Un viaggio nell’elaborazione del lutto e nella memoria di un’amicizia spezzata nel libro nuovo memoir di Marco Bellomi
Quella mattina di lunedì, però, qualcosa mi spinse a prendere in mano il giornale lasciato sul bancone del bar. Forse la pioggia che cadeva piatta e insistente da qualche ora o forse la coda troppo lunga davanti alla cassa. Era un quotidiano qualsiasi, uno di quelli con titoli gridati in rosso, foto sfocate, volti deformati dalla rabbia o dal dolore.
Lo trovai lì, quasi per sbaglio. Stavo leggendo le notizie del giorno, in quella zona grigia del giornale dove si mischiano i piccoli drammi quotidiani e i titoli dimenticabili. Un angolo della cronaca locale che raramente lascia un segno, fatto di incidenti minori, furti nei negozi, discussioni condominiali finite male.
Eppure, proprio lì, in un trafiletto così piccolo da sembrare messo per sbaglio, lessi un titolo che mi fece gelare il sangue. Non c’erano immagini, non c’erano dettagli, solo poche parole, ma bastarono a spezzare la monotonia con una brutalità che mi lasciò senza fiato:
“Tassista in coma dopo pestaggio. Aveva investito un cucciolo.”
La mente fece fatica a collegare i pezzi. Le parole non si incastravano. Sembravano scollegate, come estratte a caso da due notizie diverse e incollate insieme. Rilessi la frase, una volta. Poi di nuovo. Una terza, come se il significato potesse cambiare col tempo o con la pazienza. Ma ogni lettura aggiungeva solo inquietudine.
C’era qualcosa di profondamente stonato, e non era solo un problema di sintassi o di costruzione. Era il senso stesso della frase che sembrava implodere sotto il peso di qualcosa di più oscuro.
Ero pronto a voltare pagina, a scorrere lo sguardo oltre. Stavo per archiviarlo mentalmente come l’ennesimo episodio di ordinaria follia urbana. Un gesto inspiegabile, uno scatto d’ira, una reazione sproporzionata in mezzo alla strada.
Non mi aspettavo di soffermarmi.
Ma qualcosa mi trattenne. Forse il modo in cui quel titolo sembrava gridare senza alzare la voce. O forse fu quel tassista, nascosto nel corpo del testo, che improvvisamente fece crollare ogni distanza tra me e la notizia.
Fu come una rivelazione, un colpo d’arma da fuoco ma attutito, come sparato sotto l’acqua o ascoltato attraverso una parete spessa. Una sensazione ovattata, eppure inconfondibile. Il petto si strinse. Le mani, ancora poggiate sul tavolo, smisero di muoversi.
Non c’era bisogno di leggere oltre. Sapevo già che era lui.
Da quel momento tutto cambiò.
Così nasce L.
Scrivere come atto di resistere al nulla
La scrittura, in questo contesto, non è mai evasione.
È un modo per restare. Scrivere del dolore significa guardarlo in faccia. Non per comprenderlo, ma per non farsene travolgere. Ogni parola di questo libro è nata da un luogo di disordine, di sconcerto, di impotenza.
Scrivere di Luca — di ciò che è stato e di ciò che non sarà più — significa non permettere che il vuoto si impossessi di tutto. È un modo per dire “tu esisti ancora”, anche quando il mondo sembra averlo dimenticato.
Ogni parola è un tentativo di arginare il silenzio, di impedire che la cronaca si trasformi in oblio.
Quando la realtà diventa insopportabile, la scrittura è l’unico strumento che permette di respirare dentro la sofferenza senza affogare.
È un gesto di costruzione, un modo di restituire ordine al caos, di riempire le crepe con il senso.
Ma scrivere, in questi casi, non significa solo ricordare: significa sopravvivere alla memoria.
Perché la memoria, se non viene trasformata, divora.
Scrivere diventa allora un atto di equilibrio: tra il bisogno di dire e quello di tacere, tra la pietà e la lucidità, tra la rabbia e la compassione.
In questo senso, resistere al nulla non è soltanto un fatto individuale: è una forma di responsabilità verso chi resta, verso chi legge, verso chi non ha più voce.
Ogni pagina di L nasce da questa tensione.
Dal bisogno di salvare qualcosa — un volto, un gesto, una risata, una frase detta di sfuggita — prima che il tempo la cancelli.
Perché il nulla, nel lutto, non è solo la morte: è l’indifferenza, la dimenticanza, l’assenza di significato.
Scrivere diventa allora il contrario della resa:
una dichiarazione di presenza, un atto d’amore che si oppone al silenzio e alla scomparsa.
È un dire al mondo: “questa vita è esistita, e continua a parlarci.”
