domenica 10 novembre 2024

L’INVERNO STA ARRIVANDO

 



 

Ricordo il motto di un’era passata, quello che un tempo era solo finzione: L’inverno sta arrivando. Ma adesso, non è più una frase tratta da un libro di Corbins. È la nostra realtà, una condanna scritta nel cielo pallido e nelle strade deserte. Sfoglio ancora le vecchie pagine ingiallite di Corbins, come se quelle storie potessero prepararmi a ciò che vedo fuori dalla mia finestra. Là, oltre i vetri screpolati dal gelo, la città è sepolta sotto una coltre di ghiaccio impenetrabile. Non c’è più movimento, nessun rumore. Solo il sibilo incessante del vento che taglia l'aria come una lama.

Le autorità l'hanno chiamata “la piaga del ghiaccio”.

 Il nome, secco e meccanico, non poteva rendere giustizia al terrore che ha divorato il mondo, divorandoci uno ad uno. Non è stato solo l’inizio di un lungo inverno, ma l’inizio della fine. Il freddo era arrivato come un lento veleno, annunciato da bollettini meteorologici che inizialmente sembravano errori: temperature mai viste prima, bufere fuori stagione, venti che squarciavano gli edifici e lasciavano solo un silenzio morto alle spalle.

Ma presto tutti hanno capito. Questo non era un semplice fenomeno atmosferico; era qualcosa di più profondo, più antico, qualcosa che non obbediva alle leggi della natura che credevamo di conoscere.

Ogni volta che uscivo dalla casa dove ancora mi rifugiavo, sentivo il gelo come un morso. Un freddo così intenso che sembrava ustionarmi la pelle, come il tocco del fuoco. Era un dolore sordo e persistente, che non lasciava tregua nemmeno quando rientravo. Le finestre, ormai, erano barricate con strati di legno e metallo, ma il gelo penetrava comunque, insinuandosi ovunque. La casa scricchiolava sotto il peso del ghiaccio che si accumulava ogni giorno di più, come una creatura viva che tentava di seppellirci.

Avventurarsi fuori era un rischio, ma la claustrofobia e la paura della fame mi costringevano a farlo. Ogni passo nelle strade deserte era una sfida alla morte. Un tempo, quelle stesse strade brulicavano di vita: bambini che giocavano, auto che si facevano largo nel traffico, voci e rumori che riempivano l’aria. Ora tutto era silenzioso, una landa desolata e spettrale, congelata in un eterno istante di dolore.

Le automobili erano diventate relitti congelati, come carcasse di animali preistorici bloccati in un mare di ghiaccio. I vetri dei parabrezza erano opachi, coperti da strati di neve e ghiaccio che sembravano cementarsi ogni giorno di più. Dentro, i segni di un’umanità frettolosamente abbandonata: una giacca gettata sul sedile, una borsa sul cruscotto. Ogni cosa sembrava essersi fermata in quell'istante terribile in cui tutti avevano compreso che non c’era più via di fuga. Che l’inverno non sarebbe mai finito.

Non c’erano più cani o gatti, nemmeno gli uccelli osavano più volare sotto quel cielo. Gli esseri viventi, forse i più saggi di tutti, avevano abbandonato la speranza prima ancora di noi. Il silenzio era totale, rotto solo dal soffiare incessante del vento, come il sussurro di una vecchia divinità dimenticata. Solo il gelo restava, persistente, implacabile, come una maledizione lanciata sulla Terra.

Non ero certo di essere l’ultimo, ma non vedevo più nessuno da settimane. I pochi che si erano avventurati fuori nelle prime fasi dell’inverno erano morti presto, uccisi dall'esposizione o spariti in quella distesa bianca. Le città si erano trasformate in mausolei ghiacciati, monumenti vuoti a un mondo che non c'era più.

La notte non arrivava più, non nel senso tradizionale. Il cielo era costantemente grigio, senza mai rivelare il sole. Non c’erano stelle, né luna. Solo un’oscurità perenne e uniforme, come se il cielo stesso fosse morto. La mancanza di luce faceva perdere la cognizione del tempo, come se i giorni si fondessero in un unico lungo incubo.

Ricordo quando è iniziato, il primo segnale chiaro che qualcosa non andava. Era stata una tempesta, un vortice di neve che aveva colpito senza preavviso. Un muro bianco che aveva divorato tutto ciò che incontrava, cancellando le persone dalle strade, risucchiandole nel nulla. Nessuno l’aveva vista arrivare. E dopo, il silenzio. Era come se il mondo avesse trattenuto il fiato, aspettando. Da quel giorno, la neve non aveva più smesso di cadere, a volte leggera e impalpabile, altre volte densa e violenta, come se volesse sommergere ogni cosa.

