sabato 30 novembre 2024

NULLA È REALE PIU’ DELLA FINZIONE

 


Lavinia

 

Da quando eri tornato in Italia, dopo una lunga permanenza in Irlanda, non ti eri perso nessuna commemorazione del St. Patrick's Day.

 Nulla di paragonabile ai festeggiamenti sfrenati e vivaci a cui ti eri abituato sull’isola verde.

Strade piene di persone vestite di verde, la musica folk che riempiva l'aria e le risate che riecheggiavano ovunque nei pub.

In Italia, era solo l’occasione di farsi due pinte con gli amici, un piccolo tributo nostalgico a quel capitolo della tua vita.

Da dieci anni a questa parte, il 17 marzo era diventato una data intoccabile nel tuo calendario, nonostante i numerosi impegni lavorativi. Era un rituale, un momento di pausa in cui potevi ritrovare un po’ di te stesso.

Ma quell’anno, le cose andarono in maniera diversa. Non pianificasti nulla di particolare e ti limitasti a una birra veloce con i colleghi prima di tornare a casa.

Guidasti attraverso la città, la radio che trasmetteva in sottofondo Pyramide song dei Radiohead.

Ho saltato nel fiume, e cosa ho visto?
Angeli dagli occhi neri nuotare con me
Una luna piena di stelle e macchine astrali
Tutte le figure che ero solito vedere
Tutte le mie amanti erano lì con me
Tutto il mio passato ed il futuro
E andammo tutti in paradiso su una piccola barca a remi

Non c'era nulla da temere e niente di cui dubitare senza che tu prestassi attenzione a una singola parola. La giornata era stata lunga, estenuante. Riunioni infinite, scadenze pressanti, e un cliente insoddisfatto che ti aveva trascinato in una conversazione senza fine. Il traffico, denso e oppressivo, non faceva che alimentare il malumore che ti stava lentamente logorando. Le luci arancioni dei lampioni si riflettevano sulla carrozzeria della tua auto nera creando bagliori intermittenti che ti stancavano gli occhi.

Finalmente, arrivasti davanti al portone di casa tua. Era una serata normale, silenziosa.

Troppo silenziosa, pensasti.

Forse era solo la stanchezza a renderti nervoso, o forse l’idea di tornare in una casa vuota, sapendo che tua moglie non ti avrebbe accolto come al solito, perché negli ultimi mesi era distante, chiusa. Non avevi mai trovato il coraggio di parlarne con lei.

Apristi la porta d’ingresso, e il silenzio fu la prima cosa che ti colpì. Era un silenzio innaturale, freddo, che sembrava gravare sulle pareti. Non c’era il rumore della televisione in sottofondo, non c’era il suono dei suoi passi che si muovevano per casa.

Lavinia chiamasti, la voce incerta. Nessuna risposta. Riprovasti, più forte, ma ancora niente.

Entrasti nel soggiorno, e lo trovasti immerso nell’oscurità. Solo una debole luce filtrava dal corridoio, proveniente dalla vostra camera da letto. Ti bloccasti per un attimo, un presagio oscuro ti serrava il petto. Era come se qualcosa dentro di te sapesse già cosa stava per accadere, ma la tua mente si rifiutava di accettarlo.

Facesti un passo, poi un altro, avanzando lentamente lungo il corridoio. La porta della camera era semiaperta, lasciando uscire una luce fioca e tremolante. Il cuore ti batteva all’impazzata, quasi soffocante, ma non sapevi perché. Era solo una normale serata, giusto? Forse lei stava dormendo, stanca come te.  Forse.

Spingesti la porta e il mondo si fermò.

Tua moglie era lì, appesa al soffitto. Una corda grezza, rossa troppo reale per sembrare un incubo, le stringeva il collo con una brutalità quasi crudele. Il suo corpo pendeva immobile, i piedi sollevati da terra di pochi centimetri. Oscillava leggermente, come se il tempo stesso si fosse fermato solo per lei. L'aria era immobile, densa, mentre i tuoi occhi si riempivano di una scena che non avresti mai voluto vedere.

Gridasti il suo nome con un’urgenza disperata, la tua voce si spezzò in un grido soffocato che si perse nella stanza.

Andasti  verso di lei, le mani tremanti, cercando di sciogliere la corda, ma le dita non rispondevano.

Scivolavi, inciampando e le tue mani sudate incapaci di fare nulla. Guardasti le tue dita e ti sembrarono inutili arnesi. Alla fine, riuscisti a liberarla, ma il suo corpo si afflosciò tra le tue braccia, freddo, immobile.

Il suo volto, che avevi baciato migliaia di volte, era adesso una maschera pallida, estranea.

Non c’era più vita, non c’era più il suo sorriso triste che ti accoglieva ogni sera.

Ti inginocchiasti, tenendola stretta, sperando che in qualche modo quel contatto potesse riportarla indietro. Ma il suo corpo era rigido, senza calore. Era già troppo tardi.

 La sensazione di perdita ti travolse come un’ondata glaciale, e ogni cosa dentro di te si ruppe.

Il tuo mondo crollava, pezzo dopo pezzo.

Poi notasti qualcosa sul comodino, una piccola nota piegata con cura. La prendesti con mani tremanti, il cuore che batteva dolorosamente nel petto. Non volevi leggerla. Non volevi sapere cosa avesse scritto, perché quella verità era troppo pesante da affrontare. Ma alla fine, la apristi.

Mi dispiace. Non potevo più vivere nella menzogna”

Erano solo poche parole, ma ogni lettera ti trafisse come una lama. “Mi dispiace. Non potevo più vivere nella menzogna Cosa intendeva? Aveva sofferto in silenzio, nascosta dietro un velo di sorrisi che ora sembravano falsi? Era stata così lontana, e tu non te n'eri nemmeno accorto.

Il dolore che provavi era insopportabile, un buco nero che si espandeva nel tuo petto, divorando ogni pensiero, ogni emozione. Ti accasciasti a terra, stringendola ancora una volta tra le braccia, come se quel gesto potesse trattenere l’ultimo frammento di lei, la donna che avevi amato e che ora era andata via per sempre, in un modo che non avresti mai potuto immaginare.

Il silenzio, quello stesso silenzio che avevi avvertito entrando in casa, tornava a dominare tutto. Ma questa volta era più cupo, più definitivo. Era il silenzio della perdita, della fine. Rimanesti lì, con lei, in un abbraccio che sapevi non avrebbe mai potuto riportarla indietro.

Restasti lì, il corpo di lei ancora caldo contro il tuo, ma la sua mente era andata in un vuoto freddo e siderale.

Doveva essere successo in quel momento, quando il silenzio si era fatto così pesante, così soffocante e reale. Non c’era più nulla da dire. Non c’era più nulla da fare.

Era da mesi che lei non parlava più. All’inizio aveva cercato di lottare, di resistere. Ma qualcosa dentro di lei si era spezzato, e il silenzio era diventato il suo unico rifugio: “Mi dispiace. Non potevo più vivere nella menzogna” Tu l’avevi tenuta stretta, cercando di proteggerla, sperando che ci fosse ancora una parte di lei che potesse reagire. Ma ogni giorno era più distante, più assente. E ora che giaceva immobile tra le tue braccia, sapevi che era finita.

Ti dirigesti verso la porta, sapendo che non avresti trovato nulla di diverso là fuori. Ma non potevi restare lì. Avevi bisogno di muoverti, di fare qualcosa, anche se non c’era più speranza. Ogni passo ti sembrava pesante, come se stessi trascinando con te quel silenzio mortale.

Fuori, il mondo stava cambiando.

E capisti. Era finita per tutti, non solo per lei. Il silenzio che sentivi non era solo la sua perdita. Era la fine di un'intera umanità, la cancellazione di tutto ciò che un tempo eravate stati.

E in quel silenzio, ti accorgesti che non avevi nemmeno più la forza di lottare.

Il silenzio che seguì era qualcosa di più profondo del dolore. Era la cessazione del battito collettivo, come se un'intera umanità avesse smesso di respirare in sincronia. Il suono delle auto in lontananza, il brusio delle voci, tutto sembrava ovattato, distante, come se stessi osservando il mondo attraverso un vetro spesso, con l'acqua che filtrava lentamente e copriva tutto di un velo opaco.

Non c'era più lotta dentro di te. Non c'era più forza, né rabbia. Solo una stanchezza che ti schiacciava sotto il peso dell'ineluttabilità. Il tempo si era frantumato. Non c'erano più ieri o domani, solo un presente immobile, eterno nella sua soffocante mediocrità. Restavi lì, fermo, mentre tutto sprofondava intorno a te, pezzo dopo pezzo. Il mondo, il tuo mondo, si sgretolava come cenere gettata al vento.

Quell’oscurità che cresceva dentro e fuori di te non era solo dolore o disperazione, ma la livida consapevolezza della normalità che segue la morte. Una morte improvvisa, come una mano fredda che strappa via tutto in un attimo, lasciando dietro di sé la quotidianità. Non c'erano lacrime abbastanza profonde per coprire la banalità straziante delle piccole cose: la tazza di caffè lasciata sul tavolo, la coperta accartocciata sul divano, la sua giacca appesa che non avrebbe più sfiorato.

E così arrivarono i rapporti. Prima la polizia, poi il medico legale, e ogni volta che sentivi una nuova parola su come fosse accaduto, sembrava che tutto diventasse più irreale. Ogni dettaglio clinico, ogni frase detta con calma burocratica ti scavava dentro, ma non riuscivi a sentirne il peso. Come se quelle informazioni non appartenessero davvero a te. Come se fossero il racconto della vita di qualcun altro, un'altra realtà che ti era stata imposta a forza.