Quando si scrive dopo una perdita violenta, si tenta di ricostruire un senso nel frammento, un filo nel caos. Non per chiudere la ferita, ma per darle un contorno umano. Scrivere diventa allora un atto d’amore verso chi non c’è più — e verso se stessi.
Il lutto come atto di civiltà
Quando una morte nasce dalla violenza, il lutto smette di essere un fatto privato e diventa un gesto di civiltà.
Non si tratta solo di ricordare chi non c’è più, ma di riaffermare che la vita umana ha un valore che nessun gesto d’ira o d’odio può calpestare.
Il lutto collettivo, quando nasce da una ferita inferta alla comunità, è una forma di resistenza morale: è la scelta di non accettare l’assurdo come norma, di non abituarsi alla brutalità, di non archiviare la tragedia tra le pagine di cronaca.
Viviamo in un tempo in cui la memoria si consuma in fretta. Le notizie si sovrappongono, le tragedie si confondono, e l’indifferenza diventa una forma di difesa. Ma il lutto — se lo si attraversa davvero — è l’esatto contrario dell’indifferenza.
È un atto di attenzione, di cura, di restituzione.
È la decisione consapevole di fermarsi, di guardare, di ricordare, anche quando il mondo preferirebbe andare avanti come se nulla fosse.
Elaborare un lutto, allora, significa anche restituire dignità al dolore.
Significa opporsi alla rimozione collettiva che ci anestetizza.
Ogni volta che una vita viene cancellata da un gesto di violenza, l’atto di ricordare è una forma di giustizia che non si consuma nei tribunali, ma nella coscienza.
Perché la vera giustizia — quella che resiste al tempo — è il modo in cui scegliamo di ricordare.
Il lutto civile non è una cerimonia, ma una forma di responsabilità condivisa.
È la costruzione silenziosa di una memoria comune che tiene insieme il tessuto umano di una società.
Quando una comunità si raccoglie attorno a una vittima, non lo fa solo per pietà o per dolore: lo fa per riconoscersi ancora come umana, per riaffermare che c’è un limite che non può essere superato senza che tutto, dentro e fuori di noi, si spezzi.
Ecco perché ricordare Luca — e chi come lui è stato vittima dell’ingiustizia o dell’odio — non è soltanto un gesto personale o affettivo.
È un gesto politico nel senso più alto e nobile del termine: riguarda la polis, la comunità, la nostra capacità di rimanere vivi come esseri morali.
Il lutto civile, in questo senso, è un atto creativo.
Non costruisce monumenti di pietra, ma spazi di consapevolezza.
È l’arte di fare memoria senza trasformarla in retorica, di mantenere viva la ferita senza lasciarsene schiacciare.
È un modo per dire: “Noi non dimentichiamo, ma neppure ci arrendiamo.”
L’elaborazione del lutto, quando diventa atto di civiltà, apre una possibilità di riscatto.
Non nel senso di “compensare” la perdita — ciò è impossibile — ma nel senso di darle un significato che possa parlare anche agli altri, alle generazioni che verranno.
La memoria condivisa diventa così un argine contro la barbarie, una diga fragile ma necessaria contro la superficialità e la disumanizzazione che avanzano ogni volta che ci abituiamo al dolore altrui.
In fondo, il lutto civile è un modo di amare.
È l’amore nella sua forma più adulta e responsabile: quello che accetta la perdita e la trasforma in impegno, che prende il dolore e lo trasfigura in testimonianza, che riconosce la vulnerabilità come fondamento della convivenza.
Per questo, ogni volta che una comunità si ferma a ricordare, compie un atto di civiltà.
Ogni nome pronunciato, ogni storia raccontata, ogni silenzio condiviso è un filo che tiene insieme ciò che rischierebbe di sbriciolarsi.
E forse, proprio lì, nel gesto collettivo del ricordare, nella scelta di non voltarsi dall’altra parte, si trova il vero senso del kintsugi dell’anima: la crepa diventa dorata, la ferita si trasforma in un segno di forza, e la memoria — finalmente — torna a essere un luogo di incontro.
Elaborare un lutto non è mai un gesto privato. Anche quando sembra confinato dentro le mura del silenzio, è sempre un atto che riguarda la comunità, la memoria collettiva, il modo in cui scegliamo di guardare il dolore.
Viviamo in un tempo che teme la sofferenza come un contagio: si evita, si sterilizza, si copre con un linguaggio tecnico o con la fretta. La morte, specie se violenta, diventa un incidente di percorso, una notizia da archiviare, qualcosa da dimenticare in fretta.
Eppure, se la civiltà ha un fondamento, è proprio nella capacità di fermare lo sguardo. Di non distogliere.