Ogni tanto trovavo rifugio in qualche edificio abbandonato, ma non era mai sicuro restare troppo a lungo nello stesso posto. Il gelo aveva una strana intelligenza, come se fosse cosciente della nostra presenza. Penetrava attraverso i muri, sotto le porte, cercando di strapparci quel poco di calore che ci rimaneva. E non solo: sembrava prendersi anche i nostri pensieri, la nostra volontà. L’apatia era il primo sintomo, poi veniva la stanchezza, e infine il sonno. Un sonno da cui non ci si risvegliava mai più.

Ho visto i corpi di quelli che avevano ceduto. Si sdraiavano, quasi serenamente, sotto strati di neve e ghiaccio. I loro volti erano immobili, congelati in un ultimo momento di sollievo. Eppure, c’era qualcosa di innaturale in loro, come se non fossero davvero morti, ma solo sospesi, in attesa.

Mi chiedo se un giorno anche io farò la stessa fine. Ma fino a quel momento, continuo a muovermi. Continuo a cercare. Forse qualcosa di diverso, forse qualcuno ancora vivo.

Le autorità non esistono più, nemmeno come voce distante alla radio. Le ultime trasmissioni erano spezzoni confusi, discorsi interrotti da interferenze e sussurri. Poi, anche quelle si erano spente. Ora, è solo questo gelo, che avanza inesorabile, e io, che sopravvivo. Forse per niente. Forse solo per prolungare l’inevitabile.

Ogni tanto, fermandomi a osservare le strade, penso che il freddo non sia mai stato solo una forza naturale. Penso che il ghiaccio abbia fame, che ci stia cacciando uno ad uno, e che si nutrirà della nostra disperazione fino a quando l’ultimo respiro umano non si sarà spento. Allora, forse, anche il vento smetterà di soffiare, e il silenzio sarà totale.

Ma per ora, resto in piedi.

Indosso tutti gli strati di vestiti che possiedo, come un astronauta in una missione suicida. Guanti, passamontagna, giacca tecnica: è la mia armatura contro un mondo che non riconosco più. Ho visto i miei vicini lasciare l’edificio uno dopo l’altro, fuggire in cerca di un miraggio che non troveranno mai. Le riunioni condominiali si erano trasformate in scontri verbali, ognuno pronto a difendere la propria sopravvivenza a scapito degli altri. Alla fine, si è deciso che non eravamo una comunità. Siamo solo individui isolati in attesa della fine.

Non so dove siano andati tutti. Alcuni, li ho trovati io. Corpi congelati, deformati dal freddo. Un giorno, ho visto brandelli di abiti portati dal vento. Mi avventuro sempre più lontano, in quartieri che non riconosco più, come un esploratore di un deserto bianco. Ma mai di notte. La notte è diversa. Il gelo diventa qualcosa di vivo, qualcosa che sussurra promesse di morte.

È giugno, ma nessuno lo direbbe. La temperatura è scesa a -15° e sembra di vivere in un’eterna tundra. È come se l'inverno si fosse divorato tutte le stagioni. Nessuna estate, nessun autunno, solo questo gelo senza fine.

L’inverno sta arrivando, ripeto tra me e me. Non è più solo una stagione, ma un presagio, l’ombra di un inverno eterno che si stende sulla vita stessa. Ogni giorno che passa, lo sento avvicinarsi, come un predatore paziente. Non parlo solo del freddo, ma della fine. La fine di tutto ciò che conosciamo, l’inizio di un’era di ghiaccio che non conoscerà tregua.

Guardo fuori, attraverso i vetri coperti di brina, e penso al futuro che non vedrò mai. Scrivo i miei ultimi pensieri, consapevole che il mio tempo sta per scadere. Mi preparo per il giorno in cui non ci sarà più un giorno. Ripercorro la mia vita e, stranamente, sorrido. Ho sempre amato l’inverno, la neve, il gelo. Ironico che saranno proprio loro a segnare la mia fine. Il mio epitaffio sarà inciso sul ghiaccio, un ultimo messaggio congelato nel tempo.

Il vento urla fuori, sollevando cumuli di neve in spirali che danzano nel vuoto, come fantasmi senza pace. Ogni fiocco sembra sospeso in un’eternità bianca, un balletto macabro sotto un cielo che ha perso ogni traccia di azzurro. È strano come il tempo stesso sembri essersi fermato, congelato insieme al resto del mondo. Il bianco accecante è tutto ciò che riesco a vedere. Un bianco che soffoca, che consuma, che cancella.

