Lavinia
Da
quando eri tornato in Italia, dopo una lunga permanenza in Irlanda, non ti
eri perso nessuna commemorazione del St. Patrick's Day.
Nulla di paragonabile ai festeggiamenti
sfrenati e vivaci a cui ti eri abituato sull’isola verde.
Strade piene di persone
vestite di verde, la musica folk che riempiva l'aria e le risate che
riecheggiavano ovunque nei pub.
In Italia, era solo
l’occasione di farsi due pinte con gli amici, un piccolo tributo nostalgico a
quel capitolo della tua vita.
Da dieci anni a questa
parte, il 17 marzo era diventato una data intoccabile nel tuo calendario,
nonostante i numerosi impegni lavorativi. Era un rituale, un momento di pausa
in cui potevi ritrovare un po’ di te stesso.
Ma quell’anno, le cose
andarono in maniera diversa. Non pianificasti nulla di particolare e ti
limitasti a una birra veloce con i colleghi prima di tornare a casa.
Guidasti attraverso la
città, la radio che trasmetteva in sottofondo Pyramide song dei
Radiohead.
Ho saltato nel fiume, e cosa ho visto?
Angeli dagli occhi neri nuotare con me
Una luna piena di stelle e macchine astrali
Tutte le figure che ero solito vedere
Tutte le mie amanti erano lì con me
Tutto il mio passato ed il futuro
E andammo tutti in paradiso su una piccola barca a remi
Non c'era nulla da
temere e niente di cui dubitare senza che tu prestassi attenzione a una singola
parola. La giornata era stata lunga, estenuante. Riunioni infinite, scadenze
pressanti, e un cliente insoddisfatto che ti aveva trascinato in una conversazione
senza fine. Il traffico, denso e oppressivo, non faceva che alimentare il
malumore che ti stava lentamente logorando. Le luci arancioni dei lampioni si
riflettevano sulla carrozzeria della tua auto nera creando bagliori
intermittenti che ti stancavano gli occhi.
Finalmente, arrivasti
davanti al portone di casa tua. Era una serata normale, silenziosa.
Troppo silenziosa,
pensasti.
Forse era solo la
stanchezza a renderti nervoso, o forse l’idea di tornare in una casa vuota,
sapendo che tua moglie non ti avrebbe accolto come al solito, perché negli
ultimi mesi era distante, chiusa. Non avevi mai trovato il coraggio di parlarne
con lei.
Apristi la porta
d’ingresso, e il silenzio fu la prima cosa che ti colpì. Era un silenzio
innaturale, freddo, che sembrava gravare sulle pareti. Non c’era il rumore
della televisione in sottofondo, non c’era il suono dei suoi passi che si
muovevano per casa.
Lavinia chiamasti, la
voce incerta. Nessuna risposta. Riprovasti, più forte, ma ancora niente.
Entrasti nel soggiorno,
e lo trovasti immerso nell’oscurità. Solo una debole luce filtrava dal
corridoio, proveniente dalla vostra camera da letto. Ti bloccasti per un
attimo, un presagio oscuro ti serrava il petto. Era come se qualcosa dentro di
te sapesse già cosa stava per accadere, ma la tua mente si rifiutava di
accettarlo.
Facesti un passo, poi
un altro, avanzando lentamente lungo il corridoio. La porta della camera era
semiaperta, lasciando uscire una luce fioca e tremolante. Il cuore ti batteva
all’impazzata, quasi soffocante, ma non sapevi perché. Era solo una normale serata,
giusto? Forse lei stava dormendo, stanca come te. Forse.
Spingesti la porta e il
mondo si fermò.
Tua moglie era lì,
appesa al soffitto. Una corda grezza, rossa troppo reale per sembrare un
incubo, le stringeva il collo con una brutalità quasi crudele. Il suo corpo
pendeva immobile, i piedi sollevati da terra di pochi centimetri. Oscillava
leggermente, come se il tempo stesso si fosse fermato solo per lei. L'aria era
immobile, densa, mentre i tuoi occhi si riempivano di una scena che non avresti
mai voluto vedere.
Gridasti il suo nome
con un’urgenza disperata, la tua voce si spezzò in un grido soffocato che si
perse nella stanza.
Andasti verso di lei, le mani tremanti, cercando di
sciogliere la corda, ma le dita non rispondevano.
Scivolavi, inciampando
e le tue mani sudate incapaci di fare nulla. Guardasti le tue dita e ti
sembrarono inutili arnesi. Alla fine, riuscisti a liberarla, ma il suo corpo si
afflosciò tra le tue braccia, freddo, immobile.
Il suo volto, che avevi
baciato migliaia di volte, era adesso una maschera pallida, estranea.
Non c’era più vita, non
c’era più il suo sorriso triste che ti accoglieva ogni sera.
Ti inginocchiasti,
tenendola stretta, sperando che in qualche modo quel contatto potesse
riportarla indietro. Ma il suo corpo era rigido, senza calore. Era già troppo
tardi.
La sensazione di perdita ti travolse come
un’ondata glaciale, e ogni cosa dentro di te si ruppe.
Il tuo mondo crollava,
pezzo dopo pezzo.
Poi notasti qualcosa
sul comodino, una piccola nota piegata con cura. La prendesti con mani
tremanti, il cuore che batteva dolorosamente nel petto. Non volevi leggerla.
Non volevi sapere cosa avesse scritto, perché quella verità era troppo pesante
da affrontare. Ma alla fine, la apristi.
“Mi dispiace. Non
potevo più vivere nella menzogna”
Erano solo poche
parole, ma ogni lettera ti trafisse come una lama. “Mi dispiace. Non potevo
più vivere nella menzogna Cosa intendeva? Aveva sofferto in silenzio,
nascosta dietro un velo di sorrisi che ora sembravano falsi? Era stata così
lontana, e tu non te n'eri nemmeno accorto.
Il dolore che provavi
era insopportabile, un buco nero che si espandeva nel tuo petto, divorando ogni
pensiero, ogni emozione. Ti accasciasti a terra, stringendola ancora una volta
tra le braccia, come se quel gesto potesse trattenere l’ultimo frammento di
lei, la donna che avevi amato e che ora era andata via per sempre, in un modo
che non avresti mai potuto immaginare.
Il silenzio, quello
stesso silenzio che avevi avvertito entrando in casa, tornava a dominare tutto.
Ma questa volta era più cupo, più definitivo. Era il silenzio della perdita,
della fine. Rimanesti lì, con lei, in un abbraccio che sapevi non avrebbe mai
potuto riportarla indietro.
Restasti lì, il corpo
di lei ancora caldo contro il tuo, ma la sua mente era andata in un vuoto
freddo e siderale.
Doveva essere successo
in quel momento, quando il silenzio si era fatto così pesante, così soffocante
e reale. Non c’era più nulla da dire. Non c’era più nulla da fare.
Era da mesi che lei non
parlava più. All’inizio aveva cercato di lottare, di resistere. Ma qualcosa
dentro di lei si era spezzato, e il silenzio era diventato il suo unico
rifugio: “Mi dispiace. Non potevo più vivere nella menzogna” Tu l’avevi
tenuta stretta, cercando di proteggerla, sperando che ci fosse ancora una parte
di lei che potesse reagire. Ma ogni giorno era più distante, più assente. E ora
che giaceva immobile tra le tue braccia, sapevi che era finita.
Ti dirigesti verso la
porta, sapendo che non avresti trovato nulla di diverso là fuori. Ma non potevi
restare lì. Avevi bisogno di muoverti, di fare qualcosa, anche se non c’era più
speranza. Ogni passo ti sembrava pesante, come se stessi trascinando con te
quel silenzio mortale.
Fuori, il mondo stava
cambiando.
E capisti. Era finita
per tutti, non solo per lei. Il silenzio che sentivi non era solo la sua
perdita. Era la fine di un'intera umanità, la cancellazione di tutto ciò che un
tempo eravate stati.
E in quel silenzio, ti
accorgesti che non avevi nemmeno più la forza di lottare.
Il silenzio che seguì
era qualcosa di più profondo del dolore. Era la cessazione del battito
collettivo, come se un'intera umanità avesse smesso di respirare in sincronia.
Il suono delle auto in lontananza, il brusio delle voci, tutto sembrava
ovattato, distante, come se stessi osservando il mondo attraverso un vetro
spesso, con l'acqua che filtrava lentamente e copriva tutto di un velo opaco.
Non c'era più lotta
dentro di te. Non c'era più forza, né rabbia. Solo una stanchezza che ti
schiacciava sotto il peso dell'ineluttabilità. Il tempo si era frantumato. Non
c'erano più ieri o domani, solo un presente immobile, eterno nella sua
soffocante mediocrità. Restavi lì, fermo, mentre tutto sprofondava intorno a
te, pezzo dopo pezzo. Il mondo, il tuo mondo, si sgretolava come cenere gettata
al vento.
Quell’oscurità che
cresceva dentro e fuori di te non era solo dolore o disperazione, ma la livida
consapevolezza della normalità che segue la morte. Una morte improvvisa, come
una mano fredda che strappa via tutto in un attimo, lasciando dietro di sé la quotidianità.
Non c'erano lacrime abbastanza profonde per coprire la banalità straziante
delle piccole cose: la tazza di caffè lasciata sul tavolo, la coperta
accartocciata sul divano, la sua giacca appesa che non avrebbe più sfiorato.
E così arrivarono i
rapporti. Prima la polizia, poi il medico legale, e ogni volta che sentivi una
nuova parola su come fosse accaduto, sembrava che tutto diventasse più irreale.
Ogni dettaglio clinico, ogni frase detta con calma burocratica ti scavava dentro,
ma non riuscivi a sentirne il peso. Come se quelle informazioni non
appartenessero davvero a te. Come se fossero il racconto della vita di qualcun
altro, un'altra realtà che ti era stata imposta a forza.