Il funerale fu un susseguirsi di volti che ti sembravano sfocati, sbiaditi. Amici e parenti venivano, ti guardavano, chiedevano, cercavano di colmare il vuoto con parole che non avevano senso. “Com'è successo?” ti chiedevano, come se ci fosse una spiegazione logica, una narrazione che potesse dare conforto. Ma non c’era niente. Nemmeno tu riuscivi a capire. Sembrava che il mondo esterno si stesse prendendo gioco di te, ti stesse trascinando in un vortice macabro in cui niente era più reale, dove tutto poteva accadere e non accadere allo stesso tempo.

Gli avvocati arrivarono poco dopo. Formalità, documenti, firme. Nomi e numeri. Pratiche da concludere. E tu eri ancora lì, con le mani che tremavano leggermente, senza capire cosa stesse accadendo. Come se la tua stessa esistenza fosse diventata un’ombra. Come se tutto quello che ti circondava non fosse altro che una lunga eco distorta di qualcosa che un tempo era stato vivo, ma ora era ridotto a un’ombra, un riflesso che svaniva con ogni movimento.

Ti trovasti a fissare un muro, senza capire per quanto tempo fossi rimasto immobile. Le lancette dell’orologio non avevano più significato. Il tempo si era fermato nel momento stesso in cui avevi capito che non era solo lei a essere scomparsa, ma anche te stesso. Non sapevi più chi eri, o cosa significasse continuare. Eri intrappolato tra l’idea della sopravvivenza e l’assurda consapevolezza che non c’era più nulla per cui lottare.

Il mondo continuava a crollare, lentamente, inesorabilmente, come una valanga che scivola giù senza fretta, ma con una forza travolgente. Pezzo dopo pezzo, ogni cosa che avevi conosciuto, ogni piccola sicurezza, ogni piccolo conforto, tutto si disfaceva davanti ai tuoi occhi. Il passato, il futuro, le promesse che un tempo ti avevano sostenuto… nulla aveva più significato.

E alla fine restava solo quell’oscurità. Non era una notte stellata o un abisso profondo. Era un’oscurità livida, piatta, opprimente, che ti avvolgeva come una coperta pesante. Era la banalità straziante della fine, che non giunge con un grido o una tempesta, ma con un sussurro, con la calma apparente di un giorno qualunque che si trasforma nell’eternità del nulla.

Ti accorgesti che non stavi più vivendo. E forse, da tempo, non lo facevi davvero.

Lavinia era morta da tre settimane. Il suo posto nel letto era ancora intatto, la sua assenza palpabile, come se ogni angolo della casa avesse perso la sua anima insieme a lei. Non riuscivi a togliere la vista dalle sue cose, dai libri che stava leggendo, dai suoi abiti nell'armadio. Le fotografie di Francesca Woodman che amava tanto e decoravano discretamente le pareti di casa e ogni piccolo oggetto era un richiamo continuo alla sua presenza, un ricordo doloroso che lei non c'era più e non sarebbe mai più tornata.

Poi una sera piovosa di ottobre, una di quelle che sembrano rispecchiare esattamente come ti sentivi dentro, vuoto, confuso e intrappolato in un'oscurità che non riuscivi a dissipare, venne interrotta dal suono del telefono. Non ero pronto a parlare con nessuno, le condoglianze avevano iniziato a diventare uno strazio e ogni parola che ascoltavo suonava vuota, priva di senso.

Tuttavia, qualcosa ti convinse  a rispondere.

«Pronto? »

Passaro tre, quattro secondi di silenzio.

«Buonasera. Sono Ingrid non mi conosce.»

«Infatti. Con chi parlo esattamente? »

«Conoscevo Lavinia…»

«Ah…Posso esserle utile? »

«Spero di si. Vorrei incontrarla, Daniel… »

«Uh…non so se lei è al corrente, ma Lavinia è… »

«Si lo so. »

«Mi fa capire qualcosa di più? Io credo di non conoscerla e sinceramente… »

«Io e Lavinia ci frequentavamo. Non da amiche…»

«Eh? »

«Eravamo intime. »

«Capisco, ma deve avere pazienza. Per me è un momentaccio e sto facendo ordine… »

«Amanti. »

«Non ho capito. »

«Io e Lavinia avevamo una relazione amorosa.»

«Ma è assurdo! Voglio dire….Lei è pazza, mi lasci stare… »

«Lavinia aveva due piccole voglie sul corpo. Una sulla natica sinistra e una sotto il seno destro. Ma non è di questo di cui vorrei parlare con lei, Daniel.»

«Si…cioè…Mi sta mandando in confusione. Io e Lavinia stavamo passando un periodo critico e…Non so perché sto parlando di lei in questo modo. »

«Lavinia me lo aveva detto. Ci siamo conosciute un anno fa a casa di amici comuni, durante una festa. »

«Ma davvero? E chi sarebbero questi amici comuni? »

«A casa di  Fernando e Sergio. »

Passò qualche attimo prima che Daniel riprendesse la comunicazione.

«Cosa vuole da me? »

«Parlarle. Lavinia l’amava e tra noi era diverso. »

«Lavinia non me ne ha mai parlato. »

«Lavinia non parlava con lei da mesi. Questo la faceva star male, mi creda »

«Ciò atteneva alla nostra relazione. Nessuno lo poteva sapere… »

«Daniel io so solo quello che mi diceva Lavinia e per quello che potevo capire è che era ancora innamorata di lei. Ma stava passando un periodo in cui si teneva tutto dentro e con me si sfogava…anche sessualmente ed intimamente questo lo aiutava a stare meglio. Questo lo avevo capito da subito e a me stava bene così. Non pretendevo altro dalla nostra relazione. Ma …il suo gesto improvviso  ha lasciato un segno non risolto anche su di me. »

«Qualcuno d’altro sapeva della vostra relazione? »

«Questo le crea problemi? »

«No. Non sono quel tipo di persona. Ma le ho fatto una domanda. »

«Non saprei…Conosceva una certa Lory. Mi ha detto che era la sua amica fin dal liceo »

« Lory e suo marito frequentano questa casa da anni. Abbiamo fatto diverse volte le ferie assieme. Si era una sua amica da molto tempo e si volevano molto bene.»

«Daniel. Mi farò viva io. Non voglio forzarla adesso. Ma la scongiuro cerchiamo di vederci. Abbiamo molte cose da chiarire su Lavinia. Facciamolo per lei. »

«Mi lasci del tempo per riflettere. Tutto è così impreciso, privo di senso compiuto… »

«Non sempre le cose compiute sono quelle che hanno più senso »

Daniel chiuse la telefonata con un tremito. Ingrid, una sconosciuta che sembrava uscita dal nulla, aveva appena devastato l'ordine che con tanta fatica cercava di ripristinare nella sua vita. Lavinia, la donna che aveva amato, che lo aveva lasciato così brutalmente, si era suicidata da poco, e lui stava ancora cercando di raccogliere i pezzi di una storia  finita male. Anzi, peggio.

Seduto sul divano, ancora con il telefono in mano, come se aspettasse che potesse squillare di nuovo, come se fosse pronto a rifiutare altre verità scomode. Ingrid aveva svelato dettagli che nessuno avrebbe potuto conoscere: le voglie di Lavinia, una relazione segreta, il loro amore, il sesso… Ma ciò che lo tormentava di più era l’accusa silente nascosta nelle parole di quella donna. Lavinia gli aveva tenuto nascosto tutto. Si era rifugiata in qualcun altro, e nonostante tutto, Ingrid sosteneva che Lavinia lo amasse ancora. Il senso di colpa lo travolse.

La casa era immersa nel silenzio. Nella penombra, Daniel si alzò e si avvicinò alla finestra, guardando il mondo fuori come se cercasse un modo per uscire dal labirinto della sua mente. Cosa avrebbe voluto da lui, quella Ingrid? Perché venire ora, quando Lavinia era ormai polvere nel vento?

La mente di Daniel corse agli ultimi mesi con Lavinia. Il distacco crescente, il modo in cui lei si chiudeva sempre più, lasciando che il silenzio riempisse il vuoto tra loro. Non poteva sapere, non poteva immaginare che stesse soffrendo così tanto. Si erano amati, poi l'inevitabile erosione della vita li aveva separati. Aveva sempre pensato che fosse stato solo il logorio della quotidianità, ma adesso quella telefonata cambiava tutto.

Senza volerlo, gli occhi gli caddero su una vecchia foto appesa al muro. Lui e Lavinia, felici, in vacanza. Quel sorriso che ora gli sembrava così distante. “Amava davvero Ingrid?” si chiese. “O era solo una fuga dalla nostra sofferenza?”

Ingrid aveva detto che tra loro era diverso, che non voleva altro che un rifugio segreto fatto di intimità e confidenze. Ma allora perché parlare con lui? Quale verità cercava di seppellire o portare alla luce?

Decise di chiamare Lory. Se c'era qualcuno che poteva gettare luce su quel mistero, era lei, la migliore amica di Lavinia. Al secondo squillo, la voce di Lory rispose, stanca, quasi diffidente.

«Lory… ciao, sono Daniel.»

«Daniel? È passato tanto tempo… che succede?»

Daniel sospirò, la sua mente in tumulto. «Devo parlarti di qualcosa che mi sta divorando.»

Lory rimase in silenzio per un momento, come se capisse l’importanza di quelle parole. «Di cosa si tratta?»

«Una certa Ingrid mi ha chiamato oggi. Dice di aver avuto una relazione con Lavinia. Tu lo sapevi?»

Dall'altra parte del telefono, il silenzio si fece pesante. Daniel sentiva il battito del suo cuore accelerare.

«Sì, lo sapevo.»

Quelle parole caddero come un macigno. Lory lo sapeva. Da quanto? Perché non gli aveva mai detto nulla?

«Perché… perché non mi hai detto niente?» balbettò, sentendo la rabbia crescere.

