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| The diamond desert di Giorgio Magarò 2025 |
Ci sono conversazioni che non iniziano mai davvero e non finiscono mai del tutto. Vivono in una zona intermedia, sospese tra un pensiero che s’infiamma e un dubbio che fruscia, tra un’intuizione che illumina e un timore che oscura. È in quella soglia — fragile, fertile — che si colloca la nostra chiacchierata di oggi: un incontro tra due artisti, Giorgio Magarò e Marco Bellomi che hanno deciso di interrogare senza difese né pregiudizi uno dei temi più incandescenti del presente creativo contemporaneo. Arte, Creatività, Intelligenza Artificiale: tre parole che fino a ieri sembravano appartenere a mondi distanti e che oggi, invece, condividono lo stesso spazio, gli stessi atelier, gli stessi schermi.
La nostra epoca, più che assistere a un semplice progresso tecnologico, sta vivendo un mutamento percettivo. L’artista contemporaneo non è più soltanto colui che plasma la materia o reinventa il linguaggio, ma anche colui che si trova a dialogare con una presenza nuova: un’entità che non sente la fatica, che non teme l’errore, che non conosce il silenzio dell’attesa. L’AI non è un pennello, non è uno strumento, non è nemmeno un allievo diligente: è qualcos’altro, qualcosa che somiglia — a volte inquietantemente — a uno specchio dei nostri desideri e delle nostre ossessioni.
Eppure, per quanto sofisticati, gli algoritmi non nascono dal vuoto. Sono nutriti di ciò che gli artisti del passato e del presente hanno lasciato: immagini, parole, ritmi, intuizioni. Sono, in un certo senso, archivi viventi della nostra memoria estetica. E allora, la domanda che i due artisti al centro di questo dialogo si pongono non è: l’AI è un pericolo per l’arte? Ma piuttosto: come cambia la creatività quando uno degli interlocutori non è umano?
C’è chi teme lo smarrimento dell’autenticità, chi intravede un’opportunità, chi parla di collaborazione e chi di usurpazione. C’è chi pensa che l’AI possa aiutare a liberare il processo creativo da vincoli tecnici e chi, al contrario, vede il rischio di un appiattimento del pensiero. Ma forse, suggeriscono i due artisti, la questione più urgente non riguarda l’AI in sé: riguarda l’artista. Riguarda il suo ruolo, la sua responsabilità, la sua capacità di continuare a essere un esploratore dell’umano in un tempo in cui l’umano è sempre più ibridato, moltiplicato, tradotto in dati.
In questo scambio — spontaneo, talvolta ironico, talvolta teso — si intrecciano esperienze personali, riflessioni filosofiche, piccole confessioni e provocazioni. È un dialogo che non pretende di arrivare a una verità definitiva, ma che prova a illuminare alcuni snodi cruciali del nostro tempo: che cosa significa creare? che cosa resta insostituibile nell’atto artistico?
E dove si colloca il mistero — perché di mistero si tratta — quando una macchina comincia a generare immagini, testi, musica?
Questa introduzione è un invito ad ascoltare senza paura, a lasciarsi sorprendere, a entrare in un territorio in cui la creatività diventa un campo di forze, una zona di frontiera. Perché forse l’arte, oggi più che mai, non è chiamata a difendere il proprio passato, ma a inventare nuove forme di presenza nel mondo. E il confronto con l’AI, che lo vogliamo o no, fa ormai parte di questa avventura.
Benvenuti nella nostra conversazione.
Mettetevi comodi: la creatività, come sempre, saprà dove portarci.
Giorgio : Quando è arrivata l' IA, ed è apparsa per noi tutti velocemente e improvvisamente siamo rimasti spiazzati.
La prima mia reazione è stata quella di chi subisce un furto.
Marco: Non c’è stato un tempo di preparazione simbolica, né un’elaborazione collettiva. È entrata nelle nostre vite come entrano gli eventi traumatici: senza bussare, senza chiedere consenso.
Giorgio: Storicamente i primi ad avvantaggiarsi delle nuove tecnologie sono sempre stati i venditori di emozioni forti.