Il funerale fu un
susseguirsi di volti che ti sembravano sfocati, sbiaditi. Amici e parenti
venivano, ti guardavano, chiedevano, cercavano di colmare il vuoto con parole
che non avevano senso. “Com'è successo?” ti chiedevano, come se ci fosse una
spiegazione logica, una narrazione che potesse dare conforto. Ma non c’era
niente. Nemmeno tu riuscivi a capire. Sembrava che il mondo esterno si stesse
prendendo gioco di te, ti stesse trascinando in un vortice macabro in cui
niente era più reale, dove tutto poteva accadere e non accadere allo stesso
tempo.
Gli avvocati arrivarono
poco dopo. Formalità, documenti, firme. Nomi e numeri. Pratiche da concludere.
E tu eri ancora lì, con le mani che tremavano leggermente, senza capire cosa
stesse accadendo. Come se la tua stessa esistenza fosse diventata un’ombra.
Come se tutto quello che ti circondava non fosse altro che una lunga eco
distorta di qualcosa che un tempo era stato vivo, ma ora era ridotto a
un’ombra, un riflesso che svaniva con ogni movimento.
Ti trovasti a fissare
un muro, senza capire per quanto tempo fossi rimasto immobile. Le lancette
dell’orologio non avevano più significato. Il tempo si era fermato nel momento
stesso in cui avevi capito che non era solo lei a essere scomparsa, ma anche te
stesso. Non sapevi più chi eri, o cosa significasse continuare. Eri
intrappolato tra l’idea della sopravvivenza e l’assurda consapevolezza che non
c’era più nulla per cui lottare.
Il mondo continuava a
crollare, lentamente, inesorabilmente, come una valanga che scivola giù senza
fretta, ma con una forza travolgente. Pezzo dopo pezzo, ogni cosa che avevi
conosciuto, ogni piccola sicurezza, ogni piccolo conforto, tutto si disfaceva davanti
ai tuoi occhi. Il passato, il futuro, le promesse che un tempo ti avevano
sostenuto… nulla aveva più significato.
E alla fine restava
solo quell’oscurità. Non era una notte stellata o un abisso profondo. Era
un’oscurità livida, piatta, opprimente, che ti avvolgeva come una coperta
pesante. Era la banalità straziante della fine, che non giunge con un grido o
una tempesta, ma con un sussurro, con la calma apparente di un giorno qualunque
che si trasforma nell’eternità del nulla.
Ti accorgesti che non
stavi più vivendo. E forse, da tempo, non lo facevi davvero.
Lavinia era morta da
tre settimane. Il suo posto nel letto era ancora intatto, la sua assenza
palpabile, come se ogni angolo della casa avesse perso la sua anima insieme a
lei. Non riuscivi a togliere la vista dalle sue cose, dai libri che stava
leggendo, dai suoi abiti nell'armadio. Le fotografie di Francesca Woodman che
amava tanto e decoravano discretamente le pareti di casa e ogni piccolo oggetto
era un richiamo continuo alla sua presenza, un ricordo doloroso che lei non
c'era più e non sarebbe mai più tornata.
Poi una sera piovosa di
ottobre, una di quelle che sembrano rispecchiare esattamente come ti sentivi
dentro, vuoto, confuso e intrappolato in un'oscurità che non riuscivi a
dissipare, venne interrotta dal suono del telefono. Non ero pronto a parlare
con nessuno, le condoglianze avevano iniziato a diventare uno strazio e ogni
parola che ascoltavo suonava vuota, priva di senso.
Tuttavia, qualcosa ti
convinse a rispondere.
«Pronto? »
Passaro tre, quattro
secondi di silenzio.
«Buonasera. Sono Ingrid
non mi conosce.»
«Infatti. Con chi parlo
esattamente? »
«Conoscevo Lavinia…»
«Ah…Posso esserle
utile? »
«Spero di si. Vorrei
incontrarla, Daniel… »
«Uh…non so se lei è al
corrente, ma Lavinia è… »
«Si lo so. »
«Mi fa capire qualcosa
di più? Io credo di non conoscerla e sinceramente… »
«Io e Lavinia ci
frequentavamo. Non da amiche…»
«Eh? »
«Eravamo intime. »
«Capisco, ma deve avere
pazienza. Per me è un momentaccio e sto facendo ordine… »
«Amanti. »
«Non ho capito. »
«Io e Lavinia avevamo
una relazione amorosa.»
«Ma è assurdo! Voglio
dire….Lei è pazza, mi lasci stare… »
«Lavinia aveva due
piccole voglie sul corpo. Una sulla natica sinistra e una sotto il seno destro.
Ma non è di questo di cui vorrei parlare con lei, Daniel.»
«Si…cioè…Mi sta
mandando in confusione. Io e Lavinia stavamo passando un periodo critico e…Non
so perché sto parlando di lei in questo modo. »
«Lavinia me lo aveva
detto. Ci siamo conosciute un anno fa a casa di amici comuni, durante una
festa. »
«Ma davvero? E chi
sarebbero questi amici comuni? »
«A casa di Fernando e Sergio. »
Passò qualche attimo
prima che Daniel riprendesse la comunicazione.
«Cosa vuole da me? »
«Parlarle. Lavinia
l’amava e tra noi era diverso. »
«Lavinia non me ne ha
mai parlato. »
«Lavinia non parlava
con lei da mesi. Questo la faceva star male, mi creda »
«Ciò atteneva alla
nostra relazione. Nessuno lo poteva sapere… »
«Daniel io so solo
quello che mi diceva Lavinia e per quello che potevo capire è che era ancora
innamorata di lei. Ma stava passando un periodo in cui si teneva tutto dentro e
con me si sfogava…anche sessualmente ed intimamente questo lo aiutava a stare meglio.
Questo lo avevo capito da subito e a me stava bene così. Non pretendevo altro
dalla nostra relazione. Ma …il suo gesto improvviso ha lasciato un segno non risolto anche su di
me. »
«Qualcuno d’altro
sapeva della vostra relazione? »
«No. Non sono quel tipo
di persona. Ma le ho fatto una domanda. »
«Non saprei…Conosceva
una certa Lory. Mi ha detto che era la sua amica fin dal liceo »
« Lory e suo marito
frequentano questa casa da anni. Abbiamo fatto diverse volte le ferie assieme.
Si era una sua amica da molto tempo e si volevano molto bene.»
«Daniel. Mi farò viva
io. Non voglio forzarla adesso. Ma la scongiuro cerchiamo di vederci. Abbiamo
molte cose da chiarire su Lavinia. Facciamolo per lei. »
«Mi lasci del tempo per
riflettere. Tutto è così impreciso, privo di senso compiuto… »
«Non sempre le cose
compiute sono quelle che hanno più senso »
Daniel chiuse la
telefonata con un tremito. Ingrid, una sconosciuta che sembrava uscita dal
nulla, aveva appena devastato l'ordine che con tanta fatica cercava di
ripristinare nella sua vita. Lavinia, la donna che aveva amato, che lo aveva
lasciato così brutalmente, si era suicidata da poco, e lui stava ancora
cercando di raccogliere i pezzi di una storia
finita male. Anzi, peggio.
Seduto sul divano,
ancora con il telefono in mano, come se aspettasse che potesse squillare di
nuovo, come se fosse pronto a rifiutare altre verità scomode. Ingrid aveva
svelato dettagli che nessuno avrebbe potuto conoscere: le voglie di Lavinia,
una relazione segreta, il loro amore, il sesso… Ma ciò che lo tormentava di più
era l’accusa silente nascosta nelle parole di quella donna. Lavinia gli aveva
tenuto nascosto tutto. Si era rifugiata in qualcun altro, e nonostante tutto,
Ingrid sosteneva che Lavinia lo amasse ancora. Il senso di colpa lo travolse.
La casa era immersa nel
silenzio. Nella penombra, Daniel si alzò e si avvicinò alla finestra, guardando
il mondo fuori come se cercasse un modo per uscire dal labirinto della sua
mente. Cosa avrebbe voluto da lui, quella Ingrid? Perché venire ora, quando
Lavinia era ormai polvere nel vento?
La mente di Daniel
corse agli ultimi mesi con Lavinia. Il distacco crescente, il modo in cui lei
si chiudeva sempre più, lasciando che il silenzio riempisse il vuoto tra loro.
Non poteva sapere, non poteva immaginare che stesse soffrendo così tanto. Si erano
amati, poi l'inevitabile erosione della vita li aveva separati. Aveva sempre
pensato che fosse stato solo il logorio della quotidianità, ma adesso quella
telefonata cambiava tutto.
Senza volerlo, gli
occhi gli caddero su una vecchia foto appesa al muro. Lui e Lavinia, felici, in
vacanza. Quel sorriso che ora gli sembrava così distante. “Amava davvero
Ingrid?” si chiese. “O era solo una fuga dalla nostra sofferenza?”
Ingrid aveva detto che
tra loro era diverso, che non voleva altro che un rifugio segreto fatto di
intimità e confidenze. Ma allora perché parlare con lui? Quale verità cercava
di seppellire o portare alla luce?
Decise di chiamare
Lory. Se c'era qualcuno che poteva gettare luce su quel mistero, era lei, la
migliore amica di Lavinia. Al secondo squillo, la voce di Lory rispose, stanca,
quasi diffidente.
«Lory… ciao, sono
Daniel.»
«Daniel? È passato
tanto tempo… che succede?»
Daniel sospirò, la sua
mente in tumulto. «Devo parlarti di qualcosa che mi sta divorando.»
Lory rimase in silenzio
per un momento, come se capisse l’importanza di quelle parole. «Di cosa si
tratta?»
«Una certa Ingrid mi ha
chiamato oggi. Dice di aver avuto una relazione con Lavinia. Tu lo sapevi?»
Dall'altra parte del
telefono, il silenzio si fece pesante. Daniel sentiva il battito del suo cuore
accelerare.
«Sì, lo sapevo.»
Quelle parole caddero
come un macigno. Lory lo sapeva. Da quanto? Perché non gli aveva mai detto
nulla?
«Perché… perché non mi
hai detto niente?» balbettò, sentendo la rabbia crescere.
«Perché non era affar
tuo, Daniel.» La voce di Lory era fredda, distante. «Lavinia era una donna
complessa. So che la amavi, ma non l’hai mai davvero capita. Quella relazione
con Ingrid era un rifugio per lei, un modo per fuggire da tutto ciò che la soffocava.