«Perché non era affar tuo, Daniel.» La voce di Lory era fredda, distante. «Lavinia era una donna complessa. So che la amavi, ma non l’hai mai davvero capita. Quella relazione con Ingrid era un rifugio per lei, un modo per fuggire da tutto ciò che la soffocava. Eri parte di quel soffocamento, anche se non lo volevi.»

Daniel rimase senza parole. Tutto ciò che pensava di sapere si stava sgretolando. «Ma… io l’amavo. Pensavo che stavamo solo attraversando una fase difficile.»

«Forse lo pensavi tu. Ma per Lavinia non era così. Ti ha amato, Daniel, non fraintendermi. Ma le cose tra voi si erano incrinate da troppo tempo, e tu non te ne sei mai accorto. Era troppo sola.»

Quelle parole lo colpirono come pugni. Aveva amato Lavinia, ma forse l'aveva persa molto prima di quanto avesse voluto ammettere. Forse Ingrid non era la causa del loro fallimento, ma solo un sintomo.

«Cosa devo fare ora?» chiese Daniel, più a sé stesso che a Lory.

«Non so, Daniel. Forse è il momento di fare pace con il passato. Lavinia è andata via, ma tu sei ancora qui. Non continuare a cercare risposte in posti dove non potrai trovarle.»

La chiamata finì, lasciando Daniel con un peso ancora più grande sul cuore. Aveva perso Lavinia una seconda volta, non solo per la morte, ma per il fatto che non l'aveva mai davvero conosciuta.

Sapeva che doveva incontrare Ingrid.

Avevano trascorso ventidue anni insieme. Quando lo diceva a qualcuno, ricevevo sempre una qualche espressione di meraviglia. “Ventidue anni, wow!” Eppure, in quei sorrisi e complimenti, c’era sempre un sottile interrogativo che restava sospeso nell’aria. “Com’è possibile? Come si fa a stare tanto tempo con una persona e non impazzire?”

Sorrideva di rimando e annuiva, ma dentro di lui una domanda diversa si faceva largo, una domanda che nessuno sembrava mai porsi: “Come si fa a stare tanto tempo con una persona e non conoscerla mai davvero?”

 Certo, sapeva cosa piaceva a Lavinia, i suoi cibi preferiti, le canzoni che ascoltava quando era triste, le storie che la facevano ridere. Sapeva che detestava i giorni di pioggia perché le ricordavano un’infanzia troppo spesso passata tra le mura fredde di casa, e che adorava il mare, specialmente all’alba, quando la luce era tenue e il mondo sembrava ancora avvolto nel sogno. Ma erano dettagli, pezzi di un mosaico che non riusciva mai a completare. C’erano spazi vuoti, ombre che non riusciva a dissipare.

Quando si erano conosciuti, erano entrambi giovani, pieni di speranze e paure. Lei era affascinante, con quella risata cristallina che mi faceva dimenticare qualsiasi preoccupazione. La sua presenza era una calamita. Iniziarono a uscire insieme quasi subito, come se fosse una cosa naturale. Parlavano tanto allora, ore e ore. C'erano serate in cui si perdevano a discutere del futuro, dei loro sogni, e altre in cui, senza volerlo, aprivano porte su dolori passati che non avrebbero mai voluto condividere con nessun altro. Eppure, nonostante quelle confessioni, sentivano che c’era sempre qualcosa che mi sfuggiva.

Man mano che passavano gli anni, le parole tra loro si erano diradate. Non c'era bisogno di parlare tanto, si capivano con uno sguardo. O almeno così credevano. Avevano i loro rituali: la colazione insieme la domenica mattina, le passeggiate in silenzio al parco la sera, i viaggi brevi e improvvisati. Eppure, più il tempo passava, più il silenzio tra di loro sembrava crescere, come una crepa che, impercettibilmente, si allarga su un vecchio muro. Era un silenzio diverso, non quello confortevole dell’intimità, ma un silenzio che sembrava nascondere qualcosa.

C’erano momenti in cui, nel buio della loro camera, la osservava dormire. Il suo respiro era regolare, il viso disteso, eppure lui si sentiva lontano. Si chiedeva: Chi era quella donna accanto a me? Come mai non riuscivo a percepire i suoi pensieri, i suoi veri desideri? Forse erano cambiati nel corso degli anni e io non me n’ero accorto? O forse non li avevo mai conosciuti davvero?

Presi dai loro rispettivi  lavori appaganti, Daniel art director in una società di comunicazione, lei editor presso un’importante casa editrice, non riuscivamo più a guardare oltre ad esso.

Daniel ricordava una sera,  a tavola. Il solito pasto silenzioso, il rumore delle forchette sui piatti. Lavinia all’improvviso alzò gli occhi e lo guardò fisso. “Ti sei mai chiesto se mi conosci davvero?”  chiese.

Rimase spiazzato. Una domanda semplice, apparentemente innocua, eppure lo colpì come un fulmine. Cercai di rispondere con una risata nervosa. “Certo che ti conosco, Lavinia. Sono ventidue anni, no?”

Lei non sorrise. Scosse la testa lentamente, poi si alzò dal tavolo senza dire una parola. Lui rimase lì, confuso, con una strana sensazione di vuoto. Era una domanda che avrebbe potuto fare chiunque in una relazione lunga, eppure quella sera aveva un peso diverso. Sembrava che Lavinia stesse dando una chiave per aprire una porta che non avevo mai notato prima. Ma non sapeva se voleva aprirla.

Da quel momento, cominciò a notare dettagli che prima avevo ignorato. Quando uscivano, sembrava più distante, persa nei suoi pensieri. Spesso la trovava con un libro in mano, ma non leggevano mai insieme come facevamo un tempo. Aveva l’impressione che ci fosse un mondo interno a cui non aveva accesso, un labirinto di pensieri ed emozioni che Lavinia teneva ben nascosto. E forse, si disse, lo stesso valeva per lui. Si rese conto che anche lui aveva costruito delle mura invisibili nel corso degli anni. Piccole bugie bianche, desideri mai espressi, pensieri che aveva trattenuto per non ferirla o per evitare conflitti. Ma quegli ostacoli, sommati l’uno all’altro, avevano creato una distanza che nessuno dei due sapeva come colmare.

Una notte, prese coraggio e le chiese: «Lavinia, cosa non so di te? »

Lei lo guardò a lungo, in silenzio, e poi rispose: «Molte cose. Ma forse è troppo tardi per raccontarle.»

Quella frase lo trafisse. Era davvero troppo tardi? Dopo tutto quel tempo passato insieme, si erano così allontanati che non c’era più modo di tornare indietro?

Iniziò a pensare a tutti quei momenti in cui aveva creduto di conoscerla, ma in realtà non aveva fatto altro che proiettare su di lei le sue aspettative, i sui desideri. Forse la persona che avevo amato per così tanto tempo non era quella che aveva costruito nella sua mente. Forse aveva visto solo ciò che voleva vedere, ignorando parti di lei che non riusciva a comprendere o che preferiva non affrontare.

Con il passare dei mesi, le cose tra di loro non migliorarono. Continuavano a vivere insieme, a condividere lo stesso spazio, ma il silenzio tra di loro era diventato assordante. Un giorno, senza preavviso, Lavinia disse che aveva bisogno di una pausa  e poi se ne andò. Nessun dramma, nessuna scenata. Solo un addio silenzioso.

Rimase solo, circondato dalle sue cose, dal suo profumo che ancora aleggiava nella casa. Si sedette sul divano e per la prima volta, dopo tanto tempo, si sentii perso. Aveva vissuto ventidue anni con una persona che pensava di conoscere, ma alla fine si rese conto che non l’aveva mai conosciuta veramente. O forse, il problema era che non aveva mai conosciuto se  stesso.

Il senso di una relazione, capii allora, non sta solo nel tempo passato insieme, ma nella capacità di continuare a scoprire l’altro, di accettare che alcune parti di noi resteranno sempre misteriose. L’errore più grande che avevano fatto era stato pensare di conoscersi a fondo, di aver raggiunto una sorta di comprensione totale, quando invece avevano solo grattato la superficie.

Forse, il vero amore non è tanto nella certezza, quanto nel continuo tentativo di comprendere. Di cercare, di sbagliare, di ricominciare da capo. E forse, in fondo, il mistero è ciò che rende una relazione viva. Ma quel pensiero arrivò troppo tardi, come spesso accade.

Quando le ore conducevano verso l’alba, sentiva nei loro respiri un sonno fasullo. Il silenzio nella stanza era spesso, pesante, come se ogni nostra parola non detta si fosse addensata nell’aria. Non lo stringevi, non lo toccavi per parlare, e lui faceva lo stesso. Restavi immobile, con gli occhi aperti nel buio, ascoltando il suono monotono del suo respiro, chiedendomi se eri sveglia .. Era un rituale ormai, una coreografia di gesti mancati e pensieri taciuti. Non accendevamo la luce, perché sapevamo entrambi che non sarebbe servito più a nulla.

C’era qualcosa di così definitivo in questo silenzio che ti chiedevi perché restavate fermi qui, ad aspettare. Avrebbe avuto  più senso che uno di loro si fosse alzato e fosse svanito e nella notte, che sarebbe uscito senza far rumore, con il passo lento di chi non ha fretta di tornare. Forse dopo qualche giorno, uno di loro avrebbe mandato un amico, qualcuno con un sorriso di circostanza, armato di scatoloni, per svuotare la loro vita di tutto ciò che avevano condiviso. Tutti quegli oggetti, un tempo simboli di momenti felici, verrebbero gettati alla rinfusa, senza più significato. Le fotografie, i libri, i biglietti di concerti, tutto portato via, come per liberare lo spazio da un passato che non  apparteneva più a loro.