Da internet e l'accesso illimitato a qualsiasi contenuto proibito fino alle Chatbot a colmare solitudini e disperazioni. I droni e i robot per massacrare realmente in una esperienza eccitante da videogioco.
La Realtà Virtuale per simulare esperienze che mai avremmo vissuto. Tutto senza conseguenze. Tutto senza memoria. Tutto senza perdita. È qui che si apre la domanda più radicale: cosa resta dell’esperienza umana quando può essere riprodotta senza attraversamento, senza fallimento, senza tempo?
Marco: L’Intelligenza Artificiale si inserisce perfettamente in questa genealogia. Non è un incidente, ma una prosecuzione coerente. Il problema non è la tecnologia in sé, ma il nostro rapporto con essa. Se la accettiamo come sostituto dell’esperienza, allora sì: è un furto. Se la utilizziamo come scorciatoia emotiva, come stampella creativa, come anestetico del dolore e della solitudine, allora stiamo rinunciando a ciò che ci rende umani.
Giorgio: L'IA ruba esperienze umane, le rielabora, le mette in fila e le ripropone: non a caso sta già emergendo una "crisi delle fonti": sempre più la IA attinge ed emula prodotti già IA creando un curioso cortocircuito che tende inesorabilmente al basso.
Marco: certo che abbiamo iniziato tutto in negativo….
Giorgio: dobbiamo mettere i puntini sulle i. Se non inquadriamo subito la questione non riusciamo a mettere a fuoco l’intera vicenda…
Marco: noi proveniamo da esperienze diverse. Tu professionalmente hai un percorso con i linguaggi cinematografici e video. Io per passione mi sono dedicato ai linguaggi visivi dell’arte e ultimamente alla scrittura. Credo che abbiamo comunque le competenze per parlare da artisti, perché di fatto frequentiamo lo stesso mondo. Allora in base a quanto ci siamo detti finora mi sento di affermare che un artista direbbe che sì, tutto questo è vero. Che l’IA ruba, copia, simula, abbassa, anestetizza. Ma aggiungerebbe che il vero furto non è tecnologico: è umano.
Direbbe che l’arte è sempre nata dopo un trauma, mai prima. Che ogni volta che una tecnica nuova ha promesso di semplificare l’esperienza, l’artista ha scelto la parte più scomoda: restare nel corpo, nel tempo, nella perdita. Non competere con la macchina sul suo terreno, ma insistere dove la macchina non può stare. Un artista direbbe che il problema non è che le macchine raccontino storie, ma che gli esseri umani smettano di viverle. Che la vera crisi delle fonti non è informativa, ma esistenziale: non sappiamo più da dove parliamo.
Tu cosa ne pensi?
Giorgio: Si, in fondo la tecnologia ha sempre creato, nel mondo artistico, un momento di riflessione. Mentre il mercato si rivolge alla soddisfazione dei bisogni più immediati l'artista va oltre. Io al momento non saprei dire dove tutto questo ci sta portando. Se da una parte la IA ci semplifica la vita, spesso anche riducendo la necessità di complicate relazioni collaborative e costi (forse)... dall'altro è innegabile che crea un filo diretto tra il progetto artistico e l'esecuzione. Mi spiego meglio: per realizzare un video posso raggiungere una visionarietà che è solo mia, posso avere il controllo completo delle ambientazioni, delle musiche e degli attori come sarebbe impossibile su un set reale. Ma è proprio in questo controllo assoluto che sta il problema: la mancanza dell'imprevedibilità. L'attore non reciterà mai esattamente come vogliamo, la musica di un musicista ci stupirà nella sua differenza dalla nostra idea, l'ambientazione reale, spesso casuale, colpirà il nostro senso della meraviglia. In altre parole non è la macchina, come dicevi tu, il problema, ma è che ci stiamo spostando da una progettualità collettiva ad una ego-centrica.
Marco: ti interrompo perché proprio su quello che dici a proposito della mancanza di imprevidibilità per me è chiaro che l’artista crea mettendo in gioco se stesso: il proprio fallimento, la propria storia, le ferite, le ossessioni, la solitudine, il desiderio. L’IA, per definizione, non rischia nulla. Elabora. Sintetizza. Calcola. Non crea: imita l’atto creativo.