Eri parte di quel soffocamento, anche se non lo volevi.»
Daniel rimase senza
parole. Tutto ciò che pensava di sapere si stava sgretolando. «Ma… io l’amavo.
Pensavo che stavamo solo attraversando una fase difficile.»
«Forse lo pensavi tu.
Ma per Lavinia non era così. Ti ha amato, Daniel, non fraintendermi. Ma le cose
tra voi si erano incrinate da troppo tempo, e tu non te ne sei mai accorto. Era
troppo sola.»
Quelle parole lo
colpirono come pugni. Aveva amato Lavinia, ma forse l'aveva persa molto prima
di quanto avesse voluto ammettere. Forse Ingrid non era la causa del loro
fallimento, ma solo un sintomo.
«Cosa devo fare ora?»
chiese Daniel, più a sé stesso che a Lory.
«Non so, Daniel. Forse
è il momento di fare pace con il passato. Lavinia è andata via, ma tu sei
ancora qui. Non continuare a cercare risposte in posti dove non potrai
trovarle.»
La chiamata finì,
lasciando Daniel con un peso ancora più grande sul cuore. Aveva perso Lavinia
una seconda volta, non solo per la morte, ma per il fatto che non l'aveva mai
davvero conosciuta.
Sapeva che doveva
incontrare Ingrid.
Avevano trascorso
ventidue anni insieme. Quando lo diceva a qualcuno, ricevevo sempre una qualche
espressione di meraviglia. “Ventidue anni, wow!” Eppure, in quei sorrisi
e complimenti, c’era sempre un sottile interrogativo che restava sospeso
nell’aria. “Com’è possibile? Come si fa a stare tanto tempo con una persona
e non impazzire?”
Sorrideva di rimando e
annuiva, ma dentro di lui una domanda diversa si faceva largo, una domanda che
nessuno sembrava mai porsi: “Come si fa a stare tanto tempo con una persona
e non conoscerla mai davvero?”
Certo, sapeva cosa piaceva a Lavinia, i suoi
cibi preferiti, le canzoni che ascoltava quando era triste, le storie che la
facevano ridere. Sapeva che detestava i giorni di pioggia perché le ricordavano
un’infanzia troppo spesso passata tra le mura fredde di casa, e che adorava il
mare, specialmente all’alba, quando la luce era tenue e il mondo sembrava
ancora avvolto nel sogno. Ma erano dettagli, pezzi di un mosaico che non
riusciva mai a completare. C’erano spazi vuoti, ombre che non riusciva a
dissipare.
Quando si erano
conosciuti, erano entrambi giovani, pieni di speranze e paure. Lei era
affascinante, con quella risata cristallina che mi faceva dimenticare qualsiasi
preoccupazione. La sua presenza era una calamita. Iniziarono a uscire insieme
quasi subito, come se fosse una cosa naturale. Parlavano tanto allora, ore e
ore. C'erano serate in cui si perdevano a discutere del futuro, dei loro sogni,
e altre in cui, senza volerlo, aprivano porte su dolori passati che non
avrebbero mai voluto condividere con nessun altro. Eppure, nonostante quelle
confessioni, sentivano che c’era sempre qualcosa che mi sfuggiva.
Man mano che passavano
gli anni, le parole tra loro si erano diradate. Non c'era bisogno di parlare
tanto, si capivano con uno sguardo. O almeno così credevano. Avevano i loro
rituali: la colazione insieme la domenica mattina, le passeggiate in silenzio al
parco la sera, i viaggi brevi e improvvisati. Eppure, più il tempo passava, più
il silenzio tra di loro sembrava crescere, come una crepa che,
impercettibilmente, si allarga su un vecchio muro. Era un silenzio diverso, non
quello confortevole dell’intimità, ma un silenzio che sembrava nascondere
qualcosa.
C’erano momenti in cui,
nel buio della loro camera, la osservava dormire. Il suo respiro era regolare,
il viso disteso, eppure lui si sentiva lontano. Si chiedeva: Chi era quella
donna accanto a me? Come mai non riuscivo a percepire i suoi pensieri, i suoi
veri desideri? Forse erano cambiati nel corso degli anni e io non me n’ero
accorto? O forse non li avevo mai conosciuti davvero?
Presi dai loro
rispettivi lavori appaganti, Daniel art
director in una società di comunicazione, lei editor presso un’importante casa
editrice, non riuscivamo più a guardare oltre ad esso.
Daniel ricordava una
sera, a tavola. Il solito pasto
silenzioso, il rumore delle forchette sui piatti. Lavinia all’improvviso alzò
gli occhi e lo guardò fisso. “Ti sei mai chiesto se mi conosci davvero?” chiese.
Rimase spiazzato. Una
domanda semplice, apparentemente innocua, eppure lo colpì come un fulmine.
Cercai di rispondere con una risata nervosa. “Certo che ti conosco, Lavinia.
Sono ventidue anni, no?”
Lei non sorrise. Scosse
la testa lentamente, poi si alzò dal tavolo senza dire una parola. Lui rimase
lì, confuso, con una strana sensazione di vuoto. Era una domanda che avrebbe
potuto fare chiunque in una relazione lunga, eppure quella sera aveva un peso
diverso. Sembrava che Lavinia stesse dando una chiave per aprire una porta che
non avevo mai notato prima. Ma non sapeva se voleva aprirla.
Da quel momento,
cominciò a notare dettagli che prima avevo ignorato. Quando uscivano, sembrava
più distante, persa nei suoi pensieri. Spesso la trovava con un libro in mano,
ma non leggevano mai insieme come facevamo un tempo. Aveva l’impressione che ci
fosse un mondo interno a cui non aveva accesso, un labirinto di pensieri ed
emozioni che Lavinia teneva ben nascosto. E forse, si disse, lo stesso valeva
per lui. Si rese conto che anche lui aveva costruito delle mura invisibili nel
corso degli anni. Piccole bugie bianche, desideri mai espressi, pensieri che
aveva trattenuto per non ferirla o per evitare conflitti. Ma quegli ostacoli,
sommati l’uno all’altro, avevano creato una distanza che nessuno dei due sapeva
come colmare.
Una notte, prese
coraggio e le chiese: «Lavinia, cosa non so di te? »
Lei lo guardò a lungo,
in silenzio, e poi rispose: «Molte cose. Ma forse è troppo tardi per
raccontarle.»
Quella frase lo
trafisse. Era davvero troppo tardi? Dopo tutto quel tempo passato insieme, si
erano così allontanati che non c’era più modo di tornare indietro?
Iniziò a pensare a
tutti quei momenti in cui aveva creduto di conoscerla, ma in realtà non aveva
fatto altro che proiettare su di lei le sue aspettative, i sui desideri. Forse
la persona che avevo amato per così tanto tempo non era quella che aveva costruito
nella sua mente. Forse aveva visto solo ciò che voleva vedere, ignorando parti
di lei che non riusciva a comprendere o che preferiva non affrontare.
Con il passare dei
mesi, le cose tra di loro non migliorarono. Continuavano a vivere insieme, a
condividere lo stesso spazio, ma il silenzio tra di loro era diventato
assordante. Un giorno, senza preavviso, Lavinia disse che aveva bisogno di una
pausa e poi se ne andò. Nessun dramma,
nessuna scenata. Solo un addio silenzioso.
Rimase solo, circondato
dalle sue cose, dal suo profumo che ancora aleggiava nella casa. Si sedette sul
divano e per la prima volta, dopo tanto tempo, si sentii perso. Aveva vissuto
ventidue anni con una persona che pensava di conoscere, ma alla fine si rese
conto che non l’aveva mai conosciuta veramente. O forse, il problema era che
non aveva mai conosciuto se stesso.
Il senso di una
relazione, capii allora, non sta solo nel tempo passato insieme, ma nella
capacità di continuare a scoprire l’altro, di accettare che alcune parti di noi
resteranno sempre misteriose. L’errore più grande che avevano fatto era stato
pensare di conoscersi a fondo, di aver raggiunto una sorta di comprensione
totale, quando invece avevano solo grattato la superficie.
Forse, il vero amore
non è tanto nella certezza, quanto nel continuo tentativo di comprendere. Di
cercare, di sbagliare, di ricominciare da capo. E forse, in fondo, il mistero è
ciò che rende una relazione viva. Ma quel pensiero arrivò troppo tardi, come
spesso accade.
Quando le ore
conducevano verso l’alba, sentiva nei loro respiri un sonno fasullo. Il
silenzio nella stanza era spesso, pesante, come se ogni nostra parola non detta
si fosse addensata nell’aria. Non lo stringevi, non lo toccavi per parlare, e
lui faceva lo stesso. Restavi immobile, con gli occhi aperti nel buio,
ascoltando il suono monotono del suo respiro, chiedendomi se eri sveglia .. Era
un rituale ormai, una coreografia di gesti mancati e pensieri taciuti. Non
accendevamo la luce, perché sapevamo entrambi che non sarebbe servito più a
nulla.
C’era qualcosa di così
definitivo in questo silenzio che ti chiedevi perché restavate fermi qui, ad
aspettare. Avrebbe avuto più senso che
uno di loro si fosse alzato e fosse svanito e nella notte, che sarebbe uscito
senza far rumore, con il passo lento di chi non ha fretta di tornare. Forse
dopo qualche giorno, uno di loro avrebbe mandato un amico, qualcuno con un
sorriso di circostanza, armato di scatoloni, per svuotare la loro vita di tutto
ciò che avevano condiviso. Tutti quegli oggetti, un tempo simboli di momenti
felici, verrebbero gettati alla rinfusa, senza più significato. Le fotografie,
i libri, i biglietti di concerti, tutto portato via, come per liberare lo
spazio da un passato che non apparteneva
più a loro.
Ma non facevano neppure
questo. Rimanevano, sospesi in un’attesa infinita, incapaci di prendere una
decisione, come due giocatori di scacchi in un’eterna partita dove nessuno osa
fare la mossa decisiva. Aspettavano reciprocamente
che l’altro prenda l’iniziativa, che uno compisse quel passo troppo difficile da affrontare.
