il
gelo mi ha irrigidito le membra. Avvolgo la vecchia coperta attorno a me,
l’unico lusso rimasto in questo posto dimenticato da ogni cosa. Il fuoco si sta
spegnendo, e non ho altra legna da bruciare. Mi dirigo verso la finestra, una
piccola apertura che si affaccia su ciò che un tempo era una valle verde e
rigogliosa. Ora è solo un mare bianco, increspato dai vortici del vento. Non si
vede nulla oltre la nebbia del freddo, eppure il rumore è assordante.
In giornate come
questa, mi chiedo come sia possibile che non ci siamo accorti prima. Le parole
dei pochi che avevano cercato di avvisarci risuonano ancora nella mia mente, ma
all’epoca sembravano solo allarmismi, esagerazioni di persone che non comprendevano
il “progresso”. Abbiamo ignorato i segni: le tempeste sempre più violente, le
stagioni che si confondevano tra loro, gli animali che sparivano
silenziosamente. Pensavamo che la tecnologia ci avrebbe salvato. Pensavamo di
essere invincibili.
Ma alla fine, la Terra
ci ha parlato nel suo linguaggio primordiale, e noi non abbiamo avuto altra
scelta che ascoltare. Troppo tardi, però. Molti sono morti subito, presi alla
sprovvista dal grande gelo. Altri hanno resistito per un po’, costruendo barriere,
scavando rifugi. Ma l’inverno non fa prigionieri, non offre tregua. Ogni anno
che passava, ci ritrovavamo sempre più deboli, sempre più esausti.
Mi chiedo, mentre fisso
l'orizzonte, se c’è mai stato un modo per evitare tutto questo. Forse, se
avessimo ascoltato i saggi, i poeti, i custodi delle antiche tradizioni. Forse,
se avessimo prestato attenzione alle urla della Terra, ai suoi lamenti. Ma il
forse è un pensiero inutile, una distrazione in un mondo che non lascia spazio
a rimpianti o illusioni.
Chiudo gli occhi per un
attimo. Il vento, fuori, sembra ululare più forte, come un lupo affamato. Forse
mi sto abituando a questo rumore. O forse, in fondo, sto semplicemente
accettando che non c’è altro da sentire. Mi stringo la coperta addosso e mi lascio
cadere sulla sedia di legno accanto al camino spento. La legna è finita, come
tutto il resto.
È curioso come, in
questo ultimo atto di resistenza, non ci sia rabbia. Non c’è frustrazione, né
paura. Solo un’apatia gelida, una calma che scivola dentro di me come la neve
che si deposita silenziosa sui resti del mondo. Mi viene in mente un vecchio detto:
"L’inverno non è solo una stagione, è uno stato d’animo". Mai
parole furono più vere.
Sospiro. Mi domando
ancora una volta come sarebbe stato se avessimo avuto il coraggio di fermarci,
di cambiare strada. Forse ci sarebbe stata una primavera. Forse avrei visto il
sole sorgere ancora. Ma è un pensiero futile, e lo so.
L'inverno è arrivato.
Di nuovo.
E questa volta, non se
ne andrà mai più.
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