Il freddo penetra persino le pareti del mio rifugio. Non importa quanti strati di vestiti indosso o quante coperte mi avvolgono. Il gelo è vivo, è una creatura che si insinua dentro di te, lenta e silenziosa, fino a che non diventi parte di esso. Ormai il mio corpo si è adattato, o meglio, si è arreso. Non sento quasi più le mani, e il respiro è un velo di nebbia che si dissolve subito, come se anche l’aria non volesse rimanere troppo a lungo in questo inferno gelato.

Mi chiedo, come in un pensiero lontano, cosa sarà dell’umanità. Chi sopravviverà a questo? Se mai qualcuno lo farà. Chi avrà la forza di vedere il mondo rinascere da questo inverno senza fine? Un "dopo". Una parola che suona vuota, senza significato. Non ci sarà un dopo per me. Forse nemmeno per chi verrà dopo di me. Le città sono già tombe di ghiaccio, cimiteri per chi ha creduto che la civiltà potesse resistere a qualsiasi cosa. Ma non a questo.

Osservo il mio riflesso in una lastra di vetro coperta di brina, i lineamenti appena distinguibili sotto la pellicola di ghiaccio che si forma costantemente. Sono pallido, gli occhi incavati, la barba incolta. Non riconosco più me stesso. Il mio nome? È irrilevante ormai. Presto sarò solo un corpo congelato, un resto umano sepolto sotto metri di neve e ghiaccio, una reliquia dimenticata in una città senza vita. La mia identità non importa. Non a questo mondo.

È ironico, penso. Gli uomini hanno sempre creduto di poter controllare tutto, persino la natura. Ci siamo costruiti grattacieli, abbiamo sconfitto malattie, mandato sonde oltre i confini della Terra. Ma il freddo? Il freddo ci ha ricordato chi siamo davvero. Siamo creature fragili, legate a un equilibrio così sottile che basta una piccola deviazione per farci crollare. E ora l’equilibrio si è spezzato, e l’inverno ha preso il controllo.

Dicono che ci sia stato un momento, tanto tempo fa, in cui avremmo potuto fermarlo. Che gli scienziati avessero visto arrivare questa catastrofe. Ma nessuno li ha ascoltati. Troppo impegnati a correre dietro al progresso, al profitto, all'illusione di una crescita infinita. Nessuno ha creduto che il mondo potesse cambiare così, tutto in una volta. Nessuno ha creduto che l'inverno potesse non finire mai.





Ora non c’è più niente. Solo gelo, ovunque. Non ci sono stagioni, non c’è più il verde degli alberi, il calore del sole o il canto degli uccelli. Solo il silenzio. E il freddo. Un freddo che ti avvolge come una coperta pesante, che ti toglie il respiro lentamente, fino a che non ti addormenti in esso. Ho visto tanti arrendersi. Forse lo farò anch'io, presto.

L’inverno è arrivato. Non è solo una stagione, è la nuova realtà. Ogni giorno lo sento più vicino, come una presenza costante che non mi abbandona mai. Non è il freddo della natura, è qualcosa di più. È il freddo che viene dalla fine delle cose. Il freddo dell’assenza. Del nulla.

Non c’è più un domani. O, se c’è, non sarà un domani per noi. Forse per un’altra specie, qualcosa che saprà vivere in questo mondo congelato, che non avrà bisogno del calore o della luce. Qualcosa che sorgerà dalle rovine della nostra arroganza. Ma a me non importa. Non ci sarò.

Mi domando, prima di chiudere gli occhi, come sarebbe stato vivere in un mondo che avesse saputo ascoltare, che avesse avuto la saggezza di fermarsi prima del disastro. Ma è un pensiero futile. Il vento urla ancora fuori, e la neve continua a cadere. L'inverno è arrivato. Di nuovo. E questa volta, non se ne andrà mai più.

Sopra di me, le travi del rifugio tremano per le raffiche. È un rumore che conosco ormai fin troppo bene. Una volta mi spaventava, ma adesso è diventato solo un’altra parte del paesaggio sonoro della mia vita. Lo stesso paesaggio che ora comprende il crepitio del fuoco che si spegne troppo presto, i gemiti delle pareti che cedono al gelo, e i miei stessi pensieri che vagano, più pesanti di quanto avrei mai voluto.

Non so quando è iniziato tutto. Forse l’inverno eterno ha avuto inizio molto prima che la neve iniziasse a cadere senza sosta. Forse l’inverno ha iniziato a germogliare nei cuori delle persone, nel momento in cui ci siamo convinti di poter dominare tutto, ignorando i segni, le avvisaglie, il richiamo della Terra.