Restavano lì, svegli ed immobili, appostati come sentinelle. Sentinelle di due
campi nemici. Non avevano più il coraggio di parlare, perché ogni parola
avrebbe potuto scatenare una battaglia, lasciare entrare pensieri troppo
dolorosi, pensieri che abbiamo tenuto fuori con ogni mezzo possibile. Ma il
silenzio non li proteggeva più: era diventato un nemico anche lui.
Eppure, non sai mai
dire quando le cose cominciano a finire. Non c’è un giorno preciso, un istante
in cui tutto cambia. Anche a guardarsi indietro, Daniel non riusciva a trovare
il momento esatto in cui qualcosa era andato storto, in cui avevano iniziato a
perdersi. Se ci fosse un calendario, su quale data dovrei segnare l’inizio
della fine? Forse è stato un lento declino, un’inversione di tendenza che non
avevano voluto vedere. Il loro progetto di vita, che un tempo dava gioia e
speranza, aveva smesso misteriosamente di produrre qualcosa di positivo.
Aveva iniziato, in modo impercettibile, a divorare
tutto ciò che avevano costruito, fino a lasciare un capitale di ricordi
sbiaditi e sogni disillusi.
Sembrava soltanto ieri
che avevano parlato di dove andare in vacanza. Un tempo, parlare di vacanze era
il loro momento di evasione preferito, un modo per immaginare un futuro
insieme, per sognare luoghi lontani e avventure ancora da vivere. Ma ieri, mentre
facevano quella stessa conversazione, c’era qualcosa di diverso. La voglia,
l’entusiasmo, erano scomparsi. Sembrava una formalità, come se stessimo
discutendo di una cosa inevitabile ma senza più alcun interesse reale. A
ripensarci, si accorse di aver tenuto nascosti i luoghi che volevo davvero
visitare. Si era sorpreso a immaginare paesaggi assolati dove lei non c’era, a
sognare una libertà che non potevano condividere. Era sicuro che anche lei
aveva fatto lo stesso, che dietro i suoi sorrisi forzati c’era il desiderio di
essere altrove, lontana da tutto questo, lontana da lui.
Non è passato molto
tempo da quando progettavano vacanze con mesi di anticipo. In pieno inverno,
quando il mondo era grigio e freddo, sognavano il sole, il mare, le montagne.
Spendere in guide turistiche e mappe non era mai stato un problema, anzi, era parte
del divertimento. Ogni nuovo dettaglio da scoprire, ogni angolo nascosto da
esplorare, riempiva di aspettative. C’era un tempo in cui sognare non era mai
troppo, in cui ogni progetto sembrava realizzabile, ogni viaggio un’avventura
in cui perdersi insieme.
Ma quel tempo sembra
distante, un’ombra lontana che non riusciva più a toccare. È passato poco, in
realtà. Non so quanti mesi o anni erano esattamente. Ma in qualche modo, era
come se fosse trascorsa un’eternità. Un’eternità di distanze che si sono
allungate senza che ce ne rendessimo conto, un’eternità di parole non dette e
di silenzi troppo pieni. Ora restavano appostati nelle loro trincee invisibili,
incapaci di ammettere che forse è finita davvero, che ciò che li teneva insieme
si è dissolto senza che ce ne accorgessero.
Eppure, nessuno di loro
osava fare il primo passo. Forse perché, nonostante tutto, c’era ancora una
parte di Daniel che sperava, una parte che voleva credere che potevano tornare
indietro, che potevano ricostruire ciò che avevano perso. Ma la speranza è fragile, e l’alba che
si avvicinava sembrava portare solo un’ulteriore consapevolezza: non sempre si
può salvare ciò che è rotto.
Forse, ci vuole più
coraggio a lasciare andare che a restare.
Lavinia tornò dopo tre
giorni e Daniel rimase con la consapevolezza che ci sono persone che, pur
vivendo accanto a noi per anni, resteranno sempre in parte sconosciute, come
isole lontane in un mare di silenzio.
Un anno fa, sei mesi
fa. Che data segnare sul calendario per mettere un punto, per poter finalmente
dormire?
C’è un prima che era
marcito, ovvio. Marcito fino a diventare la palude su cui questo letto
ghiacciato galleggia. Si ricordava di lei in quel prima, in cui brillava fino a
rendere opaco ogni altro ricordo. Incontrarsi, inseguirsi, notti che non
finivano mai e mattinate passate nel dormiveglia, in attesa tremante. Sempre
meno il tempo tollerabile da passare lontani, fughe d’amore ad ogni fine
settimana. Poi casa, lui e lei, la promessa solenne di non permettere alla
routine di mordere forte, di dare ad ogni giorno un motivo per essere
ricordato.
Erano due pazzi immortali, come avrebbe potuto mai essere
diverso da così?
Quando ha smesso di
essere vero?
Un giorno era tutte le
sue fantasie, quello dopo era la prima a cui lo raccontava. Quello dopo ancora
la sua voglia essere la prima lo irrita come una catena a strozzo. Forse il
punto andrebbe messo lì, forse nel momento in cui il suo “Niente” alla
domanda “Che cosa c’è?” ha smesso di significare il desiderio di un
abbraccio per diventare un “non mi rompere i coglioni”. Forse. Forse
sono vere tutte quelle cazzate, sulla necessità di essere due mondi che si
sfiorano e non la fusione pasticciata in uno solo. Forse. Loro però non ci
erano riusciti.
Un giorno Lavinia
lo cercava in ogni angolo e quello dopo
lo sentiva tra i piedi ad ogni passo.
Sospiri.
Lo sai che sono
sveglio. Devi essere scomoda in quella posizione, da ore. Vorresti girarti ma
non lo fai, anche l’intimità del solo riconoscersi immersi negli stessi
pensieri deve esserti tanto insopportabile quanto a me, stanotte. Non piangi
nemmeno più, da tanto, tantissimo tempo. La palude ha gelato anche le lacrime.
Dovrei alzarmi,
concederti almeno un paio d’ore di sonno, anche se lo prenderesti come
l’ennesimo gesto di disprezzo verso di te, non certo di attenzione. Anche se
ormai poco di tutto questo ha senso.
Quale data è quella
giusta da segnare? Quel giorno che mi hai aggredito per aver cambiato la
password di Facebook, quel giorno in cui ascoltavo i rumori della tua doccia
mentre sbirciavo frenetico i messaggi sul tuo cellulare.
In fondo avrebbero
dovuto odiarsi, ora che l’amore era fuggito via. Forse lei già lo faceva, dopo
tutti i motivi sufficienti che lui le
aveva dato per farlo. Se le cose fossero semplici Daniel avrebbe fatto lo stesso.
Non ci riusciva.
Non ti amo, non ti
odio, sento solo questo grande gelo che non ha neppure il merito di tener
lontani tutti quei ricordi che mi graffiano come maledizioni felici. Dovrei
odiarti, eppure cosa?
Eppure restano le
carezze, gli occhi sognanti, i respiri che si cercano. Restano le ore strappate
al dominio del tempo per raccontarsi a vicenda. Restano i nugoli di domani
ronzanti su fogli di carta strappati chissà dove. Restano bottiglie di vino che
non avevano alcun diritto di finire, fotografie mai scattate di luoghi ancora
da visitare e fotografie che non serve guardare, se non per sbiadire ricordi
molto più vividi. Resta la realtà e restano i ricordi. Resta la voglia di non
essere in nessun altro luogo al mondo, viaggi altrove, in infiniti altrove.
Dovrei svegliarti,
stringerti, raccontarti che tutte queste cose non sono marcite, non sono
gelate, sono lì appena sotto la superficie e basta afferrarle per farle tornare
reali e presenti.
Dovrei dirti che andrà
tutto bene ma non lo faccio, perché tra tutto ciò che resta qualcosa ora manca,
per sempre.
Noi.
Noi non restiamo.
Abbiamo già preso strade che ci portano a mondi differenti, realtà lontane
unite solo da deboli eco di rimpianti che vanno spegnendosi. Un giorno non
lontano queste ferite saranno rimarginate, il passato un silenzio ovattato che
non sentiremo più. Un giorno anche il più coriaceo di questi spettri felici si
stancherà del nostro limbo e si dissolverà annoiato.
Ci saranno nuove notti
che vorremmo non finissero mai, nuovi occhi che non potremo smettere di
fissare, nuovi corpi caldi sotto le dita. Ci saranno letti e cuori che
assicureremo di non far congelare mai. Nuove promesse, nuovi ricordi che
scalceranno lontano quelli vecchi. Nuovi per sempre giurati come se non ne
avessimo mai infranti altri.
Allora l’amore, l’amore
ci farà a pezzi, di nuovo.
Quando la routine morde forte,
e le ambizioni sono basse,
e i risentimenti guidano alti,
Ma le emozioni non cresceranno,
e noi stiamo cambiando le nostre abitudini,
prendendo strade diverse.
Allora l'amore, l'amore ci farà a pezzi di nuovo
l'amore, l'amore ci farà a pezzi di nuovo
Perché la camera da letto è così fredda?
Sei ritornata sui tuoi passi.
è il mio tempo che è difettoso?
Il nostro rispetto arriva così asciutto.
C'è però ancora questa attrazione
Che abbiamo portato attraverso le nostre vite.
Ma l'amore, l'amore ci farà a pezzi di nuovo
l'amore, l'amore ci farà a pezzi di nuovo
Piangi nel sonno,
tutti i miei fallimenti smascherati
e c'è un sapore nella mia bocca,
Come se la disperazione prendesse posto.
Solo che qualcosa di così bello
Soltanto non può funzionare più.
Ma l'amore, l'amore ci farà a pezzi di nuovo
l'amore, l'amore ci farà a pezzi di nuovo
l'amore, l'amore ci farà a pezzi di nuovo
l'amore, l'amore ci farà a pezzi di
nuovo
Daniel fissava il mare
dalla finestra del piccolo appartamento che aveva affittato da qualche giorno,
nel tentativo di sfuggire ai fantasmi della sua casa vuota. Il cielo era
coperto da una coltre grigia, lo stesso colore che sembrava essersi depositato nel
suo animo da quando Lavinia, sua moglie, era morta. Il suicidio di Lavinia era
arrivato come un fulmine a ciel sereno, una tragedia che Daniel non riusciva a
comprendere né a spiegare. Non c'erano indizi, segnali, nulla che potesse
fargli sospettare che qualcosa andasse così storto. Ma il biglietto trovato
accanto al suo corpo gli ronzava ancora in testa: “Mi dispiace. Non potevo più
vivere nella menzogna”.