Elaborare un lutto — soprattutto quello che nasce da una ferita ingiusta, da un gesto assurdo — significa restituire senso a ciò che il senso sembra averlo perduto.
Non è un atto consolatorio, ma un gesto di resistenza contro il disumano.
È il contrario della rimozione: è memoria attiva, è cura della ferita come testimonianza.
In questo senso il lutto è un atto politico, prima ancora che personale: implica la scelta di restare umani, di non lasciarsi travolgere dal cinismo o dall’indifferenza.
Nel mio percorso, il lutto per Luca non è stato soltanto dolore. È diventato domanda.
Come si può abitare un’assenza senza trasformarla in abisso? Come si può riconoscere la violenza senza imitarla?
Ogni civiltà degna di questo nome ha costruito riti per dare forma all’assenza. Noi, oggi, li abbiamo quasi dimenticati. Ma senza quei riti, senza quella memoria, la frattura resta aperta e la società perde il proprio linguaggio emotivo.
Scrivere L è stato, per me, un modo per ritrovare quel linguaggio.
Come nel kintsugi, l’antica arte giapponese che ripara la ceramica con venature d’oro, ho cercato di comporre la frattura senza nasconderla.
Ogni parola del libro è una sutura, un frammento rimesso insieme non per cancellare la ferita, ma per renderla visibile, per darle dignità. Il kintsugi dell’anima
Nel kintsugi, , le fratture non vengono nascoste ma esaltate.
È la metafora che più mi rappresenta: non rimettere insieme i pezzi per tornare com’erano, ma dare valore alla rottura.
La frattura non è la fine: è il punto da cui può nascere qualcosa di nuovo.
Il lutto diventa così una forma di civiltà interiore: la capacità di guardare il dolore e, invece di distruggerlo o negarlo, trasformarlo in una forma di conoscenza, in un segno di continuità.
Il kintsugi non nasconde le ferite: le esalta.
Ogni crepa diventa linea d’oro, traccia visibile del dolore e della rinascita. Allo stesso modo, chi ha attraversato un lutto violento non torna più “come prima”, ma può diventare più autentico, più lucido, più capace di compassione.
Le cicatrici interiori non sono un fallimento della guarigione, ma la prova che la guarigione è avvenuta.
Elaborare il lutto, in fondo, significa trasformare la rottura in forma.
È l’arte di vivere con ciò che non può essere aggiustato, ma può essere reso prezioso.
Ogni lacrima, ogni memoria, ogni atto di amore verso chi non c’è più è una pennellata d’oro sulle crepe dell’anima.
Il lutto come lavoro dell’anima
Il lutto non è un processo lineare. È una spirale che ti riporta indietro proprio quando pensavi di essere andato avanti. È un lavoro dell’anima che non finisce mai.
Quando la morte arriva per mano della violenza, non si piange solo la persona perduta, ma la perdita del senso stesso del mondo.
Elaborare un lutto non significa dimenticare, ma integrare l’assenza. Significa convivere con una mancanza che diventa parte di te.
Non si torna “come prima”, ma si può — lentamente — diventare altro: più vulnerabili, più consapevoli, forse più veri.
Il perdono come libertà
Quando si parla di perdono, molti immaginano una sorta di rinuncia alla giustizia.
Ma per me è il contrario.
Perdonare — nel senso laico e umano del termine — è un atto di disobbedienza alla logica della violenza.
È dire: “non ti lascerò vincere, non permetterò che la tua brutalità mi contagi, che mi renda simile a te”.
Non perdoni per cancellare, ma per non diventare prigioniero del rancore.
Perché l’odio, se lo nutri, diventa un veleno che ti abita, una catena invisibile che lega la tua vita a quella del colpevole.
Perdonare, invece, è spezzare quella catena.
È dire: “io continuerò a credere nella luce, anche quando tutto intorno è buio”.
Non c’è religione in questo, solo una etica della sopravvivenza interiore.
Il perdono, visto così, non è una virtù morale, ma un atto di autodifesa della propria umanità.
Il perdono, quando arriva — se arriva — è una forma di libertà.
Non per gli altri, ma per se stessi.
Non per cancellare, ma per non restare prigionieri dell’odio.
Il perdono laico non giustifica, ma trasforma.
Oggi so che la ferita non scompare.
Ma ha cambiato luce.
L’oro del kintsugi brilla lungo la crepa e la trasforma in bellezza.
Così, dentro di me, la memoria di Luca non è più solo dolore: è una forza silenziosa, una lezione di umanità.
“Non tutto ciò che si spezza è perduto. A volte, proprio lì, comincia a brillare la luce.”










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