Ricordo, vagamente, come era il mondo prima. Il cielo aveva un colore diverso, un blu che adesso sembra impossibile immaginare. L’aria era più leggera, profumava di fiori, erba appena tagliata, pioggia d’estate. C’erano le stagioni, e ognuna portava con sé un ritmo, un senso, un ciclo. Ma tutto questo appartiene ormai ai ricordi che si sbiadiscono. È come guardare vecchie fotografie ingiallite dal tempo: sai che ciò che vedi era reale, eppure, sembra così lontano da sembrare un sogno.

Adesso, tutto è bianco. Una coltre infinita di ghiaccio e neve copre il mondo. Non c’è più primavera, né estate, né autunno. Solo il gelido abbraccio dell’inverno. L’umanità ha cercato di resistere, costruendo rifugi sotterranei, scavando nelle montagne, cercando riparo nel ventre della Terra. Ma per quanto tempo possiamo davvero sopravvivere così?

Non sono l’unico rimasto, lo so. Là fuori ci sono altri, dispersi tra le rovine di città sepolte, nelle profondità delle foreste congelate, nei silos abbandonati. Ma la verità è che siamo soli, ognuno di noi. Una volta, forse, avrei cercato di trovarli. Avrei avuto la speranza di costruire qualcosa insieme, un’ultima resistenza contro questo inverno senza fine. Ora, però, so che è una battaglia persa.

Mi alzo lentamente, il gelo mi ha irrigidito le membra. Avvolgo la vecchia coperta attorno a me, l’unico lusso rimasto in questo posto dimenticato da ogni cosa. Il fuoco si sta spegnendo, e non ho altra legna da bruciare. Mi dirigo verso la finestra, una piccola apertura che si affaccia su ciò che un tempo era una valle verde e rigogliosa. Ora è solo un mare bianco, increspato dai vortici del vento. Non si vede nulla oltre la nebbia del freddo, eppure il rumore è assordante.

In giornate come questa, mi chiedo come sia possibile che non ci siamo accorti prima. Le parole dei pochi che avevano cercato di avvisarci risuonano ancora nella mia mente, ma all’epoca sembravano solo allarmismi, esagerazioni di persone che non comprendevano il “progresso”. Abbiamo ignorato i segni: le tempeste sempre più violente, le stagioni che si confondevano tra loro, gli animali che sparivano silenziosamente. Pensavamo che la tecnologia ci avrebbe salvato. Pensavamo di essere invincibili.

 

Ma alla fine, la Terra ci ha parlato nel suo linguaggio primordiale, e noi non abbiamo avuto altra scelta che ascoltare. Troppo tardi, però. Molti sono morti subito, presi alla sprovvista dal grande gelo. Altri hanno resistito per un po’, costruendo barriere, scavando rifugi. Ma l’inverno non fa prigionieri, non offre tregua. Ogni anno che passava, ci ritrovavamo sempre più deboli, sempre più esausti.

Mi chiedo, mentre fisso l'orizzonte, se c’è mai stato un modo per evitare tutto questo. Forse, se avessimo ascoltato i saggi, i poeti, i custodi delle antiche tradizioni. Forse, se avessimo prestato attenzione alle urla della Terra, ai suoi lamenti. Ma il forse è un pensiero inutile, una distrazione in un mondo che non lascia spazio a rimpianti o illusioni.

Chiudo gli occhi per un attimo. Il vento, fuori, sembra ululare più forte, come un lupo affamato. Forse mi sto abituando a questo rumore. O forse, in fondo, sto semplicemente accettando che non c’è altro da sentire. Mi stringo la coperta addosso e mi lascio cadere sulla sedia di legno accanto al camino spento. La legna è finita, come tutto il resto.

È curioso come, in questo ultimo atto di resistenza, non ci sia rabbia. Non c’è frustrazione, né paura. Solo un’apatia gelida, una calma che scivola dentro di me come la neve che si deposita silenziosa sui resti del mondo. Mi viene in mente un vecchio detto: "L’inverno non è solo una stagione, è uno stato d’animo". Mai parole furono più vere.

Sospiro. Mi domando ancora una volta come sarebbe stato se avessimo avuto il coraggio di fermarci, di cambiare strada. Forse ci sarebbe stata una primavera. Forse avrei visto il sole sorgere ancora. Ma è un pensiero futile, e lo so.

L'inverno è arrivato. Di nuovo.

E questa volta, non se ne andrà mai più.

 



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