Menzogna? Quale
menzogna?
Le risposte tardavano
ad arrivare, fino a quel giorno in cui ricevette una chiamata da un numero sconosciuto.
La voce dall’altra parte era bassa, quasi timida, ma determinata.
«Daniel? Sono Ingrid...
dobbiamo parlare di Lavinia. Subito »
«Ingrid. Ci vediamo
domani, al bar sul molo. Sarò lì alle 10. »
La chiamata si
interruppe prima che Daniel potesse fare altre domande. Una strana inquietudine
lo accompagnò per tutta la notte. Chi era Ingrid? E che cosa aveva da dirgli di
Lavinia?
Il giorno dopo, Daniel
si recò al bar. Il luogo era quasi deserto, con solo un paio di pescatori che
sorseggiavano caffè. Una donna era seduta in un angolo, lo sguardo perso sul
mare. Doveva avere più o meno l'età di Lavinia, forse un po' più giovane. Quando
lo vide, si alzò e gli fece un cenno. Daniel le si avvicinò, sentendo il cuore
accelerare nel petto.
«Ingrid, giusto? » chiese
con voce incerta. »
«Sì», rispose lei,
invitandolo a sedersi.
Ci fu un lungo
silenzio, interrotto solo dal rumore delle onde in lontananza. Poi Ingrid
parlò.
«Non so bene come
dirlo, Daniel, quindi andrò dritta al punto. Io e Lavinia eravamo amanti. Da
circa un anno. »
Daniel rimase
paralizzato. Le parole sembravano irrealistiche, distorte, come se fossero
provenute da un altro mondo, da un'altra vita. « Cosa? »
mormorò, incapace di comprendere.
«Eravamo amanti»,
ripeté Ingrid. « Lo so, è uno shock, ma c'è di più che devi sapere. »
La testa di Daniel
girava. L'immagine di Lavinia, sua moglie amorevole, che nascondeva una
relazione così importante lo travolse. «Perché? » fu tutto ciò che riuscì a
chiedere.
Ingrid sospirò, gli
occhi umidi di lacrime trattenute. “Lavinia ti amava, Daniel. Non dubitare mai
di questo. Ma c'era una parte di lei che non riusciva a mostrarti. Una parte
che nascondeva perfino a sé stessa, per anni. La sua ombra, la sua verità più oscura...
E quella verità l'ha divorata lentamente. »
Daniel sentì una
stretta al petto. «Non capisco. Perché non me ne ha parlato? Perché ha
preferito uccidersi piuttosto che dirmi la verità? »
«Non era solo la nostra
relazione», spiegò Ingrid con voce spezzata. «Lavinia portava un peso che
andava oltre il nostro amore segreto. Era una donna lacerata, intrappolata in
una vita che sentiva non appartenerle. La sua famiglia, le aspettative... persino
il matrimonio con te, per quanto ti amasse, erano diventati una prigione. La
nostra relazione le ha dato sollievo per un po', ma alla fine... anche quello
non è bastato. »
«Allora perché non me
l'ha detto? Avremmo potuto affrontare tutto insieme » ripeté Daniel, come se cercasse di
convincersi che ci fosse una via d'uscita che Lavinia non aveva voluto vedere.
Ingrid scosse la testa.
«Non poteva, Daniel. Aveva paura. Paura di ferirti, paura di ammettere a sé
stessa che la vita che aveva costruito non era quella che desiderava. Io ero il
suo rifugio, ma anche con me non poteva essere completamente libera. La verità
è che Lavinia era una donna spezzata e nessuno di noi è riuscito a salvarla.
Nemmeno io. »
Daniel rimase in
silenzio, sentendo il mondo crollargli addosso. La donna che pensava di
conoscere non era mai esistita del tutto. C'era sempre stata un'altra Lavinia,
nascosta dietro la facciata, e lui non l'aveva mai vista.
«Mi dispiace, » disse
Ingrid, le lacrime che finalmente scendevano sul suo volto. “Se avessi saputo
che le cose sarebbero finite così, avrei fatto qualcosa. Qualsiasi cosa. »
Daniel si alzò,
sentendo la terra mancare sotto i piedi. Il dolore, la rabbia, la confusione...
tutto si mescolava in un vortice insopportabile.
«Non so se riuscirò mai
a perdonarla o a perdonarti, » mormorò, senza guardarla negli occhi. Ingrid non
disse nulla, lasciandolo andare. Daniel uscì dal bar, con il mare davanti a sé
e la verità che lo schiacciava.
Ora conosceva la
menzogna, ma la verità non gli offriva alcuna pace.
Ingrid lo ricorse fuori
dal bar.
«Lavinia custodiva un
segreto. »
«Daniel questa è per
te. Me l’aveva data Lavinia come se fosse a conoscenza di quello che ti sarebbe
successo dopo la sua morte…»
Lasciò cadere una busta
ai piedi di Daniel e corse via prima che Daniel potesse fermarla.
Daniel non riusciva a
staccare gli occhi dalla lettera. Le mani gli tremavano mentre la teneva
stretta, come se temesse che da un momento all'altro potesse svanire,
dissolversi in cenere come l'illusione della vita che aveva creduto di vivere
fino a quel giorno. La carta era ingiallita, logora, segnata dal tempo, eppure
le parole che conteneva erano come un colpo dritto al cuore. L'ultima
testimonianza di Lavinia, sua moglie, che si era tolta la vita solo poche
settimane prima, lasciandolo in un abisso di dolore e domande senza risposte.
Non era stata una morte
spiegabile. Lavinia sembrava moderatamente felice, stabile. Non c'era stata
alcuna avvisaglia che qualcosa di oscuro le stesse corrodendo l'anima. Fino a
quella sera, quando l'aveva trovata impiccata nella loro camera da letto, il
viso placido come se dormisse, ma le mani fredde e immobili penzolanti da
braccia inerti lungo il corpo.
Per settimane, Daniel
aveva cercato di ricostruire un senso nella sua morte. Gli amici e la famiglia
avevano parlato di esaurimento nervoso, di stress non dichiarato, ma niente lo
convinceva. Fino a quando non aveva letto la lettera, custodita da colei che
aveva tradito la sua relazione, la sua vita avvolta da una fitta rete di
ricordi che lui pensava di conoscere.
“Daniel, se stai
leggendo queste parole, significa che non sono più tra voi. Non so se sarai in
grado di perdonarmi, ma la verità deve emergere. Io non sono chi pensi. Non
sono la Lavinia che hai sposato. Sono una copia, un'imitazione.”
Daniel aveva dovuto
rileggere quelle righe almeno tre volte prima che il loro significato
penetrasse completamente nella sua mente. Una copia? Cosa significava? Il
respiro gli si era fatto irregolare, e si era affrettato a continuare a
leggere, divorando le parole successive.
“La vera Lavinia è
morta anni fa, molto prima che ci conoscessimo. Io sono il risultato di un
esperimento scientifico, che non avrei mai dovuto scoprire. Eppure, quando mi
hanno ‘svegliata’, mi hanno dato la sua vita, i suoi ricordi, tutto ciò che era
lei. Per me, era come essere lei. Non ho mai saputo di essere altro fino a poco
tempo fa, quando la verità mi è stata rivelata.”
Daniel si era fermato,
il cuore in tumulto. Lavinia… la sua Lavinia, quella con cui aveva condiviso
anni della sua vita, non era reale? Non era la vera Lavinia, ma una replica?
Era una follia. Eppure, c'era qualcosa di agghiacciante e terribilmente logico
in tutto ciò.
“Il progetto si
chiama Sosia. È gestito da un'organizzazione che ha perfezionato la clonazione
umana, ma non solo nel senso fisico. Sono riusciti a replicare le memorie,
l'essenza stessa di una persona. Io non sono altro che una copia perfetta della
Lavinia originale, programmata per vivere al suo posto. Ma ora so la verità. E
non posso continuare a vivere con questa bugia. Ogni giorno, ogni sorriso che
ti ho rivolto, ogni carezza… tutto falso. Non posso più sostenere il peso di
questo inganno.”
Daniel lasciò cadere la
lettera, la mente in preda al caos. Si rifiutava di accettare l'idea che la
donna che aveva amato fosse solo un'ombra di qualcun altro. Ma i pezzi
cominciavano a combaciare. Piccole stranezze, dettagli che aveva sempre
ignorato: i ricordi che Lavinia a volte sembrava confondere, come se non
fossero del tutto suoi; la sensazione, in momenti isolati, che qualcosa in lei
fosse… cambiato.
Si alzò di scatto, come
se improvvisamente avesse bisogno di muoversi, di fare qualcosa. Le sue mani
scivolarono nervosamente tra i cassetti, finché non trovò quello che stava
cercando: il computer di Lavinia, uno strumento che lei usava di rado, come se
lo temesse. Con una certa esitazione, lo accese e iniziò a cercare nei suoi
file, seguendo l'istinto.
Dopo pochi minuti,
trovò una cartella nascosta. Il nome era criptico, ma il suo contenuto era
ancora più inquietante: una serie di documenti, rapporti medici e
corrispondenze tra Lavinia e qualcuno che firmava solo come “Dott. F.”.
I file descrivevano in dettaglio gli esperimenti di clonazione, l'esistenza di
un laboratorio segreto, e l'identità della vera Lavinia, morta in un incidente
d'auto anni prima.
La sensazione di
vertigine divenne insostenibile. Daniel si rese conto che la donna che aveva
amato non era mai esistita davvero. Era stato innamorato di una costruzione, un
fantasma modellato su una persona reale, ma con una vita a sé stante. Ma ora
che ne era a conoscenza, cosa avrebbe fatto?