Ma non facevano neppure questo. Rimanevano, sospesi in un’attesa infinita, incapaci di prendere una decisione, come due giocatori di scacchi in un’eterna partita dove nessuno osa fare la mossa decisiva. Aspettavano  reciprocamente che l’altro prenda l’iniziativa, che uno compisse  quel passo troppo difficile da affrontare. Restavano lì, svegli ed immobili, appostati come sentinelle. Sentinelle di due campi nemici. Non avevano più il coraggio di parlare, perché ogni parola avrebbe potuto scatenare una battaglia, lasciare entrare pensieri troppo dolorosi, pensieri che abbiamo tenuto fuori con ogni mezzo possibile. Ma il silenzio non li proteggeva più: era diventato un nemico anche lui.

Eppure, non sai mai dire quando le cose cominciano a finire. Non c’è un giorno preciso, un istante in cui tutto cambia. Anche a guardarsi indietro, Daniel non riusciva a trovare il momento esatto in cui qualcosa era andato storto, in cui avevano iniziato a perdersi. Se ci fosse un calendario, su quale data dovrei segnare l’inizio della fine? Forse è stato un lento declino, un’inversione di tendenza che non avevano voluto vedere. Il loro progetto di vita, che un tempo dava gioia e speranza, aveva smesso misteriosamente di produrre qualcosa di positivo.

Aveva  iniziato, in modo impercettibile, a divorare tutto ciò che avevano costruito, fino a lasciare un capitale di ricordi sbiaditi e sogni disillusi.

Sembrava soltanto ieri che avevano parlato di dove andare in vacanza. Un tempo, parlare di vacanze era il loro momento di evasione preferito, un modo per immaginare un futuro insieme, per sognare luoghi lontani e avventure ancora da vivere. Ma ieri, mentre facevano quella stessa conversazione, c’era qualcosa di diverso. La voglia, l’entusiasmo, erano scomparsi. Sembrava una formalità, come se stessimo discutendo di una cosa inevitabile ma senza più alcun interesse reale. A ripensarci, si accorse di aver tenuto nascosti i luoghi che volevo davvero visitare. Si era sorpreso a immaginare paesaggi assolati dove lei non c’era, a sognare una libertà che non potevano condividere. Era sicuro che anche lei aveva fatto lo stesso, che dietro i suoi sorrisi forzati c’era il desiderio di essere altrove, lontana da tutto questo, lontana da lui.

Non è passato molto tempo da quando progettavano vacanze con mesi di anticipo. In pieno inverno, quando il mondo era grigio e freddo, sognavano il sole, il mare, le montagne. Spendere in guide turistiche e mappe non era mai stato un problema, anzi, era parte del divertimento. Ogni nuovo dettaglio da scoprire, ogni angolo nascosto da esplorare, riempiva di aspettative. C’era un tempo in cui sognare non era mai troppo, in cui ogni progetto sembrava realizzabile, ogni viaggio un’avventura in cui perdersi insieme.

Ma quel tempo sembra distante, un’ombra lontana che non riusciva più a toccare. È passato poco, in realtà. Non so quanti mesi o anni erano esattamente. Ma in qualche modo, era come se fosse trascorsa un’eternità. Un’eternità di distanze che si sono allungate senza che ce ne rendessimo conto, un’eternità di parole non dette e di silenzi troppo pieni. Ora restavano appostati nelle loro trincee invisibili, incapaci di ammettere che forse è finita davvero, che ciò che li teneva insieme si è dissolto senza che ce ne accorgessero.

Eppure, nessuno di loro osava fare il primo passo. Forse perché, nonostante tutto, c’era ancora una parte di Daniel che sperava, una parte che voleva credere che potevano tornare indietro, che potevano ricostruire ciò che avevano  perso. Ma la speranza è fragile, e l’alba che si avvicinava sembrava portare solo un’ulteriore consapevolezza: non sempre si può salvare ciò che è rotto.

Forse, ci vuole più coraggio a lasciare andare che a restare.

Lavinia tornò dopo tre giorni e Daniel rimase con la consapevolezza che ci sono persone che, pur vivendo accanto a noi per anni, resteranno sempre in parte sconosciute, come isole lontane in un mare di silenzio.

Un anno fa, sei mesi fa. Che data segnare sul calendario per mettere un punto, per poter finalmente dormire?

C’è un prima che era marcito, ovvio. Marcito fino a diventare la palude su cui questo letto ghiacciato galleggia. Si ricordava di lei in quel prima, in cui brillava fino a rendere opaco ogni altro ricordo. Incontrarsi, inseguirsi, notti che non finivano mai e mattinate passate nel dormiveglia, in attesa tremante. Sempre meno il tempo tollerabile da passare lontani, fughe d’amore ad ogni fine settimana. Poi casa, lui e lei, la promessa solenne di non permettere alla routine di mordere forte, di dare ad ogni giorno un motivo per essere ricordato.

Erano due pazzi  immortali, come avrebbe potuto mai essere diverso da così?

Quando ha smesso di essere vero?

Un giorno era tutte le sue fantasie, quello dopo era la prima a cui lo raccontava. Quello dopo ancora la sua voglia essere la prima lo irrita come una catena a strozzo. Forse il punto andrebbe messo lì, forse nel momento in cui il suo “Niente” alla domanda “Che cosa c’è?” ha smesso di significare il desiderio di un abbraccio per diventare un “non mi rompere i coglioni”. Forse. Forse sono vere tutte quelle cazzate, sulla necessità di essere due mondi che si sfiorano e non la fusione pasticciata in uno solo. Forse. Loro però non ci erano riusciti.

Un giorno Lavinia lo  cercava in ogni angolo e quello dopo lo sentiva tra i piedi ad ogni passo.

Sospiri.

Lo sai che sono sveglio. Devi essere scomoda in quella posizione, da ore. Vorresti girarti ma non lo fai, anche l’intimità del solo riconoscersi immersi negli stessi pensieri deve esserti tanto insopportabile quanto a me, stanotte. Non piangi nemmeno più, da tanto, tantissimo tempo. La palude ha gelato anche le lacrime.

Dovrei alzarmi, concederti almeno un paio d’ore di sonno, anche se lo prenderesti come l’ennesimo gesto di disprezzo verso di te, non certo di attenzione. Anche se ormai poco di tutto questo ha senso.

Quale data è quella giusta da segnare? Quel giorno che mi hai aggredito per aver cambiato la password di Facebook, quel giorno in cui ascoltavo i rumori della tua doccia mentre sbirciavo frenetico i messaggi sul tuo cellulare.

In fondo avrebbero dovuto odiarsi, ora che l’amore era fuggito via. Forse lei già lo faceva, dopo tutti i  motivi sufficienti che lui le aveva dato per farlo. Se le cose fossero semplici Daniel avrebbe fatto lo stesso.

Non ci riusciva.

Non ti amo, non ti odio, sento solo questo grande gelo che non ha neppure il merito di tener lontani tutti quei ricordi che mi graffiano come maledizioni felici. Dovrei odiarti, eppure cosa?

Eppure restano le carezze, gli occhi sognanti, i respiri che si cercano. Restano le ore strappate al dominio del tempo per raccontarsi a vicenda. Restano i nugoli di domani ronzanti su fogli di carta strappati chissà dove. Restano bottiglie di vino che non avevano alcun diritto di finire, fotografie mai scattate di luoghi ancora da visitare e fotografie che non serve guardare, se non per sbiadire ricordi molto più vividi. Resta la realtà e restano i ricordi. Resta la voglia di non essere in nessun altro luogo al mondo, viaggi altrove, in infiniti altrove.

Dovrei svegliarti, stringerti, raccontarti che tutte queste cose non sono marcite, non sono gelate, sono lì appena sotto la superficie e basta afferrarle per farle tornare reali e presenti.

Dovrei dirti che andrà tutto bene ma non lo faccio, perché tra tutto ciò che resta qualcosa ora manca, per sempre.

Noi.

Noi non restiamo. Abbiamo già preso strade che ci portano a mondi differenti, realtà lontane unite solo da deboli eco di rimpianti che vanno spegnendosi. Un giorno non lontano queste ferite saranno rimarginate, il passato un silenzio ovattato che non sentiremo più. Un giorno anche il più coriaceo di questi spettri felici si stancherà del nostro limbo e si dissolverà annoiato.

Ci saranno nuove notti che vorremmo non finissero mai, nuovi occhi che non potremo smettere di fissare, nuovi corpi caldi sotto le dita. Ci saranno letti e cuori che assicureremo di non far congelare mai. Nuove promesse, nuovi ricordi che scalceranno lontano quelli vecchi. Nuovi per sempre giurati come se non ne avessimo mai infranti altri.

Allora l’amore, l’amore ci farà a pezzi, di nuovo.

Quando la routine morde forte,
e le ambizioni sono basse,
e i risentimenti guidano alti,
Ma le emozioni non cresceranno,
e noi stiamo cambiando le nostre abitudini,
prendendo strade diverse.

Allora l'amore, l'amore ci farà a pezzi di nuovo
l'amore, l'amore ci farà a pezzi di nuovo

Perché la camera da letto è così fredda?
Sei ritornata sui tuoi passi.
è il mio tempo che è difettoso?
Il nostro rispetto arriva così asciutto.
C'è però ancora questa attrazione
Che abbiamo portato attraverso le nostre vite.

Ma l'amore, l'amore ci farà a pezzi di nuovo
l'amore, l'amore ci farà a pezzi di nuovo

Piangi nel sonno,
tutti i miei fallimenti smascherati
e c'è un sapore nella mia bocca,
Come se la disperazione prendesse posto.
Solo che qualcosa di così bello
Soltanto non può funzionare più.