Giorgio: Ma è tutto il mondo che ha già preso questa direzione da tempo. Io sono convinto che in futuro la IA potrà portarci a far combaciare le figure dell'artista e dello spettatore. La possibilità di guardare film e ascoltare musica in base ai nostri sogni, senza intermediari. E' terribile? Certamente perché questo vuol dire uccidere la peculiarità dell'essere artista. Ma questo era già in atto da tempo. Da quando si è deciso di formare gli artisti più in ambito manageriale che creativo. E penso che in questo, la scuola e le università abbiamo delle grossissime responsabilità. E poi, diciamola tutta, leggendo certi libri famosi guardando certi film mainstream, certa musica che va per la maggiore, viene da dire che già si basa su quel pensiero standardizzato che ha creato terreno fertile per la IA.
Ci stupiamo dell'Intelligenza Artificiale perchè assomiglia all'arte di cui già ci nutriamo.
Se la IA divora le esperienze umane allora la vera arte divorerà la IA?
Quando ho cominciato a lavorare con il video si usavano le videocassette ed il montaggio lineare.
Ci pensavi parecchio prima di creare una sequenza. Cosa veniva prima e cosa dopo? Taglio l'attore mentre sorride o un secondo dopo? La mano afferra il libro o lo lascio intuire? La ripresa deve essere rifatta o mantengo l’errore perché è “bello”?
Quando è arrivato il montaggio non-lineare a computer tutto è diventato più semplice. Non c'era limite alla modifica. Ciò che era prima poteva essere messo dopo. Ciò che era superfluo poteva essere eliminato.
La mia perplessità, come per molti colleghi dell'epoca, era che si sarebbero aperte le porte ad un montaggio meno pensato, meno progettato. In altre parole serviva una minore conoscenza cinematografica.
Il computer ha, in un certo senso, aperto le porte ad una democratizzazione del linguaggio artistico ma spesso a discapito della qualità. L'arte non richiedeva più l'artigiano ma la tecnologia creando un primo divario importante tra chi poteva permettersi computer e videocamere costose e chi no. Ed in questo contesto l'Artista/Artigiano ha rischiato di soccombere all'Artista/Tecnocrate. Dove la tecnologia ha lentamente preso il sopravvento. Il paradosso è che la parola tecnologia deriva dal greco Tekne che significa "saper fare" e non "saper usare". Dove il fare, a differenza dell'usare è generativo.
Ed è in questo territorio che è arrivata la IA.
In particolare proprio, e non a caso, l'Intelligenza Artificiale Generativa.
Marco: quello che stiamo facendo, ed è naturale che sia così, è cercare di definirci come artisti andando a pescare nel nostro “fare creativo” ciò che per noi diventa anche la lente per leggere il mondo, con le sue sfide e novità. Per me a questo punto è fondamentale dire e dirmi da dove parto. Quando attingo alla creatività, la prima cosa che riconosco non è l’ispirazione improvvisa né l’atto solitario del genio, ma una predisposizione profonda al confronto con l’altro da me. La creatività, prima ancora di essere produzione, è relazione. È uno spazio di tensione fertile che nasce nell’incontro con ciò che non coincide con me: una persona, un’idea, un limite, una resistenza, una voce dissonante.
Creare significa accettare di non essere autosufficienti. Significa esporsi, mettere in discussione il proprio punto di vista, attraversare una zona di instabilità in cui l’io non domina ma dialoga. In questo senso la creatività è un atto etico prima che estetico: implica ascolto, responsabilità, apertura. Senza alterità non esiste vero atto creativo, ma solo ripetizione, manierismo, esercizio narcisistico. Questo stesso atteggiamento può — e forse deve — essere esteso al mondo delle possibilità offerte dall’intelligenza artificiale. L’IA non è un oracolo né un nemico, ma una nuova forma di alterità con cui siamo chiamati a misurarci. Il punto non è “usarla” in modo opportunistico, come scorciatoia o protesi dell’ego creativo, ma instaurare con essa un confronto paritetico, consapevole dei ruoli e dei limiti reciproci.