Un’ultima frase della
lettera di Lavinia gli balzò alla mente, illuminata come un segnale d’allarme:
“Daniel, mi
dispiace. Non posso vivere sapendo cosa sono. Non posso sopportare l'idea di
essere un inganno per te, per me stessa. Ma tu hai diritto di conoscere la
verità. E ora, tocca a te decidere cosa fare con essa.”
Con il cuore in
subbuglio, Daniel capì che il suo prossimo passo sarebbe stato quello di
scoprire chi aveva fatto questo. Perché? C'era un'intera rete di segreti dietro
la morte della vera Lavinia, e ora che sapeva della loro esistenza, non poteva
più far finta di nulla.
Nonostante tutto, amava
ancora quella donna, quella replica. Ma ora, avrebbe dovuto confrontarsi con la
terribile verità di chi lei fosse, e con la gente che aveva giocato con la vita
come se fosse solo un esperimento scientifico.
Il
Progetto Sosia
Lavinia si svegliò di
soprassalto, il cuore che martellava nel petto. L’oscurità era fitta, e la
sensazione di trovarsi in un luogo sconosciuto era agghiacciante. Si guardò
intorno, ma i suoi occhi impiegarono qualche istante per abituarsi alla
penombra. Non era a casa sua, né in un ospedale. Le pareti erano spoglie,
fredde, e l'aria odorava di disinfettante chimico.
L’ultima cosa che
ricordava era essere salita su un aereo per Tel Aviv, per una conferenza di
biotecnologie. Poi, il vuoto. Doveva essere successo qualcosa durante il volo,
forse un incidente? Ma perché nessuno le aveva detto nulla? Si alzò dal letto,
ma un improvviso giramento di testa la costrinse a fermarsi, aggrappandosi al
bordo del materasso.
La porta si aprì con un
sibilo, e una donna alta e vestita con un camice bianco entrò nella stanza.
«Buongiorno, Lavinia», disse in un inglese perfetto. «Come ti senti?»
Lavinia la guardò con
sospetto. «Dove mi trovo? E chi sei tu?»
La donna sorrise, un
sorriso forzato che non toccava gli occhi. «Mi chiamo Fishel, sono la
dottoressa che ti ha in cura. Sei in una struttura medica sicura. Ti abbiamo
monitorata durante la tua guarigione. Devi stare tranquilla, sei al sicuro.»
Lavinia scosse la
testa, cercando di rimettere insieme i pezzi. «Guarigione? Non ricordo nulla di
una malattia. Perché sono qui?»
La Dottoressa Fischel
sembrò esitare per un attimo, poi si sedette accanto al letto. «Prima di
rispondere, c’è qualcosa che devi vedere. Vieni con me.»
Nonostante la sua
confusione e paura, Lavinia decise di seguirla. Camminarono attraverso un
corridoio sterile e illuminato da luci al neon, fino a giungere a una grande
sala con pareti trasparenti. Attraverso il vetro, Lavinia poteva vedere letti
identici al suo, ognuno occupato da una figura umana. Si fermò di colpo quando
vide il volto di una delle persone.
Era lei.
Un'altra Lavinia,
identica in ogni dettaglio, giaceva immobile sul letto, collegata a una serie
di macchinari. Le gambe di Lavinia tremarono, e dovette appoggiarsi alla parete
per non cadere. «Cosa… cosa significa tutto questo?»
La Dottoressa Fischel
la guardò, seria. «Lavinia, fai parte del Progetto Sosia, un'iniziativa segreta
del governo israeliano. Non sei qui per caso, sei stata selezionata per le tue
particolari competenze genetiche e intellettuali. Abbiamo sviluppato una
tecnologia che permette di clonare gli esseri umani in maniera perfetta. Quella
che vedi è una copia esatta di te stessa. Un tuo clone.»
Le parole la colpirono
come un pugno nello stomaco. «Un clone?» Lavinia si voltò verso la Fischel,
incredula. «Perché? A quale scopo?»
La Dottoressa Fischel
sospirò. «Il Progetto Sosia è stato creato per scopi militari. Vogliamo creare
soldati, agenti segreti, uomini e donne capaci di compiere missioni ad
altissimo rischio senza mettere in pericolo le persone originali. I cloni non
hanno una coscienza propria, sono solo corpi, gusci vuoti che possiamo
controllare a distanza. E tu, Lavinia, sei stata scelta per far parte di questo
progetto grazie alla tua resilienza genetica. Il tuo corpo si presta
perfettamente alla replicazione.»
Le parole di Dottoressa
Dottoressa Fischel suonarono fredde, spietate. «Quindi… io sono solo una
cavia?» domandò Lavinia, la voce incrinata dal terrore e dal disgusto. «Mi
avete portata qui senza il mio consenso per clonarmi e usare il mio corpo come
un’arma?»
«Non proprio», rispose
la dottoressa Fishel, la sua espressione impassibile. «Il tuo consenso ci è
stato dato, anche se forse non in modo del tutto trasparente. Ma la questione è
ormai irrilevante. Sei già parte del progetto, e i tuoi cloni sono già in fase
di produzione avanzata.»
Lavinia sentì la nausea
crescere. «Devo andarmene. Non posso restare qui.»
Ma la Dottoressa
Fischel scosse la testa. «Non puoi andartene. Non ancora. Ci sono ancora troppe
cose che devi imparare sul Progetto Sosia. Inoltre, non è possibile abbandonare
il programma una volta entrati. Sai troppo.»
Le parole della
Dottoressa Fischel furono come una condanna. Il cuore di Lavinia batteva
all'impazzata, cercava disperatamente una via d'uscita, un modo per sfuggire a
quella trappola. «Cosa pensate di fare con me?»
La Dottoressa Fischel
si alzò, il suo sguardo freddo e calcolatore. «Abbiamo bisogno di te per
perfezionare i cloni. La tua mente è unica quanto il tuo corpo, e abbiamo
bisogno di comprendere a fondo come replicare anche il cervello, la coscienza.
Non è sufficiente creare copie fisiche, vogliamo che siano come te in tutto e
per tutto. Per ora, i cloni sono solo simulacri, ma con il tuo aiuto, potremmo
essere in grado di trasferire la coscienza umana da un corpo all’altro. Una
vera immortalità.»
Lavinia rimase in
silenzio, troppo scioccata per rispondere. La stanza sembrava girarle intorno.
L’immortalità? Era questo il vero obiettivo del Progetto Sosia? Non si trattava
solo di creare soldati perfetti, ma di superare i limiti della vita stessa.
Con un sussurro
spezzato, trovò la forza di parlare. «Non vi aiuterò mai in questo.»
La Dottoressa Fischel
si fermò un attimo, il suo volto attraversato da un lampo di compassione, o
forse solo di irritazione. «Non hai scelta, Lavinia. Sei già parte del
progetto. E non si può tornare indietro.»
Le parole della
Dottoressa Fischel risuonarono nella mente di Lavinia mentre veniva condotta in
una nuova stanza. La sensazione di essere prigioniera era soffocante. Tuttavia,
dentro di lei cresceva una scintilla di resistenza. Non poteva semplicemente accettare
il suo destino. Doveva trovare un modo per fuggire, per distruggere quel
maledetto progetto e far sapere al mondo cosa stava accadendo in quella
struttura segreta.
I giorni passarono,
scanditi da esperimenti, test, e conversazioni sempre più criptiche con la
Dottoressa Fischel e altri membri dell'équipe medico-militare. Il laboratorio
era un dedalo di tecnologie avanzatissime, una combinazione di scienza e follia
che si nutriva dell'ambizione umana di controllare l'incontrollabile. Lavinia
iniziò a capire come funzionava il sistema, dove venivano stoccati i dati
genetici e le informazioni sui cloni. E capì anche una cosa: c'era un punto
debole. Se fosse riuscita a penetrare nel server principale e inserire un
virus, avrebbe potuto distruggere ogni traccia del progetto.
Ma il tempo stringeva.
Uno dei cloni, uno più avanzato degli altri, era quasi pronto per essere
“attivato”. Se quel clone avesse funzionato, tutto sarebbe stato perduto. Il
giorno dell’attivazione arrivò troppo presto.
Lavinia fu condotta
nella sala principale, dove una fila di medici e scienziati attendeva
impaziente. Davanti a lei, il suo clone stava per essere svegliato. Le sembrava
di guardare sé stessa attraverso uno specchio deformato. «Siamo pronti», disse
la dottoressa , con un misto di soddisfazione e timore reverenziale.
Ma Lavinia non lo era.
Col cuore in gola, si fece avanti. Un gesto disperato. Fingendo di essere
collaborativa, si avvicinò al terminale principale e con un rapido movimento
inserì una chiave USB che aveva nascosto.
«Che stai facendo?»
chiese Fishel, allarmata.
Lavinia si voltò, uno
sguardo risoluto nei suoi occhi. «Sto facendo quello che dovreste fare tutti.
Fermare questa follia.»
Premette il tasto di
invio. Il sistema andò in tilt. Sirene iniziarono a suonare, luci rosse
lampeggiavano ovunque. La Dottoressa Fischel si mosse verso di lei, furiosa, ma
era troppo tardi. Il virus si stava propagando nel sistema. I dati venivano
cancellati, uno dopo l'altro.
«No!» gridò Fishel,
cercando di disattivare il virus, ma Lavinia sapeva di aver vinto. Il Progetto
Sosia, quella mostruosità, stava crollando.
Con uno scatto
improvviso, approfittando del caos, Lavinia fuggì dalla stanza. C’era solo una
cosa da fare ora: sopravvivere.
Dopo diverse traversie
riuscì a raggiungere l’Italia pronta ad intraprendere una nuova vita.
Quello che Lavinia al
momento non poteva sapere era che in realtà lei stessa era un clone, generato
precedentemente grazie ad un modello beta del progetto Sosia.
E
con questa realtà si sarebbe misurata solo nei prossimi anni successivi.