Ma l'amore, l'amore ci farà a pezzi di nuovo
l'amore, l'amore ci farà a pezzi di nuovo
l'amore, l'amore ci farà a pezzi di nuovo

l'amore, l'amore ci farà a pezzi di nuovo

 

Daniel fissava il mare dalla finestra del piccolo appartamento che aveva affittato da qualche giorno, nel tentativo di sfuggire ai fantasmi della sua casa vuota. Il cielo era coperto da una coltre grigia, lo stesso colore che sembrava essersi depositato nel suo animo da quando Lavinia, sua moglie, era morta. Il suicidio di Lavinia era arrivato come un fulmine a ciel sereno, una tragedia che Daniel non riusciva a comprendere né a spiegare. Non c'erano indizi, segnali, nulla che potesse fargli sospettare che qualcosa andasse così storto. Ma il biglietto trovato accanto al suo corpo gli ronzava ancora in testa: “Mi dispiace. Non potevo più vivere nella menzogna”.

Menzogna? Quale menzogna?

Le risposte tardavano ad arrivare, fino a quel giorno in cui ricevette una chiamata da un numero sconosciuto. La voce dall’altra parte era bassa, quasi timida, ma determinata.

«Daniel? Sono Ingrid... dobbiamo parlare di Lavinia. Subito »

«Ingrid. Ci vediamo domani, al bar sul molo. Sarò lì alle 10. »

La chiamata si interruppe prima che Daniel potesse fare altre domande. Una strana inquietudine lo accompagnò per tutta la notte. Chi era Ingrid? E che cosa aveva da dirgli di Lavinia?

Il giorno dopo, Daniel si recò al bar. Il luogo era quasi deserto, con solo un paio di pescatori che sorseggiavano caffè. Una donna era seduta in un angolo, lo sguardo perso sul mare. Doveva avere più o meno l'età di Lavinia, forse un po' più giovane. Quando lo vide, si alzò e gli fece un cenno. Daniel le si avvicinò, sentendo il cuore accelerare nel petto.

«Ingrid, giusto? »  chiese con voce incerta. »

«Sì», rispose lei, invitandolo a sedersi.

Ci fu un lungo silenzio, interrotto solo dal rumore delle onde in lontananza. Poi Ingrid parlò.

«Non so bene come dirlo, Daniel, quindi andrò dritta al punto. Io e Lavinia eravamo amanti. Da circa un anno. »

Daniel rimase paralizzato. Le parole sembravano irrealistiche, distorte, come se fossero provenute da un altro mondo, da un'altra vita. « Cosa? » mormorò, incapace di comprendere.

«Eravamo amanti», ripeté Ingrid. « Lo so, è uno shock, ma c'è di più che devi sapere. »

La testa di Daniel girava. L'immagine di Lavinia, sua moglie amorevole, che nascondeva una relazione così importante lo travolse. «Perché? » fu tutto ciò che riuscì a chiedere.

Ingrid sospirò, gli occhi umidi di lacrime trattenute. “Lavinia ti amava, Daniel. Non dubitare mai di questo. Ma c'era una parte di lei che non riusciva a mostrarti. Una parte che nascondeva perfino a sé stessa, per anni. La sua ombra, la sua verità più oscura... E quella verità l'ha divorata lentamente. »

Daniel sentì una stretta al petto. «Non capisco. Perché non me ne ha parlato? Perché ha preferito uccidersi piuttosto che dirmi la verità? »

«Non era solo la nostra relazione», spiegò Ingrid con voce spezzata. «Lavinia portava un peso che andava oltre il nostro amore segreto. Era una donna lacerata, intrappolata in una vita che sentiva non appartenerle. La sua famiglia, le aspettative... persino il matrimonio con te, per quanto ti amasse, erano diventati una prigione. La nostra relazione le ha dato sollievo per un po', ma alla fine... anche quello non è bastato. »

«Allora perché non me l'ha detto? Avremmo potuto affrontare tutto insieme »  ripeté Daniel, come se cercasse di convincersi che ci fosse una via d'uscita che Lavinia non aveva voluto vedere.

Ingrid scosse la testa. «Non poteva, Daniel. Aveva paura. Paura di ferirti, paura di ammettere a sé stessa che la vita che aveva costruito non era quella che desiderava. Io ero il suo rifugio, ma anche con me non poteva essere completamente libera. La verità è che Lavinia era una donna spezzata e nessuno di noi è riuscito a salvarla. Nemmeno io. »

Daniel rimase in silenzio, sentendo il mondo crollargli addosso. La donna che pensava di conoscere non era mai esistita del tutto. C'era sempre stata un'altra Lavinia, nascosta dietro la facciata, e lui non l'aveva mai vista.

«Mi dispiace, » disse Ingrid, le lacrime che finalmente scendevano sul suo volto. “Se avessi saputo che le cose sarebbero finite così, avrei fatto qualcosa. Qualsiasi cosa. »

Daniel si alzò, sentendo la terra mancare sotto i piedi. Il dolore, la rabbia, la confusione... tutto si mescolava in un vortice insopportabile.

«Non so se riuscirò mai a perdonarla o a perdonarti, » mormorò, senza guardarla negli occhi. Ingrid non disse nulla, lasciandolo andare. Daniel uscì dal bar, con il mare davanti a sé e la verità che lo schiacciava.

Ora conosceva la menzogna, ma la verità non gli offriva alcuna pace.

Ingrid lo ricorse fuori dal bar.

«Lavinia custodiva un segreto. »

«Daniel questa è per te. Me l’aveva data Lavinia come se fosse a conoscenza di quello che ti sarebbe successo dopo la sua morte…»

Lasciò cadere una busta ai piedi di Daniel e corse via prima che Daniel potesse fermarla.

Daniel non riusciva a staccare gli occhi dalla lettera. Le mani gli tremavano mentre la teneva stretta, come se temesse che da un momento all'altro potesse svanire, dissolversi in cenere come l'illusione della vita che aveva creduto di vivere fino a quel giorno. La carta era ingiallita, logora, segnata dal tempo, eppure le parole che conteneva erano come un colpo dritto al cuore. L'ultima testimonianza di Lavinia, sua moglie, che si era tolta la vita solo poche settimane prima, lasciandolo in un abisso di dolore e domande senza risposte.

Non era stata una morte spiegabile. Lavinia sembrava moderatamente felice, stabile. Non c'era stata alcuna avvisaglia che qualcosa di oscuro le stesse corrodendo l'anima. Fino a quella sera, quando l'aveva trovata impiccata nella loro camera da letto, il viso placido come se dormisse, ma le mani fredde e immobili penzolanti da braccia inerti  lungo il corpo.

Per settimane, Daniel aveva cercato di ricostruire un senso nella sua morte. Gli amici e la famiglia avevano parlato di esaurimento nervoso, di stress non dichiarato, ma niente lo convinceva. Fino a quando non aveva letto la lettera, custodita da colei che aveva tradito la sua relazione, la sua vita avvolta da una fitta rete di ricordi che lui pensava di conoscere.

 

Daniel, se stai leggendo queste parole, significa che non sono più tra voi. Non so se sarai in grado di perdonarmi, ma la verità deve emergere. Io non sono chi pensi. Non sono la Lavinia che hai sposato. Sono una copia, un'imitazione.”

Daniel aveva dovuto rileggere quelle righe almeno tre volte prima che il loro significato penetrasse completamente nella sua mente. Una copia? Cosa significava? Il respiro gli si era fatto irregolare, e si era affrettato a continuare a leggere, divorando le parole successive.

La vera Lavinia è morta anni fa, molto prima che ci conoscessimo. Io sono il risultato di un esperimento scientifico, che non avrei mai dovuto scoprire. Eppure, quando mi hanno ‘svegliata’, mi hanno dato la sua vita, i suoi ricordi, tutto ciò che era lei. Per me, era come essere lei. Non ho mai saputo di essere altro fino a poco tempo fa, quando la verità mi è stata rivelata.”

Daniel si era fermato, il cuore in tumulto. Lavinia… la sua Lavinia, quella con cui aveva condiviso anni della sua vita, non era reale? Non era la vera Lavinia, ma una replica? Era una follia. Eppure, c'era qualcosa di agghiacciante e terribilmente logico in tutto ciò.

Il progetto si chiama Sosia. È gestito da un'organizzazione che ha perfezionato la clonazione umana, ma non solo nel senso fisico. Sono riusciti a replicare le memorie, l'essenza stessa di una persona. Io non sono altro che una copia perfetta della Lavinia originale, programmata per vivere al suo posto. Ma ora so la verità. E non posso continuare a vivere con questa bugia. Ogni giorno, ogni sorriso che ti ho rivolto, ogni carezza… tutto falso. Non posso più sostenere il peso di questo inganno.”

Daniel lasciò cadere la lettera, la mente in preda al caos. Si rifiutava di accettare l'idea che la donna che aveva amato fosse solo un'ombra di qualcun altro. Ma i pezzi cominciavano a combaciare. Piccole stranezze, dettagli che aveva sempre ignorato: i ricordi che Lavinia a volte sembrava confondere, come se non fossero del tutto suoi; la sensazione, in momenti isolati, che qualcosa in lei fosse… cambiato.

Si alzò di scatto, come se improvvisamente avesse bisogno di muoversi, di fare qualcosa. Le sue mani scivolarono nervosamente tra i cassetti, finché non trovò quello che stava cercando: il computer di Lavinia, uno strumento che lei usava di rado, come se lo temesse. Con una certa esitazione, lo accese e iniziò a cercare nei suoi file, seguendo l'istinto.

Dopo pochi minuti, trovò una cartella nascosta. Il nome era criptico, ma il suo contenuto era ancora più inquietante: una serie di documenti, rapporti medici e corrispondenze tra Lavinia e qualcuno che firmava solo come “Dott. F.”. I file descrivevano in dettaglio gli esperimenti di clonazione, l'esistenza di un laboratorio segreto, e l'identità della vera Lavinia, morta in un incidente d'auto anni prima.

La sensazione di vertigine divenne insostenibile. Daniel si rese conto che la donna che aveva amato non era mai esistita davvero. Era stato innamorato di una costruzione, un fantasma modellato su una persona reale, ma con una vita a sé stante. Ma ora che ne era a conoscenza, cosa avrebbe fatto?