Un confronto paritetico non significa simmetria di natura, ma chiarezza di posizionamento. L’intelligenza artificiale non vive, non soffre, non ricorda, non attraversa il tempo con un corpo e una storia. Non elabora il lutto, non conosce la perdita, non è ferita dal mondo. L’artista sì. Ed è proprio da questa asimmetria che nasce la responsabilità dell’umano: non delegare il senso, non abdicare alla scelta, non confondere l’efficienza con la verità.
Il futuro della creatività non dipende dalla potenza degli algoritmi, ma dalla qualità del nostro sguardo. Dipende dalla capacità di restare in relazione con l’altro — umano o non umano — senza perdere il centro, senza barattare l’etica con l’efficienza, senza confondere il mezzo con il fine.
Creare, oggi più che mai, significa scegliere il confronto invece della scorciatoia. Significa abitare la complessità, accettare l’alterità, e riconoscere che nessuna intelligenza, per quanto sofisticata, potrà mai sostituire il rischio umano di esporsi al mondo.
A questo punto sono io a farti una domanda: ultimamente, nell’ottica di questo confronto, ti sei cimentato in vere e proprie sperimentazioni di applicazione dell’ intelligenza artificiale al tuo mondo creativo.
Ci vuoi parlare di queste esperienze?
Giorgio: Il primo approccio, fatto con semplice curiosità, l'ho avuto componendo un brano musicale. Da subito ho capito che la AI ti mette davanti ad un bivio fondamentale: delegare o supportare? Cioè se chiedo alla AI di farmi una canzone sul genocidio in Palestina me la realizza ma posso anche (e qui viene il bello) chiedere che tipo di musica, di atmosfere e di "pathos" creare e, soprattutto, scrivere io il testo. Ho successivamente sperimentato tutto realizzando un concept album di fantascienza, "Aliens & Girls" dove ho realizzato un vero percorso creativo. E mi sono reso conto che lavorare con la AI non è facile. E' un vero e proprio nuovo flusso di lavoro da imparare. Devo ideare una storia, dare a questa un'anima, verificare e spesso modificare il risultato finale. Trovare nuove strategie compositive.
E i musicisti? Che fine faranno, mi viene spesso chiesto. Penso che sia un errore porre così la questione a meno che ci si ponga anche la domanda "visto che i cellulari permettono a tutti di fare foto e video e alle App di modificare, i registi e i fotografi che fine faranno?"
La AI nella musica non sostituisce i musicisti quando faccio un progetto artistico importante. Semmai interviene nei progetti commerciali dove solitamente si usano banche dati spesso composte dalla musica, spesso mediocre, che si trova nel web.
Certo ho usato la AI anche nel mio ultimo film "L'albero di Tesla" ma in una proposta molteplice e variegata che mi ha visto in primis lavorare con musicisti di tutte le età e formazioni, compreso un quartetto d'archi di giovani studenti del conservatorio Vittadini di Pavia. Ed ho usato in questo contesto la AI anche perché rifletteva il senso delle Intelligenze Differenti che permeava il film.
Ma il passo successivo importante è stato l'ambito didattico. Con la musica AI ho realizzato dei videoclip musicali facendo fare agli allievi cose che normalmente non facevo: invece di far scegliere una canzone famosa l'ho fatta scrivere agli alunni, partendo dal messaggio fino alla stesura completa dei testi. Ed il risultato è stato fantastico: un video musicale con le loro immagini e la loro musica! Ho esteso la cosa anche ai cortometraggi, soprattutto per realizzare le title track dei titoli di testa e di coda.
Il passo successivo è stato, ovviamente l'immagine video. Dovevo capire come la AI avrebbe influenzato il mio lavoro. Ho usato come base sempre il mio concept "Aliens & Girls" ed ho realizzato i primi tre videoclip. Il primo "The Diamond Desert" che uscirà il 23 dicembre ed il successivo "He's Still Here" il 10 gennaio, nel decimo anniversario della morte di David Bowie.