Lavinia si alzò
lentamente dal sedile dell'aereo mentre i passeggeri intorno a lei si
affrettavano a raccogliere bagagli e giacche, preparandosi a scendere. Un misto
di eccitazione e stanchezza le pulsava nelle vene. Aveva viaggiato per giorni,
con scali e ritardi, ma alla fine era riuscita a raggiungere la sua
destinazione: l'Italia. La luce dorata del tramonto, che filtrava dai
finestrini dell'aereo, colorava tutto con un calore irreale. "Questa è
casa", si ripeté, come per convincersi che davvero era arrivata.
Gli ultimi anni erano
stati costellati di decisioni difficili e sacrifici, una fuga costante da
persone che non riuscivano a comprendere la sua ricerca di qualcosa di più
grande, qualcosa che sentiva le mancasse, ma che non riusciva a definire.
Mentre il portellone
dell'aereo si apriva e i passeggeri cominciavano a scendere, Lavinia si fermò
per un attimo a guardare il panorama. Aveva sognato questo momento per tanto
tempo. Le strade acciottolate delle città italiane, i caffè all'aperto, la sensazione
di libertà e rinascita. Era pronta a intraprendere una nuova vita, a lasciarsi
tutto alle spalle.
Ora, con i piedi
finalmente a terra, Lavinia sentì un senso di sollievo avvolgerla come una
coperta calda. Ma questo sollievo fu presto scosso da una serie di piccoli
dettagli che cominciarono a farla dubitare. Ogni cosa sembrava troppo perfetta,
come se il mondo intorno a lei fosse stato allestito apposta per accoglierla.
Le persone che incrociava per strada, anche se sconosciute, le trasmettevano
una vaga sensazione di déjà vu.
Per settimane, Lavinia
visse con quella sensazione inquietante, come se ogni angolo della sua nuova
vita fosse stato preparato in anticipo. Gli appartamenti che guardava erano
esattamente come li aveva immaginati, i negozi di quartiere sembravano offrire
esattamente ciò che desiderava, e anche le persone che incontrava le dicevano
sempre le cose giuste al momento giusto. Ma scacciava questi pensieri, cercando
di concentrarsi sul costruire una nuova routine.
Un giorno, mentre era
immersa nei suoi pensieri davanti a una tazza di caffè in un bar affollato, il
suo telefono vibrò. Era una notifica strana, un messaggio criptico che sembrava
essere stato inviato da una rete sconosciuta: "Incontro non programmato.
Previa autorizzazione richiesta. Progetto Sosia – Beta."
Lavinia sobbalzò,
incapace di comprendere cosa significasse. Cercò di ignorare il messaggio, ma
nei giorni successivi altri messaggi simili cominciarono ad apparire, sempre
più frequenti, sempre più inquietanti. Parlavano di un progetto segreto
chiamato "Sosia", di un modello sperimentale, e menzionavano codici
che non aveva mai visto prima.
Le sue notti divennero
agitate. Nei sogni, ombre indistinte la seguivano, facce senza nome la
guardavano da lontano. La sensazione di essere osservata si intensificava ogni
giorno, e Lavinia cominciò a sentire che qualcosa di terribilmente sbagliato
stava accadendo. Non era più in grado di ignorare l’evidente stranezza della
sua vita, una realtà che sembrava plasmata apposta per lei.
Un pomeriggio, mentre
camminava lungo il fiume, decise di confrontarsi con quello che stava
accadendo. Si diresse verso uno degli indirizzi misteriosi che aveva trovato
nei messaggi. Era un edificio anonimo, nascosto tra i vicoli di un quartiere
che sembrava abbandonato. Con il cuore che le batteva in gola, bussò alla
porta.
Venne accolta da un
uomo di mezza età, con occhiali scuri e un'aria gelida. La invitò a seguirlo
senza fare domande. La condusse attraverso corridoi spogli, fino a una stanza
illuminata da una fredda luce al neon. Al centro della stanza c’era un grande schermo
su cui scorrevano delle immagini di persone, volti diversi, alcuni simili,
altri completamente estranei. Ma in mezzo a tutti quei volti, Lavinia riconobbe
sé stessa.
L’uomo si girò verso di
lei, il suo volto impassibile.
«Benvenuta, Lavinia»
disse con una calma inquietante. « Forse ti sei chiesta cosa ci fosse di strano
in tutto ciò che hai vissuto finora. È tempo che tu sappia la verità. Sei parte
di un progetto sperimentale chiamato Sosia. Sei un clone. »
Lavinia si sentì
gelare. Le parole riecheggiavano nella sua testa, ma sembravano impossibili da
afferrare.
« Un clone? »
riuscì a dire a malapena.
« Sì. Sei stata creata
in laboratorio, una copia di una persona che esiste o è esistita, grazie a un
prototipo del progetto. Non sei unica, Lavinia. Sei stata generata da un
modello beta, una versione preliminare. Ti è stata data una vita, dei ricordi,
ma tutto è parte di un esperimento. »
Il mondo di Lavinia si
capovolse. Tutto ciò che aveva creduto reale era, in realtà, costruito. La sua
fuga, il suo viaggio, la sua ricerca di una nuova vita in Italia... tutto
orchestrato.
« Ma… perché? Perché
proprio io? » riuscì
a chiedere con un filo di voce
« L’obiettivo del
progetto Sosia è di perfezionare la clonazione umana. Sei stata inviata qui per
osservare come si evolve la tua consapevolezza di te stessa. È un test,
Lavinia. Nulla di ciò che hai vissuto è stato lasciato al caso. »
Nei mesi successivi,
Lavinia fu costretta a confrontarsi con una verità che avrebbe distrutto
chiunque altro. Era un clone, una copia di qualcuno che forse non avrebbe mai
conosciuto. Ma ciò che l’uomo del progetto Sosia non poteva sapere era che la
sua consapevolezza si stava espandendo oltre i loro controlli. Il clone stava
iniziando a sfuggire alle regole del progetto.
Nonostante le
rivelazioni devastanti, Lavinia cominciò a costruire una nuova identità. Era
determinata a dimostrare che, anche se era stata creata artificialmente, la sua
anima, i suoi desideri, erano reali. Forse non era la persona che credeva di
essere, ma questo non significava che non potesse diventare qualcosa di
diverso, di unico.
E mentre i prossimi
anni la videro lottare contro il controllo del progetto Sosia, Lavinia scoprì
che la vera essenza di un individuo non risiede nel modo in cui è stato creato,
ma nelle scelte che fa, nei legami che costruisce e nei sogni che decide di inseguire.
Lavinia, clone o no,
era pronta a vivere davvero.
E fu proprio durante
quel periodo che conobbe Daniel e incominciò una relazione che sarebbe durata
per ventidue anni.
Fino a quando tutto
improvvisamente vacillò.
Amara
realtà
Daniel si sedette sulla
sedia scricchiolante del suo studio, un bicchiere di whisky mezzo pieno
abbandonato sul bordo della scrivania, dimenticato. Gli occhi gli bruciavano,
la mente vorticosa, incapace di staccarsi da quell'unica domanda che lo stava
consumando: Chi era davvero Lavinia?
Erano trascorso due
mesi dal funerale della sua ex moglie. Il pensiero era ancora difficile da
accettare. Lavinia non aveva mai mostrato segni di depressione. Certo, il loro
matrimonio era fallito, ma erano rimasti in buoni rapporti, due anime separate
ma non in guerra. Non c'era alcun segnale che la sua vita fosse caduta in
rovina al punto di spingerla al gesto estremo. Finché non entrò in possesso di
quella lettera.
Una busta anonima,
apparentemente insignificante, che conteneva solo poche righe, scritte a mano
in una calligrafia frettolosa e irregolare: era la confessione della verità di
Lavinia.
Da quel momento, la
vita di Daniel si era trasformata in un incubo di ossessioni, ricerche senza
fine, ipotesi folli e notti insonni. Aveva cominciato con la frase più semplice
della lettera: "Progetto Sosia". Aveva digitato il nome in ogni motore
di ricerca, spulciato forum nascosti nel dark web, contattato vecchi colleghi
che lavoravano in laboratori di ricerca genetica. Ma nulla. Nessuno sapeva cosa
fosse questo Progetto Sosia. O, se qualcuno lo sapeva, non era disposto a
parlarne.
Ogni giorno che
passava, Daniel scopriva nuovi dettagli che lo avvicinavano sempre di più alla
verità, ma allo stesso tempo lo portavano a sprofondare in un baratro di
disperazione. Aveva trovato riferimenti criptici a un laboratorio segreto,
finanziato da una misteriosa organizzazione, che sperimentava su esseri umani.
Clonazione, manipolazione genetica, esperimenti eticamente discutibili. Era
tutto lì, nascosto tra pagine di rapporti scientifici oscurati, ma ogni volta
che sembrava essere a un passo dalla soluzione, qualcosa gli sfuggiva. Gli
mancavano prove concrete, e ogni giorno che passava era come se un velo di
nebbia avvolgesse sempre di più la verità.
Poi, un giorno, il suo
telefono vibrò con un messaggio che fece saltare il cuore in gola: « Se vuoi
conoscere il Progetto Sosia, ci vediamo alle 23.00 al vecchio magazzino del
Vetro. »
Non c’era nome, solo
l'indirizzo. Ma Daniel sapeva che non aveva altra scelta. Si era preparato in
fretta, la mente divisa tra l'eccitazione per quella nuova pista e il timore di
essere seguito, o peggio, manipolato. Il vecchio magazzino era desolato, un
relitto industriale abbandonato da decenni. Daniel si aggirò tra le ombre,
guardandosi intorno, fino a quando vide una figura incappucciata che si
avvicinava lentamente.
« Sei Daniel?» chiese
la voce, fredda e decisa. Era difficile distinguere il volto sotto il
cappuccio.
"Sì," rispose
Daniel, con il cuore che gli batteva forte nel petto. « Sai del Progetto Sosia?
»
La figura annuì
lentamente, poi tirò fuori da una tasca un piccolo dispositivo USB e glielo
porse. «Qui dentro ci sono i dati che stai cercando. Ma ascoltami bene: una
volta che entrerai in questo mondo, non potrai pi uscirne. E non sarà quello
che ti aspetti. »
« Che cosa vuoi dire?
Cosa era Lavinia?! » chiese Daniel, ma la figura fece un
passo indietro e scomparve nel buio prima che potesse ottenere una risposta.