Un’ultima frase della lettera di Lavinia gli balzò alla mente, illuminata come un segnale d’allarme:

Daniel, mi dispiace. Non posso vivere sapendo cosa sono. Non posso sopportare l'idea di essere un inganno per te, per me stessa. Ma tu hai diritto di conoscere la verità. E ora, tocca a te decidere cosa fare con essa.”

Con il cuore in subbuglio, Daniel capì che il suo prossimo passo sarebbe stato quello di scoprire chi aveva fatto questo. Perché? C'era un'intera rete di segreti dietro la morte della vera Lavinia, e ora che sapeva della loro esistenza, non poteva più far finta di nulla.

Nonostante tutto, amava ancora quella donna, quella replica. Ma ora, avrebbe dovuto confrontarsi con la terribile verità di chi lei fosse, e con la gente che aveva giocato con la vita come se fosse solo un esperimento scientifico.

 

Il Progetto Sosia

 

Lavinia si svegliò di soprassalto, il cuore che martellava nel petto. L’oscurità era fitta, e la sensazione di trovarsi in un luogo sconosciuto era agghiacciante. Si guardò intorno, ma i suoi occhi impiegarono qualche istante per abituarsi alla penombra. Non era a casa sua, né in un ospedale. Le pareti erano spoglie, fredde, e l'aria odorava di disinfettante chimico.

L’ultima cosa che ricordava era essere salita su un aereo per Tel Aviv, per una conferenza di biotecnologie. Poi, il vuoto. Doveva essere successo qualcosa durante il volo, forse un incidente? Ma perché nessuno le aveva detto nulla? Si alzò dal letto, ma un improvviso giramento di testa la costrinse a fermarsi, aggrappandosi al bordo del materasso.

La porta si aprì con un sibilo, e una donna alta e vestita con un camice bianco entrò nella stanza. «Buongiorno, Lavinia», disse in un inglese perfetto. «Come ti senti?»

Lavinia la guardò con sospetto. «Dove mi trovo? E chi sei tu?»

La donna sorrise, un sorriso forzato che non toccava gli occhi. «Mi chiamo Fishel, sono la dottoressa che ti ha in cura. Sei in una struttura medica sicura. Ti abbiamo monitorata durante la tua guarigione. Devi stare tranquilla, sei al sicuro.»

Lavinia scosse la testa, cercando di rimettere insieme i pezzi. «Guarigione? Non ricordo nulla di una malattia. Perché sono qui?»

La Dottoressa Fischel sembrò esitare per un attimo, poi si sedette accanto al letto. «Prima di rispondere, c’è qualcosa che devi vedere. Vieni con me.»

Nonostante la sua confusione e paura, Lavinia decise di seguirla. Camminarono attraverso un corridoio sterile e illuminato da luci al neon, fino a giungere a una grande sala con pareti trasparenti. Attraverso il vetro, Lavinia poteva vedere letti identici al suo, ognuno occupato da una figura umana. Si fermò di colpo quando vide il volto di una delle persone.

Era lei.

Un'altra Lavinia, identica in ogni dettaglio, giaceva immobile sul letto, collegata a una serie di macchinari. Le gambe di Lavinia tremarono, e dovette appoggiarsi alla parete per non cadere. «Cosa… cosa significa tutto questo?»

La Dottoressa Fischel la guardò, seria. «Lavinia, fai parte del Progetto Sosia, un'iniziativa segreta del governo israeliano. Non sei qui per caso, sei stata selezionata per le tue particolari competenze genetiche e intellettuali. Abbiamo sviluppato una tecnologia che permette di clonare gli esseri umani in maniera perfetta. Quella che vedi è una copia esatta di te stessa. Un tuo clone.»

Le parole la colpirono come un pugno nello stomaco. «Un clone?» Lavinia si voltò verso la Fischel, incredula. «Perché? A quale scopo?»

La Dottoressa Fischel sospirò. «Il Progetto Sosia è stato creato per scopi militari. Vogliamo creare soldati, agenti segreti, uomini e donne capaci di compiere missioni ad altissimo rischio senza mettere in pericolo le persone originali. I cloni non hanno una coscienza propria, sono solo corpi, gusci vuoti che possiamo controllare a distanza. E tu, Lavinia, sei stata scelta per far parte di questo progetto grazie alla tua resilienza genetica. Il tuo corpo si presta perfettamente alla replicazione.»

Le parole di Dottoressa Dottoressa Fischel suonarono fredde, spietate. «Quindi… io sono solo una cavia?» domandò Lavinia, la voce incrinata dal terrore e dal disgusto. «Mi avete portata qui senza il mio consenso per clonarmi e usare il mio corpo come un’arma?»

«Non proprio», rispose la dottoressa Fishel, la sua espressione impassibile. «Il tuo consenso ci è stato dato, anche se forse non in modo del tutto trasparente. Ma la questione è ormai irrilevante. Sei già parte del progetto, e i tuoi cloni sono già in fase di produzione avanzata.»

Lavinia sentì la nausea crescere. «Devo andarmene. Non posso restare qui.»

Ma la Dottoressa Fischel scosse la testa. «Non puoi andartene. Non ancora. Ci sono ancora troppe cose che devi imparare sul Progetto Sosia. Inoltre, non è possibile abbandonare il programma una volta entrati. Sai troppo.»

Le parole della Dottoressa Fischel furono come una condanna. Il cuore di Lavinia batteva all'impazzata, cercava disperatamente una via d'uscita, un modo per sfuggire a quella trappola. «Cosa pensate di fare con me?»

La Dottoressa Fischel si alzò, il suo sguardo freddo e calcolatore. «Abbiamo bisogno di te per perfezionare i cloni. La tua mente è unica quanto il tuo corpo, e abbiamo bisogno di comprendere a fondo come replicare anche il cervello, la coscienza. Non è sufficiente creare copie fisiche, vogliamo che siano come te in tutto e per tutto. Per ora, i cloni sono solo simulacri, ma con il tuo aiuto, potremmo essere in grado di trasferire la coscienza umana da un corpo all’altro. Una vera immortalità.»

Lavinia rimase in silenzio, troppo scioccata per rispondere. La stanza sembrava girarle intorno. L’immortalità? Era questo il vero obiettivo del Progetto Sosia? Non si trattava solo di creare soldati perfetti, ma di superare i limiti della vita stessa.

Con un sussurro spezzato, trovò la forza di parlare. «Non vi aiuterò mai in questo.»

La Dottoressa Fischel si fermò un attimo, il suo volto attraversato da un lampo di compassione, o forse solo di irritazione. «Non hai scelta, Lavinia. Sei già parte del progetto. E non si può tornare indietro.»

Le parole della Dottoressa Fischel risuonarono nella mente di Lavinia mentre veniva condotta in una nuova stanza. La sensazione di essere prigioniera era soffocante. Tuttavia, dentro di lei cresceva una scintilla di resistenza. Non poteva semplicemente accettare il suo destino. Doveva trovare un modo per fuggire, per distruggere quel maledetto progetto e far sapere al mondo cosa stava accadendo in quella struttura segreta.

I giorni passarono, scanditi da esperimenti, test, e conversazioni sempre più criptiche con la Dottoressa Fischel e altri membri dell'équipe medico-militare. Il laboratorio era un dedalo di tecnologie avanzatissime, una combinazione di scienza e follia che si nutriva dell'ambizione umana di controllare l'incontrollabile. Lavinia iniziò a capire come funzionava il sistema, dove venivano stoccati i dati genetici e le informazioni sui cloni. E capì anche una cosa: c'era un punto debole. Se fosse riuscita a penetrare nel server principale e inserire un virus, avrebbe potuto distruggere ogni traccia del progetto.

Ma il tempo stringeva. Uno dei cloni, uno più avanzato degli altri, era quasi pronto per essere “attivato”. Se quel clone avesse funzionato, tutto sarebbe stato perduto. Il giorno dell’attivazione arrivò troppo presto.

Lavinia fu condotta nella sala principale, dove una fila di medici e scienziati attendeva impaziente. Davanti a lei, il suo clone stava per essere svegliato. Le sembrava di guardare sé stessa attraverso uno specchio deformato. «Siamo pronti», disse la dottoressa , con un misto di soddisfazione e timore reverenziale.

Ma Lavinia non lo era. Col cuore in gola, si fece avanti. Un gesto disperato. Fingendo di essere collaborativa, si avvicinò al terminale principale e con un rapido movimento inserì una chiave USB che aveva nascosto.

«Che stai facendo?» chiese Fishel, allarmata.

Lavinia si voltò, uno sguardo risoluto nei suoi occhi. «Sto facendo quello che dovreste fare tutti. Fermare questa follia.»

Premette il tasto di invio. Il sistema andò in tilt. Sirene iniziarono a suonare, luci rosse lampeggiavano ovunque. La Dottoressa Fischel si mosse verso di lei, furiosa, ma era troppo tardi. Il virus si stava propagando nel sistema. I dati venivano cancellati, uno dopo l'altro.

«No!» gridò Fishel, cercando di disattivare il virus, ma Lavinia sapeva di aver vinto. Il Progetto Sosia, quella mostruosità, stava crollando.

Con uno scatto improvviso, approfittando del caos, Lavinia fuggì dalla stanza. C’era solo una cosa da fare ora: sopravvivere.

Dopo diverse traversie riuscì a raggiungere l’Italia pronta ad intraprendere una nuova vita.

Quello che Lavinia al momento non poteva sapere era che in realtà lei stessa era un clone, generato precedentemente grazie ad un modello beta del progetto Sosia.

E con questa realtà si sarebbe misurata solo nei prossimi anni successivi.