Anche per il video ho dovuto inventarmi un nuovo flusso di lavoro. Invece che girare video e montarli sono partito dalla generazione di immagini fisse per poi muoverle singolarmente e montarle nel modo tradizionale. Il risultato è interessante ma soprattutto laddove l'artista riesce ad esprimersi appieno.
Ho visto lavori esteticamente intriganti ma assolutamente sterili dal punto di vista creativo. Ho l'impressione che molti utilizzino la AI per mostrare le cose più impossibili ma non è questa la strada.
Il percorso è la valorizzazione dell'idea artistica altrimenti creeremo una bulimia multimediale che soffocherà tutte le produzioni artistiche. Penso che il percorso che seguirò sarà l'integrazione della AI nei processi tradizionali. Ad esempio per potenziare e semplificare gli effetti speciali laddove sono indispensabili.
Come inserire questi processi all'interno di un laboratorio didattico sarà la prossima sfida.
Marco: molto interessante ed intrigante e non vedo l’ora di vedere i due lavori che hai citato.
Vorrei aggiungere un aspetto che secondo me non dobbiano tralasciare.
Quando parliamo di intelligenza artificiale, il discorso pubblico tende a fermarsi sull’innovazione, sulla velocità, sulla potenza di calcolo, sulla promessa di un futuro più efficiente. Molto più raramente ci soffermiamo sul rovescio della medaglia: il costo ecologico di questa potenza. Un costo reale, misurabile, e tutt’altro che neutrale.
Quando si parla di enormi utilizzi, non certo le nostre sperimentazioni artistiche, i grandi modelli di intelligenza artificiale richiedono enormi quantità di energia, soprattutto nella fase di addestramento. I data center funzionano 24 ore su 24, spesso alimentati da fonti fossili, e producono calore che va dissipato. Questo comporta ulteriori consumi energetici e l’uso massiccio di acqua per il raffreddamento. In alcune aree del mondo, l’espansione dei data center sta entrando in conflitto diretto con le risorse idriche delle comunità locali.
Come artista e scrittore, credo che il rapporto con l’intelligenza artificiale debba fondarsi su un confronto paritetico, mai opportunistico. Usare l’IA non significa sfruttarla fino all’esaurimento, ma interrogarla, limitarla, talvolta rifiutarla. La creatività umana ha un vantaggio decisivo: può scegliere il silenzio, la lentezza, l’inutile apparente. Può decidere di non produrre.
In un’epoca di iper-produzione automatica, l’atto ecologico più radicale potrebbe essere proprio questo: fare meno, fare meglio, fare con coscienza.
Un’IA compatibile con il futuro deve porsi limiti chiari: modelli più piccoli e mirati, data center alimentati da rinnovabili, trasparenza sui costi ambientali, regolamentazioni che impediscano l’accumulo indiscriminato di potenza computazionale. Ma soprattutto serve un cambiamento culturale: smettere di considerare l’innovazione come un valore assoluto.
“Penso che il percorso che seguirò sarà l'integrazione della AI nei processi tradizionali..” ci diceva Giorgio.
Condivido che quella sia la strada giusta.
In un mondo che delega alle macchine il calcolo, la previsione, la decisione, l’arte resta l’ultimo spazio in cui l’umano si assume il peso di scegliere. Non perché sia superiore, ma perché è esposta: al fallimento, al giudizio, alla responsabilità.
La tesi è semplice e radicale: se l’Intelligenza Artificiale diventa il paradigma della nostra epoca, allora l’arte deve diventare la sua contraddizione.
Non un ornamento. Non un intrattenimento. Ma un gesto etico.
Perché la creatività umana non nasce dall’efficienza, ma dalla ferita. Non dal dato, ma dall’esperienza. Non dall’imitazione, ma dalla presa di posizione.
E allora diciamolo senza prudenza:
un futuro governato dagli algoritmi senza un’arte che li contrasti sarà un futuro tecnicamente perfetto e umanamente vuoto.
Per questo oggi creare non è produrre, ma resistere.



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