Con le mani tremanti,
Daniel tornò a casa, inserì il dispositivo nel computer e cominciò a leggere i
file. Ogni parola che scorreva davanti ai suoi occhi sembrava una pugnalata al
cuore. Il Progetto Sosia era, come sospettava, un progetto di clonazione umana.
Lavinia era stata una delle "creazioni". Un clone perfetto, creato
per essere una copia di una persona deceduta anni prima, ma programmato per
vivere una vita che non era mai stata veramente sua. Avevano usato la sua
mente, i suoi ricordi, e li avevano manipolati.
Tutto ciò che Daniel
pensava di sapere su Lavinia era una bugia. Non era la donna con cui aveva
condiviso anni della sua vita. Non era mai stata vera, nel senso più crudo e
inquietante del termine.
I giorni successivi
furono un vortice di ricerche frenetiche. Daniel si immergeva in articoli
scientifici, saggi filosofici e documenti classificati, cercando disperatamente
una risposta: era possibile riportare Lavinia indietro? O, più tragicamente,
era possibile che ciò che lei era stata fosse semplicemente un riflesso di
qualcosa di più grande e oscuro? Le sue notti erano un'incessante caccia alla
verità, mentre le sue giornate si spegnevano lentamente, consumate da ore di
letture interminabili.
Una notte, mentre i
suoi occhi erano ormai appesantiti e la mente intorpidita, trovò un articolo
che parlava di un metodo sperimentale di clonazione, in cui la coscienza veniva
trasferita in corpi nuovi, giovani, come una sorta di rinascita. Il cuore di Daniel
ebbe un sussulto. Se Lavinia era stata clonata una volta, forse poteva esserlo
di nuovo. Forse c'era una possibilità di salvarla, di ridare vita a quella
donna che, nonostante tutto, lui amava ancora disperatamente.
Ma più leggeva, più la
realtà si rivelava crudele. Non si trattava semplicemente di clonare un corpo,
ma di catturare l'essenza di una persona, un'anima, se si poteva chiamarla
così. Lavinia era stata programmata per fallire. Le sue memorie, i suoi pensieri,
persino il suo suicidio, erano stati parte di un disegno, di un esperimento per
testare i limiti della psiche umana in un corpo clonato. La sua vita era stata
predeterminata, come una marionetta inconsapevole di fili invisibili.
Le notti insonni si
erano accumulate nel suo corpo, trasformando le sue energie in una frenetica
ossessione.
Lavinia.
Quel nome era diventato
il fulcro della sua vita, la ragione della sua ricerca. Ogni pezzo di codice
che scriveva, ogni riga di dati che analizzava, tutto era rivolto a lei.
Inizialmente, tutto era
sembrato normale, o almeno, così pensava. L'obiettivo dichiarato era quello di
studiare la memoria umana e la sua capacità di creare e conservare ricordi, ma
con il passare del tempo il progetto aveva preso una piega oscura. Daniel aveva
iniziato a sentirsi immerso in qualcosa di molto più profondo, di molto più
pericoloso.
Lavinia era il centro
del suo lavoro. Appariva nei suoi sogni, invadeva i suoi pensieri, diventava
sempre più reale a ogni giorno che passava. Ogni dettaglio del suo volto, delle
sue mani, del suo sorriso, si radicava nella sua mente come se fossero ricordi
autentici, reminiscenze di un passato condiviso. Ma c’era un problema: Daniel
non riusciva a ricordare come l’avesse conosciuta. Non c’era un incontro, un
momento specifico che potesse indicare l’inizio della loro relazione. Sapeva
solo che doveva trovarla, salvarla. C’era sempre un senso di urgenza, come se
fosse in pericolo e solo lui potesse aiutarla.
La ricerca era
diventata febbrile. Aveva smesso di mangiare regolarmente, si era allontanato
dagli amici, chiuso in un mondo fatto di algoritmi e frammenti di memoria. Ogni
volta che sembrava essere vicino a una svolta, una nuova barriera si
frapponeva. Più scavava, più la verità sembrava sfuggirgli dalle mani, come
sabbia tra le dita. Eppure, continuava.
Quella notte, mentre
stava per spegnere il computer per l'ennesima volta, qualcosa cambiò. Una
cartella apparve sullo schermo, come se fosse stata attivata da una forza
invisibile. Non l'aveva mai vista prima. Il nome della cartella era semplice,
una singola parola: "Conclusione".
Con un misto di
curiosità e timore, Daniel aprì il file. All'interno c'era un documento
criptico, riempito di simboli e codici. Non ci volle molto perché il suo
cervello, allenato da anni di programmazione, iniziasse a decifrarlo. Più
leggeva, più una realtà inquietante prendeva forma.
Lavinia non era mai
esistita. Era stata una creazione artificiale, un esperimento di memoria
indotto. Ogni ricordo di lei era stato impiantato nella sua mente come parte di
uno studio sulle allucinazioni e le percezioni alterate. Il progetto non era
mai stato sulla memoria umana, ma su come manipolarla. L'obiettivo era vedere
quanto profondamente potevano controllare una mente umana, quanto potevano
spingerla a credere in una realtà creata.
Il senso di tradimento
era immenso. Tutto ciò che aveva fatto negli ultimi mesi era stato per
un'illusione, per una donna che non era mai stata reale. Ogni momento, ogni
pensiero, era stato costruito su una menzogna. L’istituto l'aveva usato come
una cavia, un semplice ingranaggio in un esperimento scientifico senza
scrupoli.
Con le mani tremanti,
Daniel chiuse il file e si alzò dalla sedia. Il peso della verità lo travolse,
e la stanza sembrò rimpicciolirsi attorno a lui. Non c’era alcuna Lavinia da
salvare, perché Lavinia non era mai esistita. I suoi ricordi di lei erano una
costruzione artificiale, un inganno. L’unica cosa che gli rimaneva era mettere
fine a quella ricerca febbrile e distruttiva, accettare l’assurdità di tutto
ciò che era accaduto.
Con un sospiro
profondo, Daniel si diresse verso il computer, deciso a spegnerlo e abbandonare
tutto. Avrebbe dovuto ricostruire la sua vita, imparare a convivere con la
perdita di qualcosa che non era mai stato reale.
Ma proprio mentre il
cursore si posizionava sull'icona di spegnimento, un pensiero inquietante gli
attraversò la mente, come un sussurro: E se anche lui facesse parte di questo
progetto? Se anche lui fosse solo un’altra pedina, un altro esperimento tra tanti?
La domanda lo colpì come un pugno allo stomaco.
Si sedette di nuovo.
Aveva passato mesi a inseguire l'ombra di Lavinia, a cercare di salvare
qualcuno che non esisteva. Ma cosa significava davvero? E se anche il suo
stesso senso di identità fosse solo un’altra illusione creata dall'istituto?
Non poteva più fidarsi dei suoi ricordi. Non poteva più essere sicuro di nulla.
Il suo sguardo tornò al
computer. C’era solo un modo per scoprire la verità, per capire quanto
profondamente l'inganno si fosse radicato dentro di lui. Si chinò verso lo
schermo e iniziò a scrivere.
Scavò più a fondo nel
sistema, esplorando ogni angolo nascosto, ogni frammento di codice. A mano a
mano che proseguiva, nuovi file si aprivano davanti a lui. Rapporti, grafici,
annotazioni: ogni dettaglio del progetto era lì. Il nome "Progetto Lavinia"
compariva ovunque, ma sempre accompagnato da un altro termine: "Soggetto
Zero".
Daniel sentì il cuore
accelerare. Soggetto Zero era lui. Tutto era stato costruito attorno alla sua
mente, alla sua percezione. Il progetto non era solo su Lavinia, ma su di lui.
Lavinia era stata solo il primo strato di un esperimento molto più complesso,
un test per vedere fino a che punto si poteva manipolare la psiche di una
persona.
Adesso sapeva. Lavinia
non era mai esistita, ma lui? Lui esisteva davvero?
Fu allora che il
computer si spense da solo. La stanza piombò nell’oscurità totale, lasciandolo
solo con i suoi pensieri. Forse quella era la fine. Forse anche la sua ricerca
di sé stesso era destinata a rivelarsi inutile.
Ma dentro di lui
qualcosa resisteva. Se c’era una possibilità che tutto fosse una menzogna,
allora c’era anche una possibilità che ci fosse ancora una verità da trovare.
Una verità che doveva essere sua, e solo sua.
Daniel si alzò, questa
volta più calmo. Forse non avrebbe mai saputo con certezza cosa era reale e
cosa no. Ma era deciso a continuare a cercare. E quella, dopotutto, era la cosa
più reale che gli fosse rimasta.
«Daniel! Daniel!
Sveglia! È mai possibile che non reggi oltre le tre pinte di Guiness? Sei
diventato una mammoletta. Dai che ti accompagniamo a casa. Lavinia ti farà una
bella tisana e domani sarai un fiore, vedrai. » dissero gli
amici di Daniel prendendolo sotto un braccio.
Da quando era tornato
dall’Irlanda non si era ancora perso un St. Patrik day e come tutti gli anni
tornava a casa abbastanza sbronzo dal pub dove andava a festeggiare con gli
amici.
Lavinia lo sapeva, era
abituata.
E come ogni anno
avrebbe chiuso un occhio.
In fin dei conti Daniel
era la persona più sincera e reale che avesse mai conosciuto.
La dottoressa Fischel
verificò gli ultimi dati trasmessi: il progetto era riuscito perfettamente,
oltre ogni aspettativa. Il sistema aveva creato un mondo virtuale rendendo i
protagonisti molto reali, addirittura dubitanti, incerti ma anche falsamente autocoscienti
di far parte di un progetto artificiale e costruito a tavolino nei minimi
dettagli.
Spesso la realtà è
frutto di una sofisticata finzione.
O viceversa.
Digitò sulla tastiera data
17 marzo 2025 Fine esperimento. Esito positivo ed archiviò la sottocartella
denominandola Lavinia-Daniel e la mise assieme alle altre nella cartella
Progetto Sosia.
Si era fatto tardi.
Spense e chiuse il pc.
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