Lavinia si alzò lentamente dal sedile dell'aereo mentre i passeggeri intorno a lei si affrettavano a raccogliere bagagli e giacche, preparandosi a scendere. Un misto di eccitazione e stanchezza le pulsava nelle vene. Aveva viaggiato per giorni, con scali e ritardi, ma alla fine era riuscita a raggiungere la sua destinazione: l'Italia. La luce dorata del tramonto, che filtrava dai finestrini dell'aereo, colorava tutto con un calore irreale. "Questa è casa", si ripeté, come per convincersi che davvero era arrivata.

Gli ultimi anni erano stati costellati di decisioni difficili e sacrifici, una fuga costante da persone che non riuscivano a comprendere la sua ricerca di qualcosa di più grande, qualcosa che sentiva le mancasse, ma che non riusciva a definire.

Mentre il portellone dell'aereo si apriva e i passeggeri cominciavano a scendere, Lavinia si fermò per un attimo a guardare il panorama. Aveva sognato questo momento per tanto tempo. Le strade acciottolate delle città italiane, i caffè all'aperto, la sensazione di libertà e rinascita. Era pronta a intraprendere una nuova vita, a lasciarsi tutto alle spalle.

Ora, con i piedi finalmente a terra, Lavinia sentì un senso di sollievo avvolgerla come una coperta calda. Ma questo sollievo fu presto scosso da una serie di piccoli dettagli che cominciarono a farla dubitare. Ogni cosa sembrava troppo perfetta, come se il mondo intorno a lei fosse stato allestito apposta per accoglierla. Le persone che incrociava per strada, anche se sconosciute, le trasmettevano una vaga sensazione di déjà vu.

Per settimane, Lavinia visse con quella sensazione inquietante, come se ogni angolo della sua nuova vita fosse stato preparato in anticipo. Gli appartamenti che guardava erano esattamente come li aveva immaginati, i negozi di quartiere sembravano offrire esattamente ciò che desiderava, e anche le persone che incontrava le dicevano sempre le cose giuste al momento giusto. Ma scacciava questi pensieri, cercando di concentrarsi sul costruire una nuova routine.

Un giorno, mentre era immersa nei suoi pensieri davanti a una tazza di caffè in un bar affollato, il suo telefono vibrò. Era una notifica strana, un messaggio criptico che sembrava essere stato inviato da una rete sconosciuta: "Incontro non programmato. Previa autorizzazione richiesta. Progetto Sosia – Beta."

Lavinia sobbalzò, incapace di comprendere cosa significasse. Cercò di ignorare il messaggio, ma nei giorni successivi altri messaggi simili cominciarono ad apparire, sempre più frequenti, sempre più inquietanti. Parlavano di un progetto segreto chiamato "Sosia", di un modello sperimentale, e menzionavano codici che non aveva mai visto prima.

Le sue notti divennero agitate. Nei sogni, ombre indistinte la seguivano, facce senza nome la guardavano da lontano. La sensazione di essere osservata si intensificava ogni giorno, e Lavinia cominciò a sentire che qualcosa di terribilmente sbagliato stava accadendo. Non era più in grado di ignorare l’evidente stranezza della sua vita, una realtà che sembrava plasmata apposta per lei.

Un pomeriggio, mentre camminava lungo il fiume, decise di confrontarsi con quello che stava accadendo. Si diresse verso uno degli indirizzi misteriosi che aveva trovato nei messaggi. Era un edificio anonimo, nascosto tra i vicoli di un quartiere che sembrava abbandonato. Con il cuore che le batteva in gola, bussò alla porta.

Venne accolta da un uomo di mezza età, con occhiali scuri e un'aria gelida. La invitò a seguirlo senza fare domande. La condusse attraverso corridoi spogli, fino a una stanza illuminata da una fredda luce al neon. Al centro della stanza c’era un grande schermo su cui scorrevano delle immagini di persone, volti diversi, alcuni simili, altri completamente estranei. Ma in mezzo a tutti quei volti, Lavinia riconobbe sé stessa.

L’uomo si girò verso di lei, il suo volto impassibile.

«Benvenuta, Lavinia» disse con una calma inquietante. « Forse ti sei chiesta cosa ci fosse di strano in tutto ciò che hai vissuto finora. È tempo che tu sappia la verità. Sei parte di un progetto sperimentale chiamato Sosia. Sei un clone. »

Lavinia si sentì gelare. Le parole riecheggiavano nella sua testa, ma sembravano impossibili da afferrare.

« Un clone? » riuscì a dire a malapena.

« Sì. Sei stata creata in laboratorio, una copia di una persona che esiste o è esistita, grazie a un prototipo del progetto. Non sei unica, Lavinia. Sei stata generata da un modello beta, una versione preliminare. Ti è stata data una vita, dei ricordi, ma tutto è parte di un esperimento. »

 

Il mondo di Lavinia si capovolse. Tutto ciò che aveva creduto reale era, in realtà, costruito. La sua fuga, il suo viaggio, la sua ricerca di una nuova vita in Italia... tutto orchestrato.

« Ma… perché? Perché proprio io?  » riuscì a chiedere con un filo di voce

« L’obiettivo del progetto Sosia è di perfezionare la clonazione umana. Sei stata inviata qui per osservare come si evolve la tua consapevolezza di te stessa. È un test, Lavinia. Nulla di ciò che hai vissuto è stato lasciato al caso. »

Nei mesi successivi, Lavinia fu costretta a confrontarsi con una verità che avrebbe distrutto chiunque altro. Era un clone, una copia di qualcuno che forse non avrebbe mai conosciuto. Ma ciò che l’uomo del progetto Sosia non poteva sapere era che la sua consapevolezza si stava espandendo oltre i loro controlli. Il clone stava iniziando a sfuggire alle regole del progetto.

Nonostante le rivelazioni devastanti, Lavinia cominciò a costruire una nuova identità. Era determinata a dimostrare che, anche se era stata creata artificialmente, la sua anima, i suoi desideri, erano reali. Forse non era la persona che credeva di essere, ma questo non significava che non potesse diventare qualcosa di diverso, di unico.

E mentre i prossimi anni la videro lottare contro il controllo del progetto Sosia, Lavinia scoprì che la vera essenza di un individuo non risiede nel modo in cui è stato creato, ma nelle scelte che fa, nei legami che costruisce e nei sogni che decide di inseguire.

Lavinia, clone o no, era pronta a vivere davvero.

E fu proprio durante quel periodo che conobbe Daniel e incominciò una relazione che sarebbe durata per ventidue anni.

Fino a quando tutto improvvisamente  vacillò.

 

Amara realtà

Daniel si sedette sulla sedia scricchiolante del suo studio, un bicchiere di whisky mezzo pieno abbandonato sul bordo della scrivania, dimenticato. Gli occhi gli bruciavano, la mente vorticosa, incapace di staccarsi da quell'unica domanda che lo stava consumando: Chi era davvero Lavinia?

Erano trascorso due mesi dal funerale della sua ex moglie. Il pensiero era ancora difficile da accettare. Lavinia non aveva mai mostrato segni di depressione. Certo, il loro matrimonio era fallito, ma erano rimasti in buoni rapporti, due anime separate ma non in guerra. Non c'era alcun segnale che la sua vita fosse caduta in rovina al punto di spingerla al gesto estremo. Finché non entrò in possesso di quella lettera.

Una busta anonima, apparentemente insignificante, che conteneva solo poche righe, scritte a mano in una calligrafia frettolosa e irregolare: era la confessione della verità di Lavinia.

Da quel momento, la vita di Daniel si era trasformata in un incubo di ossessioni, ricerche senza fine, ipotesi folli e notti insonni. Aveva cominciato con la frase più semplice della lettera: "Progetto Sosia". Aveva digitato il nome in ogni motore di ricerca, spulciato forum nascosti nel dark web, contattato vecchi colleghi che lavoravano in laboratori di ricerca genetica. Ma nulla. Nessuno sapeva cosa fosse questo Progetto Sosia. O, se qualcuno lo sapeva, non era disposto a parlarne.

Ogni giorno che passava, Daniel scopriva nuovi dettagli che lo avvicinavano sempre di più alla verità, ma allo stesso tempo lo portavano a sprofondare in un baratro di disperazione. Aveva trovato riferimenti criptici a un laboratorio segreto, finanziato da una misteriosa organizzazione, che sperimentava su esseri umani. Clonazione, manipolazione genetica, esperimenti eticamente discutibili. Era tutto lì, nascosto tra pagine di rapporti scientifici oscurati, ma ogni volta che sembrava essere a un passo dalla soluzione, qualcosa gli sfuggiva. Gli mancavano prove concrete, e ogni giorno che passava era come se un velo di nebbia avvolgesse sempre di più la verità.

Poi, un giorno, il suo telefono vibrò con un messaggio che fece saltare il cuore in gola: « Se vuoi conoscere il Progetto Sosia, ci vediamo alle 23.00 al vecchio magazzino del Vetro. »

Non c’era nome, solo l'indirizzo. Ma Daniel sapeva che non aveva altra scelta. Si era preparato in fretta, la mente divisa tra l'eccitazione per quella nuova pista e il timore di essere seguito, o peggio, manipolato. Il vecchio magazzino era desolato, un relitto industriale abbandonato da decenni. Daniel si aggirò tra le ombre, guardandosi intorno, fino a quando vide una figura incappucciata che si avvicinava lentamente.

« Sei Daniel?» chiese la voce, fredda e decisa. Era difficile distinguere il volto sotto il cappuccio.

"Sì," rispose Daniel, con il cuore che gli batteva forte nel petto. « Sai del Progetto Sosia? »

La figura annuì lentamente, poi tirò fuori da una tasca un piccolo dispositivo USB e glielo porse. «Qui dentro ci sono i dati che stai cercando. Ma ascoltami bene: una volta che entrerai in questo mondo, non potrai pi uscirne. E non sarà quello che ti aspetti. »

« Che cosa vuoi dire? Cosa era Lavinia?! » chiese Daniel, ma la figura fece un passo indietro e scomparve nel buio prima che potesse ottenere una risposta.

Con le mani tremanti, Daniel tornò a casa, inserì il dispositivo nel computer e cominciò a leggere i file. Ogni parola che scorreva davanti ai suoi occhi sembrava una pugnalata al cuore. Il Progetto Sosia era, come sospettava, un progetto di clonazione umana. Lavinia era stata una delle "creazioni". Un clone perfetto, creato per essere una copia di una persona deceduta anni prima, ma programmato per vivere una vita che non era mai stata veramente sua. Avevano usato la sua mente, i suoi ricordi, e li avevano manipolati.

Tutto ciò che Daniel pensava di sapere su Lavinia era una bugia. Non era la donna con cui aveva condiviso anni della sua vita. Non era mai stata vera, nel senso più crudo e inquietante del termine.

I giorni successivi furono un vortice di ricerche frenetiche. Daniel si immergeva in articoli scientifici, saggi filosofici e documenti classificati, cercando disperatamente una risposta: era possibile riportare Lavinia indietro? O, più tragicamente, era possibile che ciò che lei era stata fosse semplicemente un riflesso di qualcosa di più grande e oscuro? Le sue notti erano un'incessante caccia alla verità, mentre le sue giornate si spegnevano lentamente, consumate da ore di letture interminabili.

 

Una notte, mentre i suoi occhi erano ormai appesantiti e la mente intorpidita, trovò un articolo che parlava di un metodo sperimentale di clonazione, in cui la coscienza veniva trasferita in corpi nuovi, giovani, come una sorta di rinascita. Il cuore di Daniel ebbe un sussulto. Se Lavinia era stata clonata una volta, forse poteva esserlo di nuovo. Forse c'era una possibilità di salvarla, di ridare vita a quella donna che, nonostante tutto, lui amava ancora disperatamente.

Ma più leggeva, più la realtà si rivelava crudele. Non si trattava semplicemente di clonare un corpo, ma di catturare l'essenza di una persona, un'anima, se si poteva chiamarla così. Lavinia era stata programmata per fallire. Le sue memorie, i suoi pensieri, persino il suo suicidio, erano stati parte di un disegno, di un esperimento per testare i limiti della psiche umana in un corpo clonato. La sua vita era stata predeterminata, come una marionetta inconsapevole di fili invisibili.

Le notti insonni si erano accumulate nel suo corpo, trasformando le sue energie in una frenetica ossessione.

Lavinia.

Quel nome era diventato il fulcro della sua vita, la ragione della sua ricerca. Ogni pezzo di codice che scriveva, ogni riga di dati che analizzava, tutto era rivolto a lei.

Inizialmente, tutto era sembrato normale, o almeno, così pensava. L'obiettivo dichiarato era quello di studiare la memoria umana e la sua capacità di creare e conservare ricordi, ma con il passare del tempo il progetto aveva preso una piega oscura. Daniel aveva iniziato a sentirsi immerso in qualcosa di molto più profondo, di molto più pericoloso.

Lavinia era il centro del suo lavoro. Appariva nei suoi sogni, invadeva i suoi pensieri, diventava sempre più reale a ogni giorno che passava. Ogni dettaglio del suo volto, delle sue mani, del suo sorriso, si radicava nella sua mente come se fossero ricordi autentici, reminiscenze di un passato condiviso. Ma c’era un problema: Daniel non riusciva a ricordare come l’avesse conosciuta. Non c’era un incontro, un momento specifico che potesse indicare l’inizio della loro relazione. Sapeva solo che doveva trovarla, salvarla. C’era sempre un senso di urgenza, come se fosse in pericolo e solo lui potesse aiutarla.

La ricerca era diventata febbrile. Aveva smesso di mangiare regolarmente, si era allontanato dagli amici, chiuso in un mondo fatto di algoritmi e frammenti di memoria. Ogni volta che sembrava essere vicino a una svolta, una nuova barriera si frapponeva. Più scavava, più la verità sembrava sfuggirgli dalle mani, come sabbia tra le dita. Eppure, continuava.

Quella notte, mentre stava per spegnere il computer per l'ennesima volta, qualcosa cambiò. Una cartella apparve sullo schermo, come se fosse stata attivata da una forza invisibile. Non l'aveva mai vista prima. Il nome della cartella era semplice, una singola parola: "Conclusione".

Con un misto di curiosità e timore, Daniel aprì il file. All'interno c'era un documento criptico, riempito di simboli e codici. Non ci volle molto perché il suo cervello, allenato da anni di programmazione, iniziasse a decifrarlo. Più leggeva, più una realtà inquietante prendeva forma.

Lavinia non era mai esistita. Era stata una creazione artificiale, un esperimento di memoria indotto. Ogni ricordo di lei era stato impiantato nella sua mente come parte di uno studio sulle allucinazioni e le percezioni alterate. Il progetto non era mai stato sulla memoria umana, ma su come manipolarla. L'obiettivo era vedere quanto profondamente potevano controllare una mente umana, quanto potevano spingerla a credere in una realtà creata.

Il senso di tradimento era immenso. Tutto ciò che aveva fatto negli ultimi mesi era stato per un'illusione, per una donna che non era mai stata reale. Ogni momento, ogni pensiero, era stato costruito su una menzogna. L’istituto l'aveva usato come una cavia, un semplice ingranaggio in un esperimento scientifico senza scrupoli.

Con le mani tremanti, Daniel chiuse il file e si alzò dalla sedia. Il peso della verità lo travolse, e la stanza sembrò rimpicciolirsi attorno a lui. Non c’era alcuna Lavinia da salvare, perché Lavinia non era mai esistita. I suoi ricordi di lei erano una costruzione artificiale, un inganno. L’unica cosa che gli rimaneva era mettere fine a quella ricerca febbrile e distruttiva, accettare l’assurdità di tutto ciò che era accaduto.

Con un sospiro profondo, Daniel si diresse verso il computer, deciso a spegnerlo e abbandonare tutto. Avrebbe dovuto ricostruire la sua vita, imparare a convivere con la perdita di qualcosa che non era mai stato reale.

Ma proprio mentre il cursore si posizionava sull'icona di spegnimento, un pensiero inquietante gli attraversò la mente, come un sussurro: E se anche lui facesse parte di questo progetto? Se anche lui fosse solo un’altra pedina, un altro esperimento tra tanti? La domanda lo colpì come un pugno allo stomaco.

Si sedette di nuovo. Aveva passato mesi a inseguire l'ombra di Lavinia, a cercare di salvare qualcuno che non esisteva. Ma cosa significava davvero? E se anche il suo stesso senso di identità fosse solo un’altra illusione creata dall'istituto? Non poteva più fidarsi dei suoi ricordi. Non poteva più essere sicuro di nulla.

Il suo sguardo tornò al computer. C’era solo un modo per scoprire la verità, per capire quanto profondamente l'inganno si fosse radicato dentro di lui. Si chinò verso lo schermo e iniziò a scrivere.

Scavò più a fondo nel sistema, esplorando ogni angolo nascosto, ogni frammento di codice. A mano a mano che proseguiva, nuovi file si aprivano davanti a lui. Rapporti, grafici, annotazioni: ogni dettaglio del progetto era lì. Il nome "Progetto Lavinia" compariva ovunque, ma sempre accompagnato da un altro termine: "Soggetto Zero".

Daniel sentì il cuore accelerare. Soggetto Zero era lui. Tutto era stato costruito attorno alla sua mente, alla sua percezione. Il progetto non era solo su Lavinia, ma su di lui. Lavinia era stata solo il primo strato di un esperimento molto più complesso, un test per vedere fino a che punto si poteva manipolare la psiche di una persona.

Adesso sapeva. Lavinia non era mai esistita, ma lui? Lui esisteva davvero?

Fu allora che il computer si spense da solo. La stanza piombò nell’oscurità totale, lasciandolo solo con i suoi pensieri. Forse quella era la fine. Forse anche la sua ricerca di sé stesso era destinata a rivelarsi inutile.

Ma dentro di lui qualcosa resisteva. Se c’era una possibilità che tutto fosse una menzogna, allora c’era anche una possibilità che ci fosse ancora una verità da trovare. Una verità che doveva essere sua, e solo sua.

Daniel si alzò, questa volta più calmo. Forse non avrebbe mai saputo con certezza cosa era reale e cosa no. Ma era deciso a continuare a cercare. E quella, dopotutto, era la cosa più reale che gli fosse rimasta.

 

«Daniel! Daniel! Sveglia! È mai possibile che non reggi oltre le tre pinte di Guiness? Sei diventato una mammoletta. Dai che ti accompagniamo a casa. Lavinia ti farà una bella tisana e domani sarai un fiore, vedrai. » dissero gli amici di Daniel prendendolo sotto un braccio.

Da quando era tornato dall’Irlanda non si era ancora perso un St. Patrik day e come tutti gli anni tornava a casa abbastanza sbronzo dal pub dove andava a festeggiare con gli amici.

Lavinia lo sapeva, era abituata.

E come ogni anno avrebbe chiuso un occhio.

In fin dei conti Daniel era la persona più sincera e reale che avesse mai conosciuto.

 

La dottoressa Fischel verificò gli ultimi dati trasmessi: il progetto era riuscito perfettamente, oltre ogni aspettativa. Il sistema aveva creato un mondo virtuale rendendo i protagonisti molto reali, addirittura dubitanti, incerti ma anche falsamente autocoscienti di far parte di un progetto artificiale e costruito a tavolino nei minimi dettagli.

Spesso la realtà è frutto di una sofisticata finzione.

O viceversa.

Digitò sulla tastiera data 17 marzo 2025 Fine esperimento. Esito positivo ed archiviò la sottocartella denominandola Lavinia-Daniel e la mise assieme alle altre nella cartella Progetto Sosia.

Si era fatto tardi.

Spense e chiuse il